Visualizzazione post con etichetta Mitologia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Mitologia. Mostra tutti i post

4 maggio 2023

The lighthouse (Robert Eggers, 2019)

The Lighthouse (id.)
di Robert Eggers – USA/Canada 2019
con Robert Pattinson, Willem Dafoe
***

Visto in TV (Netflix).

Alla fine dell'Ottocento, due uomini giungono su un'isola brulla e lontana dalla costa: dovranno rimanerci per un mese, a guardia del faro che lì si trova. La convivenza si dimostra subito difficile: il più anziano dei due (Willem Dafoe) assume per sé il comando e si arroga l'accesso esclusivo alla "luce", ovvero la lanterna del faro (con cui ha una relazione quasi mistica), relegando il più giovane (Robert Pattinson) a faticose incombenze e lavori di manutenzione. Col passare del tempo, per via della fatica, della solitudine, e mentre una tempesta scuote l'oceano e la barca che avrebbe dovuto dar loro il cambio non arriva, la salute mentale del giovane si deteriora sempre più, tanto da perdere la cognizione del tempo e da essere soggetto a sogni bizzarri e visioni di sirene e di strane creature. Il secondo lungometraggio di Robert Eggers, sceneggiato insieme al fratello Max (che inizialmente voleva ispirarsi a un racconto incompiuto di Edgar Allan Poe noto appunto come "Il faro"), è in realtà una rilettura del mito di Prometeo, come testimonia la scena finale: i due protagonisti (unici personaggi in tutto il film, se non contiamo la sirena – interpretata da Valeriia Karamän – che appare nelle visioni del giovane) rappresentano rispettivamente Zeus, la divinità che custodisce gelosamente la "luce" (ma con evidenti aspetti anche di Proteo, divinità marina, profetizzante e mutaforma), e Prometeo, o se vogliamo l'intero genere umano, che la agogna come la conoscenza per risollevarsi dalle fatiche in terra. Girato in un rigoroso bianco e nero e in formato 4:3, il film è cupo, austero, apparentemente enigmatico: lo sostengono, oltre all'eccellente prova dei due interpreti (in particolare Dafoe), l'elegante regia e l'espressiva fotografia (di Jarin Blaschke, candidata all'Oscar), benché lo stile sia a tratti un po' calcato e pretenzioso. Oltre ai sottotesti mitologici/religiosi, notevoli anche quelli psicologici, dal gaslighting al rovesciamento dei rapporti di forza nel finale, dalla rimozione del passato ai sensi di colpa che affiorano mediante i sogni (Eggers ha affermato di essere stato influenzato sia da Freud sia da Jung), nonché quelli legati alla sessualità (nella scena in cui Pattinson si masturba, il faro stesso diventa un simbolo fallico).

23 settembre 2022

Thor: Love and Thunder (Taika Waititi, 2022)

Thor: Love and Thunder (id.)
di Taika Waititi – USA 2022
con Chris Hemsworth, Christian Bale
*1/2

Visto in TV (Disney+).

Dopo un periodo trascorso nello spazio, un Thor sempre più magniloquente, stupido e fanfarone (Chris Hemsworth) torna sulla Terra per affrontare Gorr (Christian Bale), il "macellatore di dei", che intende sterminare tutte le divinità dell'universo. Con l'aiuto di Jane Foster (Natalie Portman), la sua ex che ha ottenuto dal redivivo martello Mjolnir la capacità di trasformarsi in una variante di Thor al femminile, nonché della Valchiria (Tessa Thompson) e dell'alieno Korg, il nostro eroe cercherà di impedire al nemico di raggiungere Eternità, entità cosmica in grado di esaudire i desideri. Il quarto lungometraggio dedicato al dio del tuono, il secondo diretto da Taika Waititi dopo "Thor: Ragnarok", è uno dei film del Marvel Cinematic Universe più brutti di sempre. Il finale (leggermente) a sorpresa, e in generale tutto ciò che ruota attorno all'antagonista (che però si vede troppo poco), non bastano a nobilitare una trama semplicistica e retorica, dei dialoghi mediocri, un umorismo la cui qualità va dall'infantile all'imbarazzante (intendiamoci: è sempre lo stesso umorismo goffo e adolescenziale di tutti i film Marvel, ma stavolta appare di livello ancora più basso, vedi per esempio la scena in cui Thor viene denudato da Zeus), personaggi vacui dalla caratterizzazione ondivaga o esilissima, una recitazione scadente, una colonna sonora orribilmente random, la brutta CGI e in generale l'estetica da videogioco. L'atmosfera, per la maggior parte della pellicola, è quella di uno scherzo continuo, una buffonata con occasionali momenti "seri" (la malattia di Jane, le origini di Gorr) che generano una tremenda dissonanza tonale. E se il tutto è impossibile da prendere sul serio, manca anche quel senso di divertimento spontaneo e scanzonato che rendeva gradevole il precedente episodio. Fra le cose potenzialmente interessanti (ma trattate come una barzelletta), la "gelosia" fra le varie armi di Thor, come quella che l'ascia Stormbreaker prova verso Mjolnir, mentre la breve sequenza ambientata nella dorata città degli dei (dal ridicolo nome di Omnipotence City) sembra la parodia di un film di Tarsem Singh o del "Gods of Egypt" di Alex Proyas. Pochi o irrilevanti, stavolta, i collegamenti con gli altri film Marvel (giusto la presenza, all'inizio, dei Guardiani della Galassia), mentre abbondano quelli ai precedenti capitoli di Thor. Le due capre, oltre che dalla mitologia norrena, provengono dalla run nei comics di Walt Simonson. E a proposito di fumetti: Eternità è del tutto travisato e banalizzato. Giusto una nota di costume gli elementi di "inclusività" (il girl power, la Valchiria lesbica, l'omosessualità della razza di Korg: dettagli inutili ai fini della storia, almeno questi ultimi due, nient'altro che queerbaiting, che però sono stati censurati in alcune edizioni all'estero). Russell Crowe è uno Zeus buffone e poco cerimonioso (che nei titoli di coda invita Ercole alla vendetta contro Thor), Matt Damon, Sam Neill e Luke Hemsworth ritornano (da "Thor: Ragnarok") in un cameo nel ruolo degli attori asgardiani nell'unica scena in cui si fa riferimento (ovviamente ironico) a Odino e Loki.

