28 giugno 2010

La vendetta dei 47 ronin (K. Mizoguchi, 1941)

La vendetta dei 47 ronin (Genroku Chushingura)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1941/42
con Chojuro Kawarazaki, Kanemon Nakamura
**1/2

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli.

Per aver sguainato la spada all'interno del palazzo dello shogun e aver ferito l'infido cerimoniere Kira che lo aveva insultato, il nobile daimyo Asano è costretto a fare seppuku. Tutte le sue proprietà vengono confiscate e la sua famiglia è destituita; ma i suoi seguaci (ormai diventati ronin, ossia samurai senza padrone), guidati dal ciambellano Kuranosuke Oishi, giurano vendetta in ossequio al codice del bushido. Dopo oltre un anno di attesa, di preparativi e di temporeggiamenti, assaltano la fortezza di Kira e uccidono il nemico, portandone poi la testa sulla tomba del loro signore. Verranno condannati a morte dallo shogun, ma la loro lealtà e devozione li consegnerà alla leggenda. Ispirato a un episodio storico realmente accaduto nell'era Tokugawa e reso celebre da decine di rivisitazioni letterarie e teatrali (la più nota è un dramma che risale al 1748), il "Chushingura" è un racconto che esprime molti dei più classici valori culturali del Giappone (la fedeltà, la memoria, il sacrificio: in breve, "lo spirito del vero samurai"). Il film, realizzato con un grande sforzo produttivo, viene messo in cantiere dopo l'ingresso del paese nella Seconda Guerra Mondiale, quando il governo esige dal cinema produzioni epiche, popolari e legate alla tradizione nipponica, rendendo difficile a Mizoguchi proseguire con le sue pellicole intimiste, di ambientazione contemporanea e di critica sociale. Il regista è dunque praticamente "costretto" a dirigerlo (un rifiuto avrebbe significato partire per il fronte), ma ottiene che la sceneggiatura si basi su una versione del dramma più moderna e realista, scritta nel 1934 da Seika Mayama, e che gli attori siano gli stessi interpreti teatrali che l'avevano portata sul palcoscenico. Ne nasce così un film che rinuncia alla spettacolarità e alle scene d'azione (manca clamorosamente, per esempio, il momento clou dell'assalto alla dimora del nemico, che viene narrato allo spettatore soltanto attraverso una missiva letta ad alta voce da una dama di compagnia alla vedova di Asano) in favore di una messa in scena austera e solenne, con prolungati piani sequenza, movimenti di macchina lentissimi o assenti, lunghe inquadrature dall'alto (come nelle tipiche pitture su rotoli) per consentire allo spettatore di familiarizzare con i vari ambienti prima ancora che uno dei personaggi parli o si muova, affascinanti ellissi (anziché il seppuku di Asano, Mizoguchi mostra allo spettatore il rito del taglio dei capelli della sua sposa, che avviene in contemporanea), dialoghi che insistono sull'etica dei samurai (coraggio, onore e sacrificio, in opposizione a codardia, tradimento e interesse) e sulle motivazioni dei personaggi. Oishi, diviso fra il desiderio di vendicare subito il suo signore e l'opportunità di farlo in maniera onorevole, ovvero soltanto dopo aver provato a chiedere allo shogun di riabilitarne la famiglia, è il vero protagonista di una pellicola in cui il tema del dovere feudale (dei samurai nei confronti del daimyo, dei vassalli nei confronti dello shogun) sostituisce quello del dovere sociale (delle donne nei confronti dell'uomo, dei figli nei confronti dei genitori) che invece caratterizzava le precedenti opere di Mizoguchi. Non mancano comunque spunti cari al regista come il sacrificio femminile, evidente nel breve episodio della moglie di Oishi che lo lascia per liberarlo dai suoi obblighi sociali, e soprattutto in quello più elaborato, nel finale, della promessa sposa del giovane Isogai che si traveste da uomo per poterlo rivedere un'ultima volta. Le oltre tre ore e mezza di durata sono divise in due parti, uscite in sala rispettivamente nel dicembre 1941 (pochi giorni prima dell'attacco di Pearl Harbor) e nel febbraio 1942: nonostante l'imponenza della produzione (il costo complessivo, soprattutto a causa delle scenografie, superò di almeno dieci volte quello di un film medio), il film si rivelò un flop e venne pressoché ignorato da pubblico e critica. Resta però senza dubbio un grandioso e solenne affresco storico che può aiutare a comprendere, almeno in parte, lo spirito del Giappone feudale.

23 giugno 2010

Apocalisse nel deserto (W. Herzog, 1992)

Apocalisse nel deserto (Lektionen in Finsternis)
di Werner Herzog – Germania/GB/Francia 1992
***1/2

Rivisto in DVD con Giovanni, Rachele, Paola e Giuseppe.


Una frase attribuita a Blaise Pascal ma in realtà inventata dallo stesso Herzog ("Il crollo delle galassie avverrà con la stessa, grandiosa bellezza della creazione") e la voce fuori campo del regista ci introducono a quella che sembra l'esplorazione di un pianeta inospitale, un paesaggio di stupefacente e sublime grandiosità, da parte di un osservatore alieno: si tratta invece delle riprese dei pozzi di petrolio in fiamme nel deserto kuwaitiano, effettuate subito dopo la prima Guerra del Golfo e montate (insieme ad alcune sequenze di repertorio della CNN) con l'aggiunta di suggestioni fantascientifiche, citazioni dall'Apocalisse e musiche di Wagner, Grieg, Verdi, Schubert, Pärt, Prokofiev e Mahler che consentono di guardare con distacco al terribile spettacolo della distruzione e della morte di un ecosistema. Il risultato è uno dei documentari herzoghiani più belli e riusciti (da lui considerato come la parte centrale di una trilogia composta anche da "Fata Morgana" e "L'ignoto spazio profondo"), che curiosamente non fornisce informazioni geografiche o politiche sul contesto cui si riferiscono le immagini, presentandole quasi senza commento allo spettatore come simbolo universale della follia dell'uomo e della sua impari lotta contro le forze della natura. A parte alcune brevi testimonianze di sopravvissuti al conflitto, quasi tutta la pellicola – divisa in capitoletti dai titoli significativi – è costituita dalle spettacolari immagini dei pozzi in fiamme e del petrolio che ricopre il deserto, con i difficili e disperati tentativi dei tecnici di spegnere gli incendi e di tappare le fuoriuscite di greggio. Il rosso delle fiamme, il grigio del fumo e il nero del petrolio sono immortalati dalla splendida fotografia di Paul Berriff. Indimenticabile la scena in cui gli operai-pompieri, dopo aver estinto finalmente il fuoco, lo riattizzano come se non ne potessero più fare a meno (il regista stesso è stato accusato di aver fatto riaccendere i pozzi per poter girare alcune scene del film, novello Fitzcarraldo che cerca di piegare la natura alle proprie esigenze). Il titolo originale significa "Lezioni nell'oscurità" (per approfondimenti su di esso e sulle scelte musicali, suggerisco di leggere questo post di Giuliano).

