30 novembre 2019

Bande à part (Jean-Luc Godard, 1964)

Separato magnetico (Bande à part)
di Jean-Luc Godard – Francia 1964
con Anna Karina, Sami Frey, Claude Brasseur
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Due giovani delinquenti, Frantz (Sami Frey) e Arthur (Claude Brasseur), progettano di svaligiare la villa fuori Parigi dove Odile (Anna Karina), compagna di Frantz in un corso di inglese, risiede come ragazza alla pari. L'ingenua Odile ha infatti rivelato a Frantz che un altro ospite della casa, il signor Stolz, nasconde una grande somma di denaro nel proprio armadio. In attesa del colpo, i tre vagabondano per Parigi, amoreggiano e filosofeggiano. Dopo la produzione internazionale de "Il disprezzo", Godard voleva dirigere un film "povero" e quasi improvvisato, volutamente in bianco e nero e a basso costo, e l'occasione gliela fornì un romanzo noir di Dolores Hitchens suggeritogli dall'amico François Truffaut. Girato in maniera libera e sbarazzina per le strade di Parigi, i suoi locali e le periferie, ricco di momenti estemporanei eppure memorabili (il "minuto di silenzio" in cui si arresta anche la banda sonora; Anna Karina che canta in metropolitana; il ballo a tre – la "Madison dance" – in un caffé, scena che richiedette molti giorni di prove perché i due attori maschili avevano difficoltà a muoversi a tempo; la scena in cui i tre ragazzi decidono di battere il record della visita più rapida al Louvre, correndo per le stanze del museo e completando il percorso in meno di 9 minuti e 45 secondi, scena che sarà omaggiata da Bernardo Bertolucci in "The dreamers"), molti dei quali inseriti nella pellicola soltanto perché altrimenti sarebbe risultata troppo breve, il film è diventato uno dei più poetici e iconici di Godard, capace di influenzare numerosi cineasti anche a distanza di anni. Quentin Tarantino, per dirne uno, ha addirittura chiamato A Band Apart la propria casa di produzione. In Italia, d'altro canto, ha sempre avuto poca visibilità, tanto da aver ricevuto soltanto una distribuzione limitata in sala (con l'insolito titolo "Separato magnetico"). Molti riferimenti ai B-movie e alle pellicole di genere americane (che Godard e i suoi colleghi della Nouvelle Vague amavano molto), sia dal punto di vista stilistico che sotto forma di citazioni esplicite da parte dei personaggi. A un certo punto Anna Karina guarda in macchina, come aveva già fatto in "Questa è la mia vita". In una scena, un'insegna luminosa recita "Nouvelle Vague". Frasi celebri: "Tutto ciò che è nuovo è per questo automaticamente tradizionale" (attribuita a Eliot) e "Meglio essere ricchi e felici che poveri e infelici". Le musiche (compreso il brano R&B della scena della danza) sono di Michel Legrand, di cui curiosamente i titoli di testa affermano che potrebbe essere l'ultimo suo lavoro per il cinema (non è vero, naturalmente). Qualche similitudine con "Jules e Jim" di Truffaut, per il terzetto di protagonisti ma anche per la voce "letteraria" (e, in questo caso, metacinematografica) fuori campo, fornita dallo stesso Godard, che nel finale preannuncia un sequel che non sarà mai girato, con "le avventure di Odile e Frantz nei paesi caldi", questa volta in Cinemascope e Technicolor.

29 novembre 2019

Cry me a river (Jia Zhangke, 2008)

Cry me a river (Heshang de aiqing)
di Jia Zhangke – Cina 2008
con Zhao Tao, Wang Hongwei
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Quattro amici, un tempo amanti ed ex compagni di studi (Zhao Tao, Wang Hongwei, Hao Lei, Guo Xiaodong), si ricontrano nella città di provincia dove dieci anni prima si erano laureati, e dove sono tornati per festeggiare il compleanno di un loro professore. Il ritrovo è l'occasione per un tuffo nei ricordi, nei rimpanti e nelle confessioni d'amore. Breve cortometraggio (dura una ventina di minuti), intimo e nostalgico, realistico ed intenso, che Jia ha realizzato ispirandosi al classico cinese "Spring in a small town" per ritrarre sullo schermo frammenti di vite ed esistenze che tornano a incrociarsi dopo tanto tempo. I protagonisti, un tempo giovani poeti e sognatori, hanno preso strade diverse, forse ormai inconciliabili, e vivono ora immersi nei ritmi frenetici e commerciali della Cina moderna: ma i ricordi e le esperienze comuni (anche amorose) li legano ancora al loro passato. E aggirarsi nei luoghi della loro giovinezza li spinge forse a riattivare i sentimenti perduti. Splendida la fotografia. Il film è stato girato a Suzhou, città antichissima e tranquilla, considerata la "Venezia d'oriente" per i suoi numerosi canali, che fa da sfondo ideale alla breve vicenda (è quasi un peccato che lo spunto non abbia dato origine a un lungometraggio).