9 aprile 2022

Gods of Egypt (Alex Proyas, 2016)

Gods of Egypt (id.)
di Alex Proyas – USA/Australia 2016
con Nikolaj Coster-Waldau, Brenton Thwaites
**1/2

Visto in TV (Netflix).

In un antico Egitto immaginario e mitologico, uomini e dèi (che sono alti il doppio dei mortali, hanno oro anziché sangue nelle vene, e possono trasformarsi in creature metalliche e ibride uomo-animale) convivono pacificamente e in prosperità, grazie all'illuminata saggezza del re Osiride. Quando il suo malvagio fratello Seth (Gerard Butler) ne usurpa il trono, accecando ed esiliando il legittimo erede Horus (Nikolaj Coster-Waldau), signore dell'aria, il paese piomba in rovina. Ad aiutare Horus a reclamare il trono sarà un mortale, l'orgoglioso e coraggioso ladruncolo Beck (Brenton Thwaites), in cerca di un modo per riportare in vita la ragazza che ama, Zaya. La mitologia egiziana è solo un pretesto per mettere in scena un'avventura fantasy e d'azione, ambientata in un mondo fantastico e soprannaturale, dove l'influenza delle divinità sulla vita degli uomini è quanto mai concreta (il "cattivo" Seth impone ai mortali di dover pagare in denaro o altre ricchezze il passaggio nell'aldilà). Flop al botteghino e stroncato dalla critica, il film in realtà è molto divertente se si sta al gioco: non ci si aspetti una particolare profondità, ma un puro e adrenalinico intrattenimento, senza sovrastrutture o significati retorici al di là dei luoghi comuni del genere (l'amicizia, la vendetta, l'amore). Visivamente straripante, con un'estetica visionaria che fa quasi pensare più a "Scontro tra Titani" o al Tarsem Singh di "Immortals" che non alle cupezze neo-noir di Proyas (ma senza l'inconsistenza "fuffosa" del regista indiano), il lungometraggio reinterpreta a proprio modo temi e spunti derivanti dalla mitologia (Ra, il dio del Sole, che ogni notte si batte contro il demone del caos e dell'oscurità Anofi; la Sfinge, con i suoi misteriosi enigmi; Anubi e il mondo dei morti) ma si concede anche lunghe ed elaborate sequenze d'azione, affogate in un mare di scenari in computer grafica. Eppure, a differenza di altre pellicole del genere, non ci si annoia, almeno non sempre. L'intento di Proyas era quello di realizzare una pellicola ad alto budget che non si fondasse su franchise pre-esistenti, ma il riscontro del pubblico non c'è stato. Geoffrey Rush è Ra, Élodie Yung è la dea dell'amore Hathor, Chadwick Boseman il dio della saggezza Thoth, Courtney Eaton la schiavetta Zaya (difficile non tenere gli occhi puntati sulla sua... scollatura).

7 dicembre 2021

L'Odissea (De Liguoro, Bertolini, Padovan, 1911)

L'Odissea
di Giuseppe De Liguoro, Francesco Bertolini, Adolfo Padovan – Italia 1911
con Giuseppe De Liguoro, Eugenia Tettoni
**

Visto su YouTube.