21 giugno 2010

A tempo pieno (L. Cantet, 2001)

A tempo pieno (L'emploi du temps)
di Laurent Cantet – Francia 2001
con Aurélien Recoing, Karin Viard
**1/2

Visto in divx, con Marisa.

Licenziato dall'azienda dove lavorava, il consulente finanziario Vincent non ha il coraggio di dirlo alla propria famiglia e per diversi mesi continua a fingere di recarsi ogni giorno in ufficio, girovagando invece in macchina senza meta. Poi fa credere di essere stato assunto a Ginevra presso un'agenzia dell'ONU, e per mantenere il proprio tenore di vita convince amici e parenti ad affidargli il loro denaro per investirlo in lucrose (ma inesistenti) speculazioni in borsa. Ma alla fine il castello di menzogne crollerà inevitabilmente. Ispirato alla storia vera di Jean-Claude Romand (alla base anche de "L'avversario", uscito nel 2002 e assai più fedele alla vicenda originale), il film ritrae una personalità disturbata e in fuga dalla realtà, come suggerisce anche l'ambiguo finale, e guarda ai temi del lavoro e della disoccupazione più da un punto di vista individuale ed esistenziale che politico-sociale. Pur nella sua drammaticità, la situazione di Vincent appare meno estrema di quella di Romand (e del personaggio interpretato da Daniel Auiteil ne "L'avversario"): l'inganno dura da meno tempo, il punto di non ritorno non è stato ancora raggiunto (i parenti, quando scoprono le bugie di Vincent, sarebbero anche disposti a perdonarlo) e il protagonista trova persino un amico (in un trafficante e contrabbandiere di merce contraffatta, interpretato da Serge Livrozet) che potrebbe aiutarlo a rimettersi in carreggiata, ma rifiuta ogni possibile via d'uscita. Se Cantet è abile a riflettere con stile sobrio e asciutto sul tema del rapporto fra l'uomo e il lavoro (o meglio, il "tempo" dedicato al lavoro e sottratto dunque alla famiglia e a sé stessi), il film appare però meno incisivo di quello con Auteuil e si conclude in modo non del tutto convincente.

19 giugno 2010

Cannes e dintorni 2010 - conclusioni

Rassegna deludente, soprattutto per la mancanza di idee e di fantasia evidenziata dalla maggior parte dei film. Tranne rari casi, quasi tutte le pellicole hanno preferito "volare basso", raccontando storie quotidiane e minimaliste e spaccati di vita poco interessanti: fa (in parte) eccezione proprio la Palma d'Oro, "Uncle Boonmee who can recall his past lives", che forse andrebbe rivalutata e che ha scontato il fatto di essere stata programmata nel primo giorno della rassegna, quando le aspettative erano più alte. Magari in futuro proverò a rivederla per giudicarla meglio almeno dal punto di vista formale (visto che come contenuti, comunque, offre ben poco). Il film che mi è piaciuto di più, l'unico che a distanza di tempo potrei potenzialmente definire un capolavoro, è stato l'originale documentario italiano "Le quattro volte" di Michelangelo Frammartino. Ma ho gradito anche la commedia americana "City Island", il thriller nippo-britannico "Chatroom" di Hideo Nakata, l'estenuante rumeno "Aurora", il messicano "Año bisiesto" e il francese "Pieds nus sur les limaces". Fra i film peggiori ci metto senza dubbio il noiosissimo "Bright star" della Campion (per la quale ho una vera e propria idiosincrasia), mentre non mi hanno particolarmente convinto né "La nostra vita" di Daniele Luchetti né due pellicole britanniche che invece hanno ottenuto un buon riscontro di critica: "Another year" di Mike Leigh e "Tamara Drewe" di Stephen Frears.

18 giugno 2010

City Island (R. De Felitta, 2009)

City Island (id.)
di Raymond De Felitta – USA 2009
con Andy Garcia, Julianna Margulies
**1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Tutti hanno i propri segreti, tenuti accuratamente nascosti agli occhi degli altri: persino le città come New York. La City Island del titolo, infatti, è una piccola isola situata nella circoscrizione newyorkese del Bronx e ignota quasi a tutti, un tempo sede di un villaggio di pescatori. Qui vive Vince Rizzo (uno strepitoso Andy Garcia), che lavora come agente di custodia in un carcere ma sogna in segreto di diventare attore come il suo idolo Marlon Brando. La decisione di ospitare in casa il "delinquente" Tony (Steven Strait), figlio illegittimo nato da una relazione precedente al suo matrimonio (e di cui non ha mai parlato alla consorte) scatena una serie di eventi che costringeranno tutti i membri della famiglia a svelare i numerosi segreti che si nascondono a vicenda (a cominciare dalle cose più piccole, come il fatto che tutti fumano all'insaputa degli altri). Oltre all'esistenza di Tony, Vince infatti non ha mai rivelato alla moglie Joyce (Juliana Margulies) che frequenta un corso di recitazione; quando la sua compagna di corso Molly (Emily Mortimer) lo convince a presentarsi a un'audizione per un ruolo in un film di Martin Scorsese (!), Joyce crede invece che i due siano amanti e per ripicca si getta fra le braccia di Tony, che dal suo canto ignora la propria parentela con Vince; il figlio minore della coppia, Vinnie (Ezra Miller), ha una passione per le ragazze "in carne" e comincia a frequentare una vicina di casa dalla taglia extralarge; la figlia maggiore Vivian (Dominik Garcia-Lorido), che tutti credono una seria studentessa di college, fa invece la spogliarellista in un locale notturno. Ma tutte le finzioni, i segreti e le bugie salteranno all'aria al termine di una giornata ricca di esilaranti eventi, e perdonarsi sarà facile visto che ognuno ha i propri scheletri nell'armadio. Ottimo tutto il cast, vero punto di forza della pellicola. Fra i momenti più memorabili di questa divertente commedia indipendente c'è senza dubbio la scena del provino di Vinnie con la sua improvvisazione in stile De Niro.