28 novembre 2019

Ti do i miei occhi (Icíar Bollaín, 2003)

Ti do i miei occhi (Te doy mis ojos)
di Icíar Bollaín – Spagna 2003
con Laia Marull, Luis Tosar
*1/2

Visto in divx.

Scappata via da un marito violento e irascibile, Pilar (Laia Marull) si rifugia dalla sorella Ana con il figlioletto e cerca di rifarsi una vita, lavorando come guida museale. Ma il marito Antonio (Luis Tosar) si rifà vivo, affermando di essere cambiato anche grazie al consulto con uno psicologo per imparare a controllarsi. Sarà vero? Ambientato a Toledo, una fiction melodrammatica e retorica, che affronta il tema delle violenze domestiche in modo diretto e senza sottigliezze. Se è apprezzabile il realismo psicologico (veicolato però più dalle buone interpretazioni che da una sceneggiatura fin troppo costruita), dal punto di vista cinematografico è una visione patetica e sgradevole, con personaggi talmente esagerati e chiusi nei loro ruoli da risultare quasi caricaturali (in particolare Antonio, irrazionalmente geloso e irascibile). E che non imparano mai dai propri errori: che marito e moglie non abbiano nulla in comune (lei sensibile e interessata all'arte, lui un buzzurro senza empatia e sempre arrabbiato) era evidente sin dall'inizio. Trascurabili i personaggi di contorno (compreso il bambino, del tutto inutile ai fini della storia). Più che un film, sembra un documentario educativo da proiettare nei centri sociali o di assistenza. Pluripremiato ai Goya.

26 novembre 2019

Elvis il re del rock (John Carpenter, 1979)

Elvis il re del rock (Elvis)
di John Carpenter – USA 1979
con Kurt Russell, Shelley Winters
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Film per la tv che ripercorre la vita e la carriera di Elvis Presley, dall'infanzia al college, dai primi concerti al successo globale. Il tutto è raccontato attraverso un lunghissimo flashback, mentre il cantante si prepara a tornare in scena a Las Vegas, nel 1969, nove anni dopo la sua ultima apparizione in pubblico (e pertanto la pellicola non prende in considerazione gli ultimi controversi anni di vita). Girato su commissione da un Carpenter che, reduce dal successo di "Halloween", stava cercando di non rimanere imprigionato nel genere horror, si tratta di un biopic piuttosto convenzionale ma comunque decisamente godibile e ben fatto, che a soli due anni dalla sua scomparsa (Elvis era morto nel 1977) riesce a realizzare un buon ritratto di una vera e propria icona del rock e dello spettacolo americano, senza limitarsi ai soli dati biografici ma indagando anche nella sua personalità, nei legami famigliari (in particolare il forte amore verso la madre, ma anche i "dialoghi" con il fratello gemello Jesse Garon, nato morto), nei difetti caratteriali (la timidezza, l'insicurezza), nel difficile rapporto con il successo, nell'infelicità e nel progressivo isolamento. E come bonus offre tantissime canzoni, fra cui tutte le più celebri dell'artista (da "Heartbreak Hotel" a "Blue Suede Shoes", da "Can't Help Falling In Love" a "Suspicious Mind", per citarne solo alcune). Assai lungo (quasi tre ore: ma esiste una versione "accorciata"), alla sua uscita nel nostro paese è stato distribuito anche in sala: il doppiaggio italiano d'epoca è però andato perduto (come ci rivela Evit nel suo bel blog "Doppiaggi italioti"). Dopo una carriera da attore bambino per la Disney e diverse comparsate in televisione, con questo film Kurt Russell comincia un fortunato sodalizio con Carpenter, per il quale interpreterà tanti titoli di culto negli anni '80. Nel cast anche Shelley Winters (la madre Gladys), Robert Gray (l'amico Red West), Season Hubley (la moglie Priscilla), Pat Hingle (il "colonnello" Tom Parker, suo manager). Il padre Vernon è interpretato da Bing Russell, padre di Kurt. Una curiosità: nell'ultimo film in cui ha recitato, "Change of habit" del 1969, il personaggio interpretato da Elvis Presley si chiamava... John Carpenter!

24 novembre 2019

L'ufficiale e la spia (Roman Polanski, 2019)

L'ufficiale e la spia (J'accuse)
di Roman Polanski – Francia/Italia 2019
con Jean Dujardin, Louis Garrel
***

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina.