Lo stesso anno in cui aveva realizzato "L'inferno" (il film tratto dalla "Divina commedia" di Dante che è considerato il primo lungometraggio di produzione italiana), il trio Bertolini-Liguoro-Padovan firma anche questo adattamento dell'Odissea di Omero, che venne proiettato per la prima volta all'Esposizione internazionale di Torino in occasione del cinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia. La copia attualmente sopravvissuta manca di alcune scene, ma per il resto si può considerare completa, ed è divisa in tre sezioni. La prima, la più breve, è il prologo, che mostra la partenza di Ulisse (interpretato dal regista De Liguoro) per la guerra di Troia e i Proci che prendono possesso del palazzo in sua assenza. La seconda è dedicata alle varie avventure di Ulisse durante il viaggio di ritorno: in particolare l'incontro con Polifemo, le Sirene, i mostri Scilla e Cariddi, l'episodio dei buoi sacri a Giove, il soggiorno sull'isola di Calipso e quello con Nausicaa alla corte dei Feaci. Infine, l'ultima parte racconta il ritorno a Itaca, dove Ulisse viene trasformato in mendicante da Minerva per non farsi riconoscere, e la strage dei Proci. Se la recitazione enfatica e il linguaggio cinematografico appaiono ancora arretrati (la narrazione è estremamente lineare, così come il montaggio, con ogni sequenza introdotta da una semplice didascalia), è però da sottolineare la grande cura nella messa in scena: i costumi, i set elaborati e le scenografie sontuose (vedi la reggia di Alcinoo) mostrano una certa ambizione e preparano il campo per i "kolossal" italiani che seguiranno negli anni immediatamente successivi ("Quo vadis" e soprattutto "Cabiria"). Buoni anche gli occasionali effetti speciali (in particolare il gigantesco Polifemo). Nel complesso è un adattamento competente e fedele (e didascalico), che non tradisce il materiale di partenza.

24 ottobre 2021

Ercole (Werner Herzog, 1962)

Ercole (Herakles)
di Werner Herzog – Germania 1962
con Reinhard Lichtenberg
**

Visto in DVD.

Questo cortometraggio di nove minuti è il primo film realizzato da Werner Herzog, all'epoca ventenne. Essenzialmente un lavoro di montaggio, alterna riprese di un culturista che si allena in palestra, sollevando pesi e flettendo i muscoli (si tratta di Reinhard Lichtenberg, Mister Germania 1962), con scene girate in esterni che evocano sei delle mitologiche dodici fatiche di Ercole, trasfigurate in chiave moderna. Alla domanda "Pulirà le stalle di Augia?", seguono le immagini di una grande discarica di rifiuti; a "Ucciderà l'Idra di Lerna?", quelle di una lunga fila di automobili imbottigliate nel traffico; dopo "Domerà i cavalli di Diomede?" si vedono sfrecciare i bolidi di una corsa automobilistica (con tanto di incidente, ripreso a Le Mans); a "Sconfiggerà le Amazzoni?" segue la sfilata di soldatesse in uniforme; dopo "Vincerà i giganti?" si vedono le macerie di enormi caseggiati distrutti; e infine, alla domanda "Resisterà agli uccelli stinfali?" seguono le immagini di aerei da guerra americani che sganciano bombe. Ad accompagnare il tutto, una musica jazzata. Herzog stesso ammetterà che il breve film era "stupido e senza troppo senso", ma che gli è stato utile come sorta di apprendistato ("Fare un film è stato meglio che andare alla scuola di cinema"), nonché per capire meglio cosa volesse fare in seguito.

7 febbraio 2019

Medea (Lars von Trier, 1988)