Alting bliver godt igen (C. Boe, 2010)

Everything will be fine (Alting bliver godt igen)
di Christoffer Boe – Danimarca 2010
con Jens Albinus, Marijana Jankovic
**

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Uno sceneggiatore che sta lavorando allo script di un film bellico (e che contemporaneamente, insieme alla moglie, cerca di rimediare ai disguidi della pubblica amministrazione che ostacolano il loro tentativo di adottare un figlio) rimane coinvolto nel caso di un soldato ritornato dal Medio Oriente con fotografie che mostrano le torture perpetrate dai militari danesi su alcuni prigionieri di guerra. Vorrebbe renderle pubbliche, ma si ritrova invischiato in una rete di complotti e scopre di non potersi fidare di nessuno... o forse ogni cosa è soltanto frutto della fantasia e della paranoia di una mente disturbata? Etichettato superficialmente come il nuovo Lars von Trier, in realtà Boe guarda più a Hitchcock (come suggerisce la locandina originale del film) e a Godard (citato più volte: la casa di produzione della pellicola si chiama Alphaville, un personaggio Lemmy, su una parete si vede un poster de "Il maschio e la femmina"). Il suo film comincia bene ma brucia in fretta tutte le cartucce, fino a un finale prevedibile e non del tutto soddisfacente per come mette a posto i frammenti del puzzle. Il titolo originale significa "Andrà tutto bene".

17 giugno 2010

Picco (Philip Koch, 2010)

Picco
di Philip Koch – Germania 2010
con Constantin von Jascheroff, Joel Basman
**

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Ispirato a un evento realmente accaduto, questo film tedesco ambientato in un carcere minorile racconta un episodio particolarmente scioccante: la morte di un giovane prigioniero, costretto a "suicidarsi" dai suoi compagni di cella dopo una lunga serie di vessazioni e maltrattamenti. "Picco" è il soprannome che nel carcere viene dato agli ultimi arrivati, costretti a sopportare le angherie e i capricci dei compagni più anziani. Quando Kevin, il protagonista, entra in cella, si rende subito conto che la prigione – ben lungi dall'essere un moderno istituto di rieducazione, come si illudono gli stessi carcerieri – è in grado di tirar fuori la parte più cattiva di chi vi è rinchiuso. All'inizio la sua sensibilità lo porta a stare dalla parte dei più deboli, ma ben presto capisce che se un ragazzo viene preso di mira dal resto del gruppo non ha più speranza di salvezza: i più fragili e gli isolati devono soccombere ai più forti. Pur di salvarsi, sceglierà dunque di adattarsi alle "regole", individuando una vittima sacrificale su cui far accanire gli altri al proprio posto. Se la prima parte del film è piuttosto convenzionale e presenta molti luoghi comuni sulle dinamiche (basate su violenza e omofobia) che caratterizzano una prigione, pian piano la tensione monta fino alla lunga e drammatica sequenza finale. Dunque, un film interessante: peccato per un'eccessiva drammatizzazione e per toni e dialoghi non sempre convincenti.

Tutti per uno (R. Goupil, 2010)

Tutti per uno (Les mains en l'air)
di Romain Goupil – Francia 2010
con Linda Doudaeva, Valeria Bruni Tedeschi
*1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il cinema francese si è spesso dedicato a ritrarre bambini e ragazzi all'interno del sistema scolastico, e questo film (la cui vicenda è curiosamente raccontata in un lungo flashback dagli stessi protagonisti, ormai invecchiati, nell'anno 2067) si iscrive appieno nel filone inaugurato da "Zero in condotta". Ma il tema trattato – le espulsioni dei figli di extracomunitari e immigrati illegali – è talmente preciso e circostanziato da far assumere alla pellicola valenze più "politiche" che sociali. La protagonista, l'undicenne Milana, è infatti di origine cecena e vive nel terrore che un giorno o l'altro i poliziotti si presentino in casa sua per costringerla ad abbandonare il paese, soprattutto dopo aver già visto accadere la stessa cosa ad alcuni compagni di scuola. Mentre la questione comincia a preoccupare anche insegnanti e genitori (con alcuni, come Valeria Bruni Tedeschi, che dimostrano solidarietà offrendosi di ospitare in casa propria i bambini a maggior rischio di espulsione), Milana e alcuni dei suoi amici più stretti (fra cui spiccano il coetaneo Blaise, innamorato di lei, e la sua sorellina Alice, di soli otto anni) mettono in atto una singolare forma di protesta, fuggendo di casa e nascondendosi in uno scantinato per alcuni giorni, attirando così l'attenzione dei media sul problema. Quando alla fine usciranno dalla loro tana, convinti dagli appelli di compagni e genitori, lo faranno tenendo le mani in alto, come prigionieri politici. Come capita spesso in questo tipo di film, la spontaneità dei piccoli attori è una delle cose migliori di un lungometraggio "a tema" e privo di particolare mordente.

15 giugno 2010

Le quattro volte (M. Frammartino, 2010)

Le quattro volte
di Michelangelo Frammartino – Italia 2010
con Giuseppe Fuda, Bruno Timpano
***

Visto al cinema Anteo (rassegna di Cannes).

L'esistenza arcaica e senza tempo in un paesino nell'interno della Calabria (la pellicola è stata girata a Caulonia e dintorni), scandita dal ritmo della natura, dalle attività degli uomini e dalla vita degli animali: al suo secondo film, con una lavorazione durata cinque anni, Frammartino stupisce con un documentario assolutamente sui generis, dal fascino antropologico e naturalista, che dopo un primo impatto un po' faticoso svela pian piano tutta la propria magia, conquistando lo spettatore e accompagnandolo in un mondo fatto di immagini e di suoni (il silenzio del villaggio, la tosse del pastore, il belato delle capre, il vento che soffia fra gli alberi), di situazioni divertenti e surreali (il cane – che a Cannes ha vinto un premio speciale per la sua interpretazione! – che provoca un piccolo incidente, immortalato sullo schermo in un meraviglioso piano sequenza; i giochi delle caprette), di tradizioni affascinanti e arcaiche (la polvere raccolta in chiesa che viene usata come medicina; il lavoro dei "carbonai" di Serra San Bruno). Accanto agli uomini, i veri protagonisti sono gli animali (anche formiche e lumache!), gli alberi, il vento, persino le pietre e il carbone. Come in un continuo passaggio di testimone (c'è addirittura chi ha parlato di reincarnazione), la macchina da presa segue diversi soggetti che si danno periodicamente il cambio: un pastore anziano e malato che conduce i suoi animali al pascolo; una capretta appena nata che si smarrisce durante la sua prima escursione all'aperto; un maestoso abete, lo stesso che aveva offerto protezione alla capretta, che viene abbattuto per usarne il tronco durante la festa del paese; e infine i carbonai che ne trasformano la legna in preziosa materia prima per i camini del paese attraverso un lungo ed elaborato procedimento. Quattro stagioni, quattro soggetti, quattro regni (umano, animale, vegetale e minerale), intimamente legati fra loro, con lo schermo che occasionalmente si tinge di nero a segnalare la fine di un ciclo e l'inizio di uno nuovo. Se lo sguardo attento, asciutto e minimalista di Frammartino può far pensare ai grandi documentaristi del passato (ma anche a Bresson), la surreale quotidianità che il film mette in mostra ricorda, soggetto a parte, quella dei lavori di Jacques Tati, con i quali ha anche in comune l'inintelligibilità (o meglio l'irrilevanza) dei dialoghi umani, l'acuta osservazione del comportamento di uomini e animali e almeno una scena (quella del palo della cuccagna) che sembra provenire da "Giorno di festa".

