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10 novembre 2016

Tempeste sull'Asia (V. Pudovkin, 1928)

Tempeste sull'Asia (Potomok Chingis-Khana)
di Vsevolod Pudovkin – URSS 1928
con Valéry Inkijinoff, I. Dedintsev
**1/2

Visto in divx.

Un giovane cacciatore di pellicce della Mongolia si ribella all'avidità dei mercanti europei, che sfruttano lui e la sua gente, e si unisce ai partigiani che lottano sulle montagne contro le forze di occupazione inglesi. Arrestato, sta per essere fucilato: ma il comandante britannico scopre che il ragazzo è nientemeno che un diretto discendente di Gengis Khan e decide di metterlo a capo del paese, come sovrano "fantoccio", per sfruttare l'influenza che il nome dell'antico condottiero esercita ancora sulla popolazione. Il giovane saprà però riacquistare la propria dignità e guiderà il popolo contro gli oppressori inglesi, spazzandoli via come una tempesta (simbolicamente e letteralmente, nelle ultime, spettacolari scene del film). Il terzo lungometraggio della cosiddetta trilogia sulla "presa di coscienza" di Pudovkin è senza dubbio il più visionario e a più ampio respiro: quasi una fiaba epica, dove la narrazione è meno attenta alla precisione storica (nella realtà gli inglesi non hanno mai invaso la Mongolia) e più al sentimento collettivo post-rivoluzionario (i partigiani mongoli combattono su impulso e in nome dei soviet). A tratti affascinante nella sua qualità antropologica e documentaristica (si pensi all'incipit che mostra la vita dei cacciatori mongoli, e che ricorda "Nanuk l'eschimese" di Flaherty; alla lunga sequenza della visita del comandante inglese al tempo buddista, con le cerimonie e i balli in onore della reincarnazione del Lama; e in generale agli scenari degli altipiani, dei deserti e della tundra dell'Asia Centrale), il film soffre forse per la caratterizzazione – tipicamente da film di propaganda – di diversi personaggi (a partire dagli inglesi, anche se non tutti sono cattivi: il soldato incaricato di fucilare il protagonista, per esempio, mostra una crisi di coscienza, come il cacciatore di "Biancaneve"). A questo proposito, il montaggio – da sempre il punto di forza del cinema di Pudovkin, insieme alla potenza delle immagini – si sbizzarrisce in sequenze come quella in cui paragona la toeletta e la vestizione degli inglesi alla preparazione dei monaci per le cerimonie religiose. L'edizione restaurata dura due ore, contro i 70-80 minuti delle versioni precedenti.

15 settembre 2009

The two horses of Genghis Khan (B. Davaa, 2009)

The two horses of Genghis Khan (Chin Gisiyn Hoyor Zagal)
di Byambasuren Davaa – Mongolia/Germania 2009
con Urna Chahar-Tugchi, Hicheengui Sambuu
**

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Locarno)

Quasi un documentario che mostra la cantante tradizionale Urna nel suo viaggio dalla Mongolia Interna (la regione autonoma che fa parte della Cina) alla Mongolia Esterna (la nazione indipendente), alla ricerca dei frammenti di un'antica canzone popolare – quella che dà appunto il titolo al film – fino all'incontro con una vecchia pastora che ne ricorda parole e melodie. Parte del testo della canzone, che richiama la turbulenta storia della Mongolia e la sua doppia identità, è incisa sul manico di un antico violino "dalla testa di cavallo", tramandato a Urna da sua nonna e che la donna chiede a un esperto liutaio di restaurare. I paesaggi della steppa mongola, le campagne che vengono scavate in cerca dell'oro, costringendo pastori e contadini a riversarsi in città, antiche musiche e canzoni popolari, incontri con giovani e vecchi, il tentativo di salvare qualcosa della cultura e della tradizione prima che questa venga distrutta: è un film con un suo particolare fascino, praticamente senza alcuna tensione drammatica e di interesse puramente antropologico ed etnografico. Gli attori recitano tutti nei panni di sé stessi. E alla fine dei titoli di coda, una didascalia spiega che, terminate le riprese, tutti i costumi e gli strumenti sono andati distrutti nel corso di scontri di matrice politica. La regista è già nota da noi per "La storia del cammello che piange" e "Il cane giallo della Mongolia" (che non ho visto).

10 settembre 2006

Khadak (P. Brosens, J. Woodworth, 2006)

Khadak
di Peter Brosens e Jessica Hope Woodworth – Belgio/USA/Germania 2006
con Khayankhyarvaa Batzul, Dagvadorj Dugarsuren
*1/2

Visto al cinema Ariosto, in v. orig. sottotitolata
(rassegna di Venezia)

Una famiglia di pastori che vive nelle steppe della Mongolia viene obbligata dalle autorità a trasferirsi in una città mineraria con la scusa di un'epidemia che sta colpendo gli animali. L'urbanizzazione forzata amplifica in loro un profondo malessere. Il giovane figlio epilettico, in particolare, entra in contatto con un gruppo di ladruncoli e vagabondi che compiono strani riti, simili a quelli che la sciamana del suo villaggio eseguiva su di lui. A una prima parte di tono neorealistico segue una seconda metafisica e surreale, piena di visioni che vorrebbero essere poetiche ma lasciano il tempo che trovano. Lungo, pretenzioso, noioso, inconcludente: mentre lo guardavo non riuscivo minimamente a interessarmi a quello che accadeva sullo schermo. Ha vinto il premio per la miglior opera prima: ma se questo è il cinema del futuro, siamo fritti.