Medea (id.)
di Lars von Trier – Danimarca 1988
con Kirsten Olesen, Udo Kier
***

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Ripudiata da Giasone (Udo Kier), che intende sposare Glauce (Ludmilla Glinska), figlia del re di Corinto, Medea (Kirsten Olesen) si vendica donando alla giovane sposa una corona avvelenata e poi uccidendo i propri figli. Da una sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer (e Preben Thomsen) per una pellicola che non fu mai realizzata, Lars von Trier firma un film per la tv danese ispirato alla tragedia di Euripide. La messinscena è lenta e austera, con scenografie naturali e minimaliste (spiagge, grotte, paludi, torbiere: il film venne girato nello Jutland, sulle coste del Mare del Nord, scenario ben diverso dalla Grecia ma adatto alle tempestose emozioni e ai sentimenti che muovono i personaggi) che donano alla storia un'aura assai arcaica, favorita dalle immagini antiche, sgranate, come se viste attraverso un telo. Pur nella sua brevità (poco più di un'ora), la pellicola è molto intensa: LVT sfronda la sceneggiatura dalla parte del coro (che Dreyer aveva previsto, volendo recuperare la struttura originale della tragedia greca) e dà invece grande risalto alla scena finale, quella in cui Medea uccide i due figli, impiccandoli ai rami di un albero secco e isolato su una collina erbosa (immagine presente anche nel logo del film, che comprende anche il nome del regista). Nel testo di Euripide i bambini venivano uccisi con un pugnale, mentre Dreyer aveva pensato al veleno. La lunga sequenza dell'impiccagione, con l'esitazione straziante di Medea e la collaborazione del figlio più grande (che afferma di "sapere quello che deve accadere"), culmina con Giasone che va alla ricerca dei figli e li trova morti: ma già prima non mancano scene memorabili, come la folle corsa del cavallo (avvelenato anch'esso, come Glauce) sulla spiaggia. In un certo senso il film è il primo lavoro di von Trier ad avere una protagonista femminile, al tempo stesso forte e vittima, come saranno quasi tutti i successivi lavori del regista (se si eccettua la trilogia "europea" degli esordi). Kirsten Olesen aveva già interpretato Medea a teatro. Udo Kier sostituì all'ultimo momento Niels Arestrup nel ruolo di Giasone. Henning Jensen è Creonte, il re di Corinto.

8 giugno 2018

La caduta di Troia (Pastrone, Borgnetto, 1911)

La caduta di Troia
di Giovanni Pastrone [e Luigi Romano Borgnetto] – Italia 1911
con Giovanni Casaleggio, Jules Vina
**

Visto su YouTube.

Nata appena nel 1905 e inizialmente ispirata a quella francese, l'industria cinematografica italiana fece rapidamente passi da gigante e ben presto (a cominciare da "Gli ultimi giorni di Pompei" nel 1908) si affermò sulla scena internazionale per i suoi film di ambientazione storica ed epica. Questo ambizioso "La caduta di Troia" (in tre rulli, per un totale di circa 30 minuti, quasi tre volte rispetto alla durata media per l'epoca), prodotto dalla Itala Film di Torino, riscosse un enorme successo oltre i confini nazionali: fu accolto con entusiasmo particolare negli Stati Uniti, e consacrò la fama di Giovanni Pastrone, ex contabile che divenne uno dei più importanti registi di quel periodo (sua sarà la regia di "Cabiria" nel 1914, il più grande kolossal italiano dell'epoca del muto). Qui è affiancato alla regia da Luigi Borgnetto, pittore e scenografo. Introdotto da una breve scena in cui si vede Omero stesso, con la lira in mano, in procinto di narrare la vicenda, ci mostra il rapimento di Elena da parte di Paride (con l'aiuto di Venere, che fa fuggire i due amanti con il suo cocchio volante), la disperazione di Menelao, l'assedio dell'esercito greco alle mura di Troia, e soprattutto lo stratagemma del cavallo di legno e la distruzione della città. Se il linguaggio cinematografico è ancora primitivo (le inquadrature sono tutte a campo medio e con camera fissa), la recitazione è rudimentale e i personaggi non hanno caratterizzazione, a colpire sono invece le scenografie sontuose (il giardino di Elena a Sparta, il palazzo di Menelao, le mura di Troia, la flotta greca con le navi ormeggiate) e l'enorme numero di comparse in costume nelle scene di massa e di battaglia (si dice che furono coinvolti 800 attori). Dal punto di vista della produzione e della scenografia, dunque, il film mostra tutte le sue ambizioni. E nonostante qualche passaggio ridicolo (i troiani demoliscono le loro stesse mura per far entrare il cavallo, troppo grande per passare dalla porta: più tardi i guerrieri greci entrano dalla porta demolita, non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di nascondersi nel cavallo!), la storia si fa seguire con interesse e le scene d'azione nel finale, con le colonne di Troia che crollano mentre la città brucia, convincono appieno.