Tamara Drewe (Stephen Frears, 2010)

Tamara Drewe - Tradimenti all'inglese (Tamara Drewe)
di Stephen Frears – Gran Bretagna 2010
con Gemma Arterton, Roger Allam
**

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

La quiete di un villaggio nella campagna inglese – e in particolare quella di una fattoria che la proprietaria Beth ha trasformato in una residenza per scrittori in cerca di tranquillità e di ispirazione – viene turbata dal ritorno di Tamara Drewe, una ragazza che aveva abbandonato il paese quando era ancora adolescente e che ora è tornata con una plastica al naso e un corpo "burroso" che attira gli sguardi di tutti, in particolare quelli del suo ex boyfriend Andy (che ora lavora come giardiniere) e di Nicholas (marito di Beth, impenitente adultero e autore di una serie di romanzi polizieschi di successo). Ma un celebre batterista rock di passaggio e gli intrighi di una coppia di ragazzine impiccione daranno vita a una serie di equivoci e di eventi che mescoleranno le carte in tavola. È un po' una stupidaggine, questo film di Frears tratto da un fumetto di Posy Simmonds, che si disperde fra troppi personaggi (c'è anche un serioso accademico che si innamora di Beth), al punto da dimenticarne alcuni per strada (molti degli scrittori visti all'inizio, la barista), e con una trama che sembra procedere a casaccio. L'immoralità di fondo e il tono da black comedy strappano qualche risata, ma è difficile affezionarsi ai personaggi o simpatizzare con loro. Si salva la fotografia solare e colorata, che illustra l'avanzare delle stagioni ammantando di irrealtà l'ambiente rurale in cui si svolge la vicenda, ma nel complesso è un film perdibile, anche perché la protagonista è assai antipatica e il finale è telefonato.

Somos lo que hay (J. M. Grau, 2010)

Somos lo que hay
di Jorge Michel Grau – Messico 2010
con Francisco Barreiro, Adrián Aguirre
*1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

In un isolato appartamento di una grande città vive una famiglia di cannibali: ogni sera il padre, che di giorno ripara orologi al mercato, esce a caccia in cerca di "prede" per sfamare la moglie e tre figli (due maschi e una femmina): ma quando l'uomo muore improvvisamente, i rimanenti membri della famiglia discutono su chi dovrà prenderne il posto come leader e procacciatore di cibo. Nel frattempo, alcuni poliziotti indagano sulle persone scomparse (in gran parte prostitute)... Cupo e atipico horror con velleità autoriali: originale sì, cupo e violento, ma anche poco appassionante e difficile da prendere sul serio: nel finale, come al solito in questo tipo di pellicole, non mancano momenti di ridicolo involontario.

14 giugno 2010

Pieds nus sur les limaces (F. Berthaud, 2010)

Pieds nus sur les limaces
di Fabienne Berthaud – Francia 2010
con Ludivine Sagnier, Diane Kruger
**1/2

Visto allo Spazio Oberdan, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Dopo l'improvvisa morte della madre, la giovane Lily rimane da sola nella confusione della sua grande casa in campagna, vivendo come uno spirito selvaggio in armonia con la natura, tra bambole, strane decorazioni e animali vivi e morti, dedicandosi a insolite attività come fare il bagno nuda nel fiume e realizzare pantofole e collane con le pelli di lepri e topi che conserva nel frigorifero. La sorella maggiore Clara, impiegata in città nello stesso studio legale dove lavora il marito, è costretta a decidere cosa fare di questa ragazza "un po' matta", che si rifiuta di seguire le regole sociali e che dice sempre tutto quello che le passa nella testa, infastidendo non poco le persone che le stanno attorno con le sue impertinenti verità. Dopo un primo tentativo di tenerla con sé in appartamento, che fallisce per l'impossibilità di Lily di adattarsi alla vita cittadina, Clara decide di prendersi una pausa dal lavoro e di trasferirsi con la sorella in campagna: e qui sarà proprio lei a lasciarsi lentamente contagiare – non senza difficoltà e momenti di crisi, in una continua alternanza fra momenti piacevoli e problemi – dallo stravagante stile di vita di Lily, superando grazie all'amore tutte le tensioni e imparando come lei a vivere "un giorno alla volta". Un film strano e delicato che mette a confronto follia e normalità, la natura selvaggia e quella borghese, finendo col tessere l'elogio della prima come la strada più diretta verso la felicità. Il tono è quello della commedia dolceamara, e non mancano momenti piuttosto intensi (la scena in cui Clara ha l'impulso di affogare Lily nella vasca da bagno giunge inaspettata e tremenda), per fortuna senza mai scivolare nel patetico o nello stucchevole. Ottima l'interpretazione delle due bionde protagoniste. Il titolo significa "A piedi nudi sulle lumache".

13 giugno 2010

Aurora (Cristi Puiu, 2010)

Aurora
di Cristi Puiu – Romania 2010
con Cristi Puiu, Clara Voda
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Ultimamente il cinema rumeno sta attraversando un buon momento (basti pensare a Mungiu e Porumboiu) e anche questo "Aurora" ha i suoi motivi d'interesse: in parte ricorda addirittura l'assurdità esistenziale di "Dillinger è morto" di Ferreri, pur con le dovute differenze. Vediamo un uomo (interpretato dallo stesso regista) uscire di casa, apparentemente per recarsi a ripulire e imbiancare un vecchio appartamento. Ma porta con sé anche un fucile, con il quale intende compiere una serie di omicidi. Soltanto nel finale ci verrà rivelato il vero significato delle sue azioni. La durata estenuante (tre ore) e la rarefazione dei dialoghi non impediscono di provare una certa curiosità per le azioni enigmatiche del personaggio sullo schermo, che si muove in un contesto urbano e casalingo con spersa inquietudine. Lo stile è compatto e coerente, il ritmo rilassato, con numerosi e lunghi piani sequenza: da un lato lo spettatore è tenuto a distanza, in quanto non gli viene spiegato né fatto capire cosa stia pensando il protagonista (è assente qualsiasi tipo di inserto o di dialogo di carattere didascalico); dall'altro ne diventa però il "compagno di viaggio", visto che l'uomo non viene abbandonato nemmeno per un istante ed è sempre presente sullo schermo per tutta la durata del film. La lunga successione di piccoli gesti, azioni, spostamenti, visite a familiari, inframmezzata dai colpi di fucile che rompono improvvisamente il silenzio, ha un qualcosa di ipnotico che – grazie anche all'iniziale enigmaticità della vicenda – lascia incollati allo schermo fino alla fine.