31 gennaio 2016

Medea (Pier Paolo Pasolini, 1969)

Medea
di Pier Paolo Pasolini – Italia/Fra/Ger 1969
con Maria Callas, Giuseppe Gentile
***1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Dopo l'"Edipo Re" di due anni prima, Pasolini firma un altro adattamento cinematografico di una tragedia greca, scegliendo questa volta la "Medea" di Euripide, di cui realizza una versione impressionante sotto tutti i punti di vista. E in particolare sotto l'aspetto visivo: i colori, i costumi e le scenografie sovrastano a tratti le parole, soprattutto in una prima parte (quella che narra l'antefatto della tragedia, ovvero la nascita di Giasone, la sua ricerca del Vello d'Oro, l'arrivo nella Colchide dove lui e gli Argonauti vengono aiutati da Medea, e il ritorno a Corinto) fatta di silenzi, sguardi, canti e riti ancestrali. Fra questi spicca il sacrificio umano per donare fertilità ai campi, una sorta di abbattimento del capro espiatorio, veicolato da una religione pagana cui Medea appartiene in tutto e per tutto: non a caso, a sua volta, sacrifica il fratello e ne smembra il corpo pur di facilitare la fuga degli Argonauti, in una scena che dunque introduce da subito la parte più sanguinaria del personaggio, anche se in questo caso non è mossa da odio o rancore ma dall'amore. Il tutto esplicita nella maniera più efficace (e visiva) possibile il tema generale della natura violenta dell'uomo, addomesticata e incanalata attraverso i riti e la religione, ma pronta a riaffiorare in ogni momento se spinta da passioni come l'ira, la gelosia e la vendetta. Se la parte ambientata nella Colchide è stata girata da Pasolini in Cappadocia (i paesaggi mozzafiato, i campi e le pietre rendono meravigliosamente l'idea di un mondo lontano), per portare sullo schermo Corinto il regista ha scelto nientemente che la piazza dei Miracoli di Pisa, le cui architetture rinascimentali ben simboleggiano un regno più moderno e civilizzato. Non a caso Medea, donna appartentente a un mondo più "arcaico" e antico, vi si scopre spaesata. E di fronte al tradimento di Giasone, che la lascia con l'intenzione di sposare la giovane figlia del re Creonte, progetta una tremenda vendetta. Questa, curiosamente, viene (almeno in parte) mostrata sullo schermo due volte: Pasolini lascia infatti che Medea prima la immagini, come in una visione (in questo caso la veste che regala a Glauce prende fuoco), e poi la attui davvero (con una veste che la rende folle), ripetendo diverse sequenze pari pari. Allo stesso modo, nella Colchide, la donna aveva avuto una visione dell'arrivo di Giasone. In effetti – e questo spiega il carattere onirico e allucinatorio di diverse sequenze – il film inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi "Visioni della Medea".

Se Giasone è interpretato dall'atleta Giuseppe Gentile (medaglia di bronzo nel salto triplo alle Olimpiadi del 1968), per il ruolo di protagonista Pasolini scelse la cantante lirica Maria Callas (alla prima e unica esperienza come attrice cinematografica), sua grande amica, che non solo era greca per nascita, ma l'anno prima era stata lasciata da Aristotele Onassis: non aveva figli da uccidere né poteri magici, ma – chissà! – se avesse potuto, magari avrebbe incenerito volentieri Jacqueline Kennedy! In quanto nipote di Elio, Medea trae i suoi poteri magici dal Sole, e questo viene esplicitato in una scena. Una certa enfasi, però, viene data anche alla Luna, corpo celeste "femminile" per eccellenza, e se vogliamo collegato alla Callas attraverso la "Norma" di Bellini ("Casta diva..."). La luna, in generale, risveglia l'arcaico potere dentro la donna: anche dentro l'uomo, però, c'è un sapere antico, che nel film è rappresentato dal centauro Chirone, mentore di Giasone, che lo accompagna durante tutte le fasi della crescita all'inizio della pellicola (educandolo sul ruolo della natura e degli dei) e che poi ricompare in due distinte forme (centauro e umano), spiegandogli come i miti siano qualcosa che fa parte di lui, degli archetipi che accompagnano l'uomo anche in età adulta e civilizzata. La voce di Chirone (l'attore è il francese Laurent Terzieff) è di Enrico Maria Salerno. Furono doppiati anche Medea (Rita Savagnone) e Giasone (Pino Colizzi), che peraltro condividono ben pochi dialoghi in un film fatto di silenzi: il loro innamoramento, ma anche la separazione, è narrato per immagini, e l'unico momento in cui i due si confrontano a parole è nel finale, quando ormai la tragedia è compiuta. Il resto del cast comprende Massimo Girotti (Creonte), Margareth Clementi (Glauce) e Annamaria Chio (la nutrice). Qualche accenno merita anche la suggestiva colonna sonora, che come in "Edipo Re" Pasolini ha riempito di sonorità lontane ed arcaiche, compresa una preghiera giapponese. Nel complesso, un film ricco di forza e di significati che vanno al di là dei semplici eventi narrati, "universale" come lo erano le tragedie greche e come è il miglior cinema che sa superare i propri confini, opera non solo di un grande regista ma in generale frutto di una stagione in cui il cinema italiano (ed europeo) sapeva lanciare uno sguardo verso l'esterno, con un'attenzione ad altri mondi e altre culture e un approccio quasi etnografico (si pensi ai colori, ai costumi, ai canti) che fonde alla perfezione la profondità dei contenuti con la potenza delle immagini.

28 dicembre 2015

Edipo Re (Pier Paolo Pasolini, 1967)

Edipo Re
di Pier Paolo Pasolini – Italia 1967
con Franco Citti, Silvana Mangano
***

Rivisto in divx alla Fogona, con Marisa.

Abbandonato a morire dal padre Laio, re di Tebe, il neonato Edipo (il nome significa “piedi gonfi”, perché trovato legato con una robusta corda alle caviglie) viene adottato dai sovrani di Corinto come fosse loro figlio. Una visita al santuario di Apollo a Delfi gli rivela di essere destinato ad assassinare suo padre e ad accoppiarsi con sua madre. Edipo sceglie allora di non tornare a Corinto, ma la sorte lo condurrà proprio a Tebe, dove il suo destino si compirà. Nel suo primo film a colori (se si eccettuano gli inserti de "La ricotta"), Pasolini rivisita la tragedia di Sofocle con l'intenzione di fare del personaggio una metafora dell'uomo moderno, in preda a forze su cui non ha controllo, e colpevolmente cieco dei suoi stessi peccati (la cosiddetta "colpevolezza dell'innocenza"): una lettura storica e sociale (uccidere il padre e possedere la madre, per l'uomo occidentale, significa strumentalizzare il passato e sfruttare la terra) che sovrasta quelle individuali e autobiografiche, pure inevitabili (ricordiamo come Pasolini avesse scelto la propria madre per interpretare la madonna nel "Vangelo secondo Matteo"!). Che si tratti di una metafora lo rivela un elemento chiave: il salto di collocazione cronologica. Le riprese furono effettuate in gran parte nel deserto del Marocco, fra villaggi e antiche roccaforti, e con costumi poveri, tribali e arcaici che veicolano la natura storica e ancestrale della vicenda. Ma l'incipit – che mostra la nascita di Edipo e l'insorgere della gelosia di suo padre Laio ("Tu sei qui per prendere il mio posto nel mondo, ricacciarmi nel nulla e rubarmi tutto quello che ho") – è collocato nell'Italia degli anni venti, mentre nel finale Edipo vaga cieco (accompagnato dall'”angelo” Ninetto Davoli) per le strade, le fabbriche e le città (si riconosce Bologna) dell'Italia contemporanea, fino a tornare nel luogo dove tutto aveva avuto inizio, ovvero la fattoria/cascina dove era nato e i campi che la circondano (gli stessi scenari, curiosamente, che una decina di anni più tardi faranno da sfondo a "Novecento" di Bertolucci): come a voler suggerire che l'intera tragedia è quella che il paese ha vissuto negli anni del fascismo e della seconda guerra mondiale, con tanto di tentativo inutile di ribellarsi al proprio destino.

Anche per questo motivo, Pasolini mette in particolare risalto alcune caratteristiche del personaggio come la competitività (la scena in cui gioca con i compagni a Corinto, “barando” pur di vincere) e la violenza (su tutte, la prolungata sequenza in cui uccide Laio e i suoi soldati di scorta). Per non parlare della cecità, della gelosia, della ricerca del capro espiatorio. La contrapposizione fra la Grecia antica, "il mondo della verità, delle radici storiche e culturali", e l'Italia del novecento, ostaggio della tirannia della borghesia, non potrebbe essere più evidente: naturale che lo stesso Edipo vi si trovi come un pesce fuor d'acqua, vittima suo malgrado di forze esterne e di un destino contro il quale si batte inutilmente ("reso cieco dalla volontà di non sapere cio che è, di ignorare la terribile verità della propria condizione, prosegue il cammino verso la catastrofe"). Nel cast, in cui il regista si ritaglia un ruolo minore (il sacerdote tebano che va da Edipo a comunicargli dell'epidemia di peste), spicca Silvana Mangano nel ruolo di Giocasta, con un volto truccato per essere “fuori dal tempo”: occhi neri e profondi, assenza di sopracciglia, capelli raccolti alla foggia greca. Franco Citti torna a essere protagonista di una pellicola pasoliniana dopo “Accattone”, mentre Carmelo Bene è Creonte, Alida Valli è Merope, Julian Beck (fondatore del Living Theatre) è il veggente cieco Tiresia. Le musiche, curate dallo stesso PPP, alternano sonorità "antiche" con flauto e percussioni (alcune delle quali derivate dal teatro giapponese) con brani di musica classica (il "Dissonanzen Quartett" di Mozart). Durante la lavorazione del film, il regista stava curando contemporanemante un nuovo progetto, "Teorema", che in fondo affronta in modo diverso lo stesso tema dell'infrazione del tabù sessuale familiare. Quanto all'estetica e alla poetica generale, proprio da "Edipo Re" comincia a imporsi sullo schermo la particolare attenzione di Pasolini al Terzo Mondo, ai popoli lontani, alle loro culture e ai loro volti (dopo che, per il "Vangelo secondo Matteo", aveva invece preferito fare tutto "in casa", ovvero girando in Italia anziché – come previsto in un primo momento – in Palestina) che, attraverso i documentari sull'India e sull'Africa, culminerà due anni dopo con un'altra tragedia greca, la "Medea".