The light thief (Aktan Arym Kubat, 2010)

The light thief (Svet-ake)
di Aktan Arym Kubat – Kirghizistan 2010
con Aktan Arym Kubat, Taalaikan Abazova
*1/2

Visto allo Spazio Oberdan, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

In un piccolo e remoto villaggio del Kirghizistan, situato in una vallata spazzata dal vento, l'anziano elettricista Svet-ake ("signor Luce") vorrebbe che tutti potessero disporre di energia gratis, e dunque aiuta gli abitanti realizzando allacciamenti abusivi alle linee elettriche e manomettendo i contatori. Il suo sogno è comunque quello di costruire una centrale eolica fra le montagne: e un ambizioso uomo politico, giunto da fuori in cerca di voti per le imminenti elezioni, promette di aiutarlo a realizzare il progetto. Ma quando Svet-ake scopre come l'uomo umilia le tradizioni e gli abitanti del posto durante un incontro con alcuni investitori cinesi, si ribella. Film di puro interesse antropologico, che essenzialmente lascia il tempo che trova. Il protagonista è lo stesso regista (il cui vero nome è Aktan Abdykalykov).

Año bisiesto (Michael Rowe, 2010)

Año bisiesto
di Michael Rowe – Messico 2010
con Monica del Carmen, Gustavo Sánchez Parra
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Laura vive sola e infelice nel suo appartamento di Città del Messico: lavora in casa da precaria scrivendo articoli per alcune riviste, mangia cibo in scatola, telefona sporadicamente ai genitori, spia di nascosto i vicini e ogni tanto si reca in qualche locale per rimorchiare un ragazzo che la abbandona immancabilmente dopo un breve rapporto sessuale. Triste e depressa, conosce infine Arturo, con cui imbastisce una relazione di stampo sadomasochistico che si fa via via più estrema. Ma quando Laura gli chiederà addirittura di ucciderla, il 29 febbraio (l'anniversario della morte del padre, che aveva segnato in rosso sul calendario), lui si tirerà indietro e a lei non resterà che voltare pagina: è marzo. Ambientato nell'arco di un mese e girato quasi completamente all'interno delle quattro mura dell'appartamento della protagonista, è un film "piccolo" ma incisivo che scava con forza nell'animo del personaggio principale, in un crescendo emotivo, spingendo lo spettatore a empatizzare con lei e con la sua malinconica disperazione. Ottima l'interprete, ma la cosa che mi è piaciuta di più è la sincerità che traspare dalla pellicola, che non si preoccupa mai di edulcorare i toni o di cercare le soluzioni più facili.

La nostra vita (Daniele Luchetti, 2010)

La nostra vita
di Daniele Luchetti – Italia 2010
con Elio Germano, Raoul Bova
*1/2

Visto al cinema Apollo (rassegna di Cannes).

Capocantiere edile rimasto vedovo dopo che la moglie è morta di parto dando alla luce il suo terzo figlio, Claudio si getta a capofitto nel lavoro in cerca di soldi per dare ai figli "tutto quello che ci manca e che non abbiamo mai avuto". Ricattando il responsabile dei lavori con la minaccia di rivelare che un guardiano notturno rumeno è morto cadendo nella tromba di un ascensore (una denuncia alla polizia o la scoperta del corpo, che è stato occultato, farebbero bloccare i lavori per mesi), ottiene il lucroso incarico di edificare una palazzina per conto proprio. Ma il compito rischia di rivelarsi superiore alle sue forze e il denaro per pagare gli operai comincia subito a scarseggiare. Nel frattempo, in preda ai sensi di colpa, si prende a cuore le sorti della famiglia del guardiano morto, frequentandone la compagna e assumendo il figlio come operaio. Troppa carne al fuoco per un film che accosta temi su temi, individuali (l'incapacità di elaborare il lutto; i rapporti familiari; la redenzione attraverso i sensi di colpa: ma i Dardenne avevano trattato l'argomento con ben maggior efficacia ne "La promesse") e sociali (uno sguardo cinico sul mondo dell'edilizia, con cantieri che si reggono sul lavoro in nero "perché siamo gente per bene"; la tirannia del denaro) senza fonderli tra loro in modo convincente e passando dall'uno all'altro con spudorata nonchalance, al punto da chiedersi se c'era davvero bisogno della morte della moglie per dare l'avvio alla vicenda. E non mancano dettagli e personaggi inutili (il fratello timido, interpretato da Raoul Bova) o sopra le righe (il trafficone paralitico, un Luca Zingaretti poco riconoscibile). La caratterizzazione del protagonista non è certo un esempio di coerenza, anzi è piena di contraddizioni e di cambi di personalità. Fra scene azzeccate e altre insopportabili (su tutte il canto a squarciagola al funerale), la pellicola non rinuncia al lieto fine e al buonismo (con tutti i parenti disposti ad aiutare il protagonista) e francamente offre ben poco a parte le buone interpretazioni degli attori, Germano (premiato a Cannes) in testa. Come al solito certi film italiani andrebbero doppiati perché, fra inflessioni dialettali e suono in presa diretta, buona parte dei dialoghi risulta inintellegibile.