22 febbraio 2015

Immortals (Tarsem Singh, 2011)

Immortals (id.)
di Tarsem Singh – USA 2011
con Henry Cavill, Freida Pinto
*1/2

Visto in TV.

Il blasfemo re Iperione, adirato contro gli Dei dell'Olimpo, è alla ricerca del leggendario Arco di Epiro, tramite il quale è possibile risvegliare i Titani che giacciono imprigionati sotto il monte Tartaro: e per trovarlo, non esita ad attaccare ogni luogo sacro della Grecia. Ad opporsi a lui è l'eroico Teseo (Henry Cavill), il cui villaggio è stato messo a ferro e fuoco dall'esercito nemico. Sarà aiutato da Phaedra (Freida Pinto), oracolo del santuario sibillino, e dall'occasionale intervento degli stessi Dei, nonostante l'ordine di Zeus di non interessarsi delle vicende dei mortali. Sulla falsariga di "300" (di cui riprende a tratti l'estetica), un guazzabuglio confuso e stilizzato che rilegge il mito greco di Teseo, stravolgendone gli elementi (il Minotauro è soltanto un uomo con la maschera da toro) e spogliandoli di significato, a puri scopi spettacolari. Fenomenale dal lato visivo e fotografico (è la specialità, dopo tutto, del regista Tarsem, che ha dichiarato di essersi ispirato soprattutto ai dipinti di Caravaggio; ma a tratti si colgono persino riferimenti a Paradzanov, come nelle scene dell'oracolo) e affogato in un'abbondanza di scenari e di immagini in CGI, il film soffre invece da quello dei contenuti: e non bastano i toni cupi e violenti ad ammantare la vicenda di spessore. Le divinità dell'Olimpo, giovani e aitanti, sembrano uscire dalla pubblicità di un profumo di Giorgio Armani o Versace, e lo stesso Teseo sfoggia muscoli da culturista (o da... statua greca!). Insomma, sembrano tutti più modelli che attori. Per fortuna nel cast ci sono anche Mickey Rourke (il cattivo re Iperione, manco a dirlo il personaggio più interessante), Luke Evans (Zeus), John Hurt (ancora Zeus, con le sembianze di un vecchio) e Stephen Dorff (il ladro che si allea con Teseo).

19 maggio 2012

Orfeo (Jean Cocteau, 1950)

Orfeo (Orphée)
di Jean Cocteau – Francia 1950
con Jean Marais, María Casares
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Il secondo capitolo della cosiddetta "trilogia orfica" di Cocteau, quello che più degli altri si rifà direttamente al mito classico, colloca la vicenda di Orfeo nella Francia del dopoguerra e la rilegge in chiave originale e personale, alla luce del legame indissolubile fra arte e morte ("La morte di un poeta lo rende immortale"), tema già al centro del precedente "Il sangue di un poeta". Qui, più che di Euridice, sua sposa già da tempo, il protagonista si innamora proprio della morte, impersonificata da una bruna principessa presentata inizialmente come una mecenate che ha a cuore i giovani artisti che frequentano il turbolento "Caffé dei Poeti". Di questi Orfeo è il più affermato e popolare, ma è il giovane Segeste il primo a cadere vittima dei suoi accoliti (due inquietanti motociclisti) e ad essere portato nell'aldilà. Quando Orfeo, dopo aver seguito la donna fin nella sua dimora, scopre la sua natura ultraterrena, ne rimane affascinato e diventa ben presto incapace di stare lontano da lei. Lo chauffer della morte, Heurtebise – a sua volta invaghito di Euridice – gli rivela che gli specchi sono le porte per il regno degli inferi ("Guardandoti allo specchio, vedrai la morte al lavoro"): Orfeo li attraverserà dopo il decesso della sua sposa, ma più per rivedere la principessa che per salvare la moglie, verso la quale non può più rivolgere lo sguardo nemmeno dopo essere tornato nel mondo dei vivi (e trasgredirà questa regola, non volendolo, quando la guarderà attraverso lo specchietto retrovisore della sua automobile). Senza rinnegare le atmosfere surreali, ipnotiche e oniriche del film degli anni trenta, anche grazie all'utilizzo di semplici ma efficaci effetti visivi, il lungometraggio è ricco anche di riferimenti concreti al recente passato storico della Francia (i versi di poesia astratta composti da Segeste e che Orfeo ascolta alla radio, apparentemente senza significato, sembrano i messaggi in codice della resistenza trasmessi durante l'occupazione tedesca; il regno dei morti è rappresentato dai palazzi semidistrutti dopo i bombardamenti; il processo nell'Oltretomba ricorda quelli ai partigiani nel periodo della guerra). Nel cast, Juliette Gréco intepreta la leader delle "baccanti", il gruppo di femministe di cui un tempo aveva fatto parte anche Euridice. L'idea della morte impersonificata da una giovane donna (qui l'attrice spagnola María Casares: pare che Cocteau avesse pensato inizialmente a Greta Garbo o Marlene Dietrich!) mi ha fatto pensare al "Sandman" di Neil Gaiman, dove si ritrova anche la parentela fra sonno e morte.