12 giugno 2010

Chatroom (Hideo Nakata, 2010)

I segreti della mente (Chatroom)
di Hideo Nakata – GB/Giappone 2010
con Aaron Johnson, Imogen Poots
**1/2

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Cinque adolescenti londinesi si ritrovano a conversare in una chat privata (chiamata "Chelsea Teens!") su internet. Tutti hanno problemi, principalmente con i genitori, percepiti come distanti e assenti, e cercano conforto negli altri. William detesta il mondo che lo circonda e soprattutto la madre, scrittrice di una popolare serie di libri per l'infanzia (ogni riferimento a J.K. Rowling è probabilmente voluto); Jim, abbandonato dal padre quando aveva solo sette anni, è timido, senza amici e prende antidepressivi; Emily si sente trascurata e oppressa dai genitori; Eva fa la modella ma non sopporta né l'ambiente né le sue amiche snob; Mo è innamorato della sorella minore del suo miglior amico, anche se ha solo undici anni. Il subdolo e manipolativo William, inizialmente con la complicità di Eva, si diverte a elargire agli amici falsi consigli, incitandoli a comportamenti aggressivi o (auto)distruttivi. Ma quando cercherà di spingere il fragile Jim al suicidio in diretta via webcam, gli altri si alleeranno contro di lui per fermarlo prima che sia troppo tardi. Girato in Gran Bretagna dal giapponese Nakata, "Chatroom" non è un horror come i lavori che hanno reso celebre il regista ("The ring", "Dark water") ma un interessante thriller psicologico che riesce a raffigurare visivamente sullo schermo, in modo azzeccato e potente, l'ambiente virtuale della rete: i siti, i social network e le chatroom sono mostrati come luoghi e stanze "reali" che si aprono su un lungo e spettrale corridoio, affollato e dai muri scrostati (che rappresenta l'intero world wide web). La fotografia aiuta a distinguere le scene ambientate nella realtà (caratterizzate da tonalità fredde e smunte) e quelle nel mondo virtuale (con colori caldi e forti), mentre anche situazioni come l'utilizzo di false identità o l'accesso con password vengono trasposte fisicamente. La sceneggiatura (adattata da un testo teatrale di Enda Walsh) si basa sui meccanismi di interazione su internet, così diversi da quelli della vita reale, che consentono a individui senza scrupoli di manipolare e sottomettere quelli più fragili. I temi della solitudine e dei suicidi giovanili si sarebbero sposati perfettamente anche con un'ambientazione giapponese, ma tutto sommato lo scenario di Londra non stona. Da segnalare l'inserimento di alcune animazioni a passo uno, in plastilina. Bravi gli attori e buona la caratterizzazione dei personaggi: una piacevole (e inaspettata) sorpresa!

Bright star (Jane Campion, 2009)

Bright star (id.)
di Jane Campion – GB/Australia 2009
con Abbie Cornish, Ben Whishaw
*

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Inghilterra, 1818: la frivola Fanny, appassionata di moda e di cucito, si innamora del giovane e squattrinato poeta romantico John Keats, nonostante l'ostilità che Charles Brown (Paul Schneider) – possessivo amico e collega dell'uomo – nutre nei suoi confronti. Anche se l'affetto sarà ricambiato ("Bright star", stella lucente, è il sonetto che lui le dedica), la passione tra i due non si consumerà perché Keats morirà di tubercolosi a Roma, all'età di soli 25 anni, prima di poter raggiungere il successo. Non frequentavo Jane Campion da "Lezioni di piano" (pellicola che avevo detestato; ma da allora non l'ho più rivista e forse dovrei: sono passati così tanti anni!) e ho trovato un film piatto e noioso, stucchevole e senza alcun guizzo, pieno di romanticismo adolescenziale, dove le emozioni e i sentimenti vengono dati per scontati, senza stimolare la partecipazione dello spettatore per le vicende amorose della protagonista (tutta la storia è narrata infatti dal punto di vista del personaggio femminile, peraltro piuttosto insulso) né suscitare il desiderio di approfondire la conoscenza di Keats (qui ritratto senza personalità) o della sua poesia.

11 giugno 2010

Another year (Mike Leigh, 2010)

Another year (id.)
di Mike Leigh – Gran Bretagna 2010
con Jim Broadbent, Ruth Sheen, Lesley Manville
**

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Tom e Gerri (che nomi!) sono una coppia felice: lui è geologo, lei consulente psicologica, ed entrambi hanno la passione per il giardinaggio. Attorno a loro si muovono però parenti e amici tristi, soli e insicuri: il figlio Joe, sempre senza una ragazza; l'amico di famiglia Ken, sovrappeso e trasandato; Ronnie, fratello di Tom, vedovo e incapace di comunicare con il figlio; e soprattutto la patetica Mary, collega di Gerri, disperatamente in cerca di una via di fuga dalla propria solitudine. Attraverso quattro lunghe sequenze ambientate nelle diverse stagioni dell'anno, Leigh mette a confronto la perfetta armonia degli anziani coniugi (talmente perfetta da renderli quasi antipatici: che diritto hanno di fare la morale agli altri?) con il malessere di coloro che li circondano e che si aggrappano come parassiti alla loro felicità. Anche se la pellicola è corale, la vera protagonista è comunque Mary, che a un certo punto si illude persino di poter iniziare una relazione con il giovane Joe e rimane delusa quando lui si presenta finalmente con una ragazza. Leigh cerca di replicare il cocktail di realismo psicologico e analisi sociale della piccola e media borghesia britannica che gli era valsa la Palma d'Oro anni prima con "Segreti e bugie", ma stavolta convince di meno e i personaggi sembrano delle macchiette, nonostante alcuni momenti in cui l'inadeguatezza di Mary (ottima la mimica dell'interprete, Lesley Manville) appare quasi esilarante. La mancanza di una vera conclusione è sicuramente voluta, dato che l'intento è quello di mostrare la tristezza di "un altro anno" come tanti in un'esistenza vuota e disagiata, ma troppi spunti vengono lasciati cadere nel nulla (vedi il cameo di Imelda Staunton all'inizio, nei panni di una paziente di Gerri che soffre d'insonnia) o si sviluppano in modo banale.

Lo zio Boonmee... (A. Weerasethakul, 2010)

Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti
(Loong Boonmee raleuk chat)
di Apichatpong Weerasethakul – Thailandia 2010
con Thanapat Saisaymar, Jenjira Pongpas
*1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

L'anziano Boonmee, gravemente malato, gestisce una fattoria ai margini della giungla con l'aiuto di immigrati laotiani. Qui riceve la visita della cognata Jen e del nipote Tong, ma soprattutto quelle del fantasma della moglie, morta diciannove anni prima, e del figlio, che era scomparso nella foresta e che ora ritorna trasformato in uno scimmione dagli occhi rosso fuoco. Dopo una lunga scena apparentemente slegata dal resto (ma che, alla luce del fin troppo esplicito titolo del film, potrebbe essere interpretata come un momento di una vita passata) in cui un'antica principessa cerca di ritrovare la gioventù e la bellezza facendosi possedere da uno spirito-pesce, vediamo Boonmee e i suoi cari addentrarsi nella giungla fino a una grotta dove l'uomo si lascerà morire, circondato da presenze ancestrali e primitive. Dopo il funerale, Jen e Tong (diventato ora un monaco) si "sdoppieranno". L'incomprensibile (in tutti i sensi) Palma d'Oro di Cannes 2010 è un film ermetico e animista che alterna sequenze realistiche e concrete con altre fiabesche e oniriche, cercando di costruire un'atmosfera sospesa e magica che però elude costantemente lo spettatore, senza mai dare l'impressione di sviluppare in maniera sensata i temi della morte, della memoria e della trasformazione. Proprio la contaminazione di momenti prosaici e realisti con altri più surreali e inquietanti gioca a sfavore della pellicola, che alla fine non risulta né carne né pesce. Il ritmo è lentissimo (come il modo di parlare e di muoversi dei personaggi), lo stile impescrutabile (cosa c'entrano i fermo immagine con i soldati e l'uomo travestito – questa volta apertamente, si vede anche la lampo! – da gorilla?), i costumi ridicoli (l'uomo-scimmia sembra un incrocio fra un Wookie con i peli neri e il testimonial del Crodino), e regia e fotografia non impressionano in alcun modo. Non sempre l'atmosfera basta a salvare un film o a fornire una chiave di lettura, soprattutto quando allo spettatore è preclusa qualsiasi connessione emotiva con i personaggi e gli eventi.

9 giugno 2010

Cannes e dintorni 2010

Stasera inizia la rassegna milanese dei film di Cannes. Quest'anno aveva rischiato di non essere organizzata, a causa del taglio dei finanziamenti istituzionali. Invece alla fine ci sarà, anche se non si può fare l'abbonamento ma bisognerà acquistare i biglietti per le singole proiezioni, una pratica abbastanza scomoda (obbliga a comprare i biglietti in anticipo per essere sicuri di trovarli, impedendo di scegliere all'ultimo momento cosa vedere) oltre che meno conveniente. In più, il programma delude: mancano molti dei lavori che mi interessavano, come i film di Kitano, Michalkov, Araki, Assayas e Lee Chang-Dong. Comunque andrò a vedere la Palma d'Oro di Weerasethakul, più Leigh, Frears, Nakata e qualche altro, sperando di scoprire cose nuove.

8 giugno 2010

Non uno di meno (Zhang Yimou, 1999)

Non uno di meno (Yi ge dou bu neng shao)
di Zhang Yimou – Cina 1999
con Wei Minzhi, Zhang Huike
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Ilaria e Paola.

La contadina tredicenne Wei Minzhi viene assunta per sostituire per un mese il maestro della scuola elementare di un remoto villaggio di campagna, con la raccomandazione di non lasciare che nemmeno un alunno abbandoni gli studi. Quando Zhang Huike, il "discolo" della classe, viene inviato dalla famiglia a lavorare in una grande città, l'ostinata Wei decide di andarlo a recuperare per riportarlo indietro... Con un film di impronta neorealista, quasi "iraniano" (benché, rispetto a Kiarostami, qui si ricerchi maggiormente la partecipazione e la commozione del pubblico anche attraverso un pizzico di retorica), Zhang Yimou torna a occuparsi della Cina moderna come aveva già fatto in "Keep cool" e come farà in molti dei suoi lungometraggi successivi, che personalmente preferisco a quelli di impostazione più spettacolare. Gli attori sono in gran parte non professionisti, hanno gli stessi nomi dei loro personaggi e interpretano sé stessi. Lo spaccato sociale che ne esce è toccante e impressionante, e non si può non provare simpatia per le peregrinazioni della giovane protagonista, dapprima in difficoltà nel dover gestire alunni che hanno soltanto pochi anni meno di lei e poi alle prese con la confusione, la burocrazia e l'indifferenza che regnano in città (si tratta di Zhangjiakou, oltre 4 milioni di abitanti, nella provincia di Hebei). Alla fine riuscirà a ritrovare il bambino grazie al potere della televisione, che trasformerà la sua storia in un commovente "caso" di vita reale a beneficio degli spettatori. Girato con il beneplacito del governo cinese, che si è preoccupato affinché non ne uscisse un'immagine troppo retrograda del paese e soprattutto che alla fine la struttura sociale apparisse in grado di rimediare ai problemi degli abitanti, anche di quelli delle regioni più remote e rurali della nazione (ma il messaggio finale che invita a effettuare donazioni contro l'abbandono scolastico risulta fastidioso e posticcio), il film ha vinto il Leone d'Oro a Venezia (il secondo per Zhang) dopo che era stato escluso dal concorso al Festival di Cannes. Bravi e simpatici (come spesso accade in questi casi) i bambini, protagonisti di scene esilaranti come quelle dell'alzabandiera, delle lezioni di matematica "applicata", del lavoro nella fabbrica di mattoni e delle due lattine di Coca-Cola in condivisione.

7 giugno 2010

Colors (Dennis Hopper, 1988)

Colors - Colori di guerra (Colors)
di Dennis Hopper – USA 1988
con Robert Duvall, Sean Penn
**

Visto in DVD.

Oltre che come attore, Dennis Hopper – scomparso la scorsa settimana – ha operato nel cinema anche come regista. Mentre il suo lavoro più celebre, "Easy Rider", lo aveva visto impegnato su entrambi i fronti, con "Colors - Colori di guerra" si è limitato a stare dietro la macchina da presa, lasciando spazio alle interpretazioni del veterano Robert Duvall e di un giovane Sean Penn che mostrava già allora tutto il proprio talento. I due impersonano una coppia di poliziotti di Los Angeles alle prese con le bande giovanili che seminano violenza nei quartieri periferici della città e che lottano tra loro per questioni territoriali o semplicemente perché sfoggiano "colori" diversi. Se da un lato il film si focalizza sulle differenze fra i due protagonisti (l'esperto Duvall è pieno di pazienza e di buon senso, l'irruente Penn è più aggressivo e meno accondiscendente), dall'altro cerca di descrivere senza enfasi e con equilibrato distacco il mondo delle bande di strada, composte da ragazzi giovani (e spesso giovanissimi) che rivendicano – anche attraverso la violenza o la delinquenza – la propria appartenenza a un quartiere o a una minoranza etnica. Ma le vendette chiamano altre vendette, e l'escalation cruenta diventa inevitabile. In un simile panorama un lieto fine è fuori discussione, anzi non può proprio esserci una fine: tutto ricomincia da capo, c'è soltanto una maggior disillusione. Manca però un vero tentativo di analisi sociale o di spiegazione del fenomeno delle gang giovanili, e alla fine si ha l'impressione di aver visto soltanto un poliziesco un po' più realistico della media. Nel cast ci sono anche Maria Conchita Alonso, Don Cheadle e Damon Wayans.

4 giugno 2010

In the mood for love (Wong Kar-wai, 2000)

In the mood for love (Fa yeung nin wa)
di Wong Kar-wai – Hong Kong 2000
con Tony Leung Chiu-wai, Maggie Cheung
****

Rivisto in DVD, con Giovanni e Rachele.