18 aprile 2009

Gli argonauti (Don Chaffey, 1963)

Gli argonauti (Jason and the Argonauts)
di Don Chaffey – USA/GB 1963
con Todd Armstrong, Nancy Kovack
**

Visto in divx, con Marisa, Alberto, Eva ed Elena.

Per rivendicare il trono di Tessaglia, usurpato dal tirannico Pelia, il coraggioso Giasone si imbarca in un'impresa leggendaria: impadronirsi del mitico Vello d'Oro, custodito nella lontana Colchide. Insieme ai più forti atleti e guerrieri dell'antichità (c'è anche un Ercole brizzolato e molto più umano che divino, dall'aspetto ben diverso da quello dei numerosi peplum di produzione italiana o europea), supererà difficili prove e affronterà molte avventure, aiutato dalla benevolenza della dea Era, prima di giungere a destinazione. Considerato da molti il capolavoro di Ray Harryhausen, mago degli effetti speciali e delle animazioni a passo uno, il film andrebbe effettivamente ricordato quasi solo per i momenti in cui sono di scena le sue creazioni: dalla lotta contro la gigantesca statua di bronzo di Talos alla sequenza in cui il dio del mare sorregge il promontorio permettendo alla nave di Giasone di passare; dallo scontro con le arpie che tormentano il veggente cieco Fineo al combattimento contro un mostruoso idra a sette teste; senza dimenticare, naturalmente, la celebre battaglia contro gli scheletri, una scena che ha richiesto quattro mesi di lavoro per essere girata e che in seguito ha ispirato autori come Sam Raimi ("L'armata delle tenebre") o Peter Jackson. Il resto della pellicola, però, soffre però per il casting non brillante, per la musica invadente, per i personaggi poco approfonditi e per un ritmo che, agli occhi di uno spettatore di oggi, può apparire eccessivamente lento. Senza contare le molte libertà che gli sceneggiatori si sono presi nei confronti del mito originale. Curiosamente la storia si interrompe all'inizio del viaggio di ritorno verso la Tessaglia: forse era previsto un seguito, magari con maggior spazio per il personaggio di Medea?

28 marzo 2007

Orfeo negro (M. Camus, 1959)

Orfeo negro (Orfeu negro)
di Marcel Camus – Francia/Brasile 1959
con Breno Mello, Marpessa Dawn
***

Rivisto in DVD con Marisa, Luigi, Roberto e Anna.

Il mito greco di Orfeo rivisitato e ambientato in Brasile, durante il carnevale di Rio, in un atmosfera di caos, allegria, danze e samba che sembra rispecchiare perfettamente le antiche feste orgiastiche dionisiache. E ogni personaggio, fin dal nome, ha il proprio corrispettivo nel mito orfico. Orfeo suona la chitarra anziché la lira e si esibisce come "dio del sole" (in quanto figlio di Apollo) durante la sfilata del carnevale: i bambini delle favelas ritengono infatti che sia proprio lui, con le sue canzoni, a far sorgere il sole ogni mattina; Euridice è una ragazza appena giunta in città e tormentata da un misterioso individuo, vestito da scheletro, che la minaccia costantemente di morte; la discesa agli inferi si traduce nella visita a una medium che comunica con gli spiriti dei defunti attraverso le pratiche voodoo; e non manca nemmeno una baccante che, come nelle Georgiche di Virgilio, si vendica di Orfeo dopo la scomparsa di Euridice. Caldo e colorato, violento e dolce, triste e allegro, il film vinse la Palma d'Oro al festival di Cannes e l'Oscar per il miglior film straniero. Ed è condito da celebri canzoni in stile bossa nova (su tutte "Manhã De Carnaval" e "A felicidade").