Hong Kong, 1962. Alloggiati in due stanze affittate in appartamenti adiacenti, il signor Chow (giornalista con la passione per i romanzi wuxia) e la signora Chan (segretaria in un'agenzia di trasporti) cominciano a frequentarsi quando scoprono che i rispettivi coniugi, spesso assenti per lavoro, sono amanti. Dapprima cercano semplicemente di comprendere come sia nata la relazione altrui; ma poi l'intensità del rapporto, sotto il peso delle loro vite solitarie, crescerà sempre di più, fino alla sofferta decisione di separarsi: lui si trasferirà a Singapore, lei si rifarà una vita con un figlio. Il capolavoro di Wong Kar-wai, con il quale il regista volta stilisticamente pagina rispetto ai lavori precedenti per dedicarsi a una ricerca estetica estrema e quasi calligrafica, è un film talmente perfetto da lasciare estasiati. La struggente (anche se quasi banale) storia d'amore è raccontata contemporaneamente con grande distacco (non vedremo nemmeno un bacio fra i due protagonisti, benché ci siano pochi dubbi che il figlioletto che accompagna la signora Chan nell'epilogo sia stato concepito con Chow) e con enorme empatia, trasportando lo spettatore in un mondo chiuso e autoreferenziale, distante nel tempo e nello spazio ma vicino per emozioni e sentimenti. "Proprio perché non facciamo nulla di male, dobbiamo evitare i pettegolezzi", si dicono i due protagonisti, preoccupati di cosa penseranno i vicini di casa nel vederli insieme, imprigionati in ruoli sociali che la collocazione della vicenda negli anni sessanta, in una Hong Kong scossa da tensioni socio-politiche, rende ancora più soffocanti. La narrazione procede lenta, cadenzata da piccoli segnali che indicano la sempre maggior vicinanza dei protagonisti l'uno all'altro. La separazione finale, per quanto dolorosa, è quasi inevitabile. E a Chow non resta che confidare il suo segreto, l'amore per la donna, a un foro scavato nella parete delle rovine di Angkor Wat, in Cambogia, in una sequenza preceduta da filmati di repertorio sulla visita di Charles De Gaulle che contestualizzano l'ambientazione storica ("De Gaulle è parte della storia coloniale che sta per dissolversi", ha spiegato il regista).

Ma anche a livello di stile, tutto è straordinario in questo film: la regia curatissima, con ralenti che fermano il tempo e prolungano gli attimi di rassegnazione e di compartecipazione; una sceneggiatura che gioca con le ellissi, i dettagli, le frasi non dette, le menzogne degli amanti; un casting che si concentra sui due protagonisti e su poche altre figure marginali (il collega di Chow, la padrona di casa), scegliendo invece di non mostrare mai direttamente – se non attraverso l'inquadratura di una nuca o una voce fuori campo – i rispettivi coniugi che sono poi i motori della vicenda; la recitazione dei due interpreti, con un superbo Tony Leung, vincitore del premio per il miglior attore a Cannes, e una splendida Maggie Cheung, capace di farsi finalmente notare anche da quegli spettatori distratti che ancora non conoscevano la sua bravura; la fotografia di Christopher Doyle (sostituito nel finale da Mark Lee Ping-bin, collaboratore abituale di Hou Hsiao-hsien), dai colori forti, accesi, almodovariani, in grado di dare spessore palpabile a luci, ombre (sui muri), fumo di sigaretta e gocce di pioggia estiva; la colonna sonora, con lo splendido "Yumeji's theme" di Shigeru Umebayashi (tratto da un film di Seijun Suzuki) e brani di Michael Galasso affiancati da oldies di Nat King Cole ricchi di sensuale fascino latino, come le canzoni "Aquellos ojos verdes" e "Quizas, quizas, quizas" (il brano che dà il titolo al film, invece, si sente solo nei trailer); gli abiti, con Maggie Cheung in particolare che ne cambia a decine, indossando un cheongsam diverso in ogni scena ma sempre con estrema eleganza, i tessuti che le fasciano il corpo come un guanto (indimenticabili le sequenze in cui scende le scale per andare a comprarsi i ravioli al vapore quando il marito non c'è, incontrando immancabilmente Chow che si reca a fare lo stesso); e le scenografie, curatissime sin dalla scelta degli oggetti d'arredamento, le tende, le carte da parati, i muri scrostati per le strade. Quattro anni dopo Wong girerà un seguito, "2046", sempre con Tony Leung ma senza Maggie Cheung (a parte un breve cameo).

1 giugno 2010

Grisbi (Jacques Becker, 1954)

Grisbi (Touchez pas au grisbi)
di Jacques Becker – Francia/Italia 1954
con Jean Gabin, Lino Ventura
***1/2

Rivisto in VHS, con Giovanni, Rachele, Ilaria, Ginevra e Isacco.

L'anziano e rispettato gangster Max, stanco e disilluso, è sempre pronto ad aiutare e a proteggere gli amici, verso i quali ha un atteggiamento quasi paterno. Dopo aver portato a termine un grosso colpo, impadronendosi di preziosi lingotti d'oro insieme al complice di sempre, Henri "Riton" (René Dary), medita di ritirarsi finalmente a vita privata. Ma l'incauto Riton spiattella tutto alla sua donna, la ballerina Josy (Jeanne Moreau), che se l'intende con il capobanda Angelo (Lino Ventura, al suo esordio), il quale farà di tutto per mettere le mani sulla refurtiva, arrivando a rapire Riton e a chiedere un riscatto. Tratto da un romanzo di Albert Simonin, "Grisbi" (termine gergale che significa "bottino") non è solo un film che ha contribuito a fondare un genere e a rilanciare la carriera del protagonista: è anche un noir teso e crepuscolare, dominato dai temi dell'amicizia maschile, con un grande Gabin che tratteggia magnificamente un personaggio carismatico e misogino, disposto a rinunciare a tutto pur di non abbandonare il compare in difficoltà. Di fronte a giovani rivali disonesti e traditori e a donne infedeli e portatrici di guai, Max si erge come l'ultimo baluardo di un mondo ormai in via d'estinzione, basato su valori in declino come il rispetto dell'amicizia e della fedeltà. L'atmosfera decadente e malinconica è sottolineata dalla colonna sonora di Jean Wiener e dalla fotografia notturna e urbana di Pierre Montazel. Nell'ottimo cast ci sono anche Paul Frankeur (Pierrot, il proprietario del night club), Delia Scala (la segretaria dello zio ricettatore) e Marilyn Buferd (la raffinata amante di Max).