Il cosiddetto "affare Dreyfus" è stato uno degli scandali politici, sociali e giudiziari più celebri d'Europa, a cavallo fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, tanto da scuotere la Francia e dividere l'opinione pubblica in due acerrime fazioni (innocentisti e colpevolisti). Il film sceglie di raccontare l'intricata vicenda non dal punto di vista di Alfred Dreyfus (Louis Garrel), il soldato alsaziano di origine ebrea che nel 1894 fu accusato di spionaggio e alto tradimento e condannato alla deportazione, ma da quello di Marie-Georges Picquart (Jean Dujardin), l'ufficiale dei servizi segreti che contribuì a riaprire l'indagine su di lui, e in quanto tale si dipana come una spy story, fra thriller storico e giallo processuale, in grado di catturare l'attenzione dello spettatore e tenerlo attaccato allo schermo con tutto il mestiere di un regista "classico" che non ha bisogno di strizzatine d'occhio post-moderne (per fortuna!). Inizialmente convinto come tutti della colpevolezza di Dreyfus, anche a causa dell'antisemitismo diffuso nell'esercito e in ampi strati della popolazione francese, una volta nominato capo del dipartimento di statistica dello Stato Maggiore (ovvero l'unità di spionaggio) Picquart individua casualmente l'identità del vero colpevole e si rende conto che l'alsaziano è stato condannato ingiustamente e senza vere prove. La sua ostinata battaglia per la verità e la giustizia – anche grazie all'aiuto dello scrittore Émile Zola, autore della famosa lettera "J'accuse" – gli costerà a sua volta l'ostracizzazione dall'esercito e l'incriminazione... La sceneggiatura (di Polanski e Robert Harris) è tratta da un romanzo che lo stesso Harris aveva già scritto con l'intenzione di farne un film insieme all'amico regista (con il quale aveva già collaborato in passato): e non c'è dubbio che l'interesse di Polanski per l'argomento possa dipendere anche dalle persecuzioni e dalle accuse cui lui stesso è stato sottoposto in diversi momenti della sua vita (come bambino di famiglia ebrea durante la Seconda Guerra Mondiale; come artista e intellettuale nella Polonia comunista; e recentemente con le accuse di violenza sessuale negli Stati Uniti). Di impostazione classica e tradizionale, come dicevamo, il film non è però una semplice "illustrazione" asettica degli eventi passati, ma dà prova di profondità quando indaga nell'animo del protagonista, ben collocandolo nel contesto storico e nel clima sociale con cui interagisce e che fa da sfondo alla vicenda. Anzi, proprio questo clima è il vero centro nevralgico della pellicola, suggerendo peraltro un parallelo con la realtà odierna e mettendoci in guardia su come fake news e campagne d'odio possano ostacolare la giustizia e nascondere la verità: per venirne a capo serve l'integrità di uomini come Picquart, che seguono l'etica e la coscienza, capaci di andare anche contro i propri pregiudizi o quelli dell'ambiente in cui vive. Ottimo il contributo del cast: oltre a Dujardin e Garrel, entrambi incredibilmente in parte (grazie anche a un ottimo make up), ci sono Emmanuelle Seigner nei panni dell'amante di Picquart, e ancora Grégory Gadebois (il maggiore Henry), Mathieu Amalric (il grafologo Bertillon), Melvil Poupaud (l'avvocato Labori), Denis Podalydès (l'avvocato Demange), François Damiens (Émile Zola). La versione italiana, anziché il più iconico "J'accuse", dà al film il titolo del romanzo di Harris, che mi sembra un po' generico e anche fuorviante: Picquart e Dreyfus sono entrambi ufficiali, e nessuno dei due è una spia! Gran premio della giuria alla Mostra di Venezia. Fra i produttori c'è Luca Barbareschi, che recita anche un piccolo ruolo. Naturalmente l'affare Dreyfus era già stato portato sullo schermo innumerevoli volte: la prima addirittura "in tempo reale", nel 1899, da Georges Méliès (che ritagliò per sé stesso la parte dell'avvocato Labori). Altra versione celebre è quella di William Dieterle ("Emilio Zola", 1937), che vinse l'Oscar come miglior film dell'anno.

23 novembre 2019

Spirito allegro (David Lean, 1945)

Spirito allegro (Blithe spirit)
di David Lean – GB 1945
con Rex Harrison, Margaret Rutherford
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Per documentarsi sul tema del soprannaturale in preparazione di un libro che intende scrivere, il romanziere Charles Condomine (Rex Harrison) invita a cena nella sua casa di campagna una sedicente medium, l'anziana ed eccentrica Madame Arcati (Margaret Rutherford), e le chiede di condurre una seduta spiritica. Come risultato viene evocato il fantasma della prima moglie di Charles, l'estroversa e dispettosa Elvira (Kay Hammond), che solo lui riesce a vedere e a sentire. Il fantasma di Elvira si insedia in pianta stabile nella dimora, mettendo a repentaglio il matrimonio di Charles con la seconda moglie Ruth (Constance Cummings), costretta a un'insolita e scomoda convivenza a tre... Dall'omonima commedia teatrale di Noël Coward (che non apprezzò l'aggiunta di una scena finale), una ghost story comica e pungente, che mescola i temi fantastici tipici di Henry James con uno stile brillante e satirico alla Oscar Wilde: straborda infatti di sofisticato black humour inglese, dialoghi rapidissimi e scoppiettanti, indovinati effetti visivi (ottenuti soprattutto attraverso le tinte cromatiche del Technicolor) e interpretazioni di qualità: sia la Rutherford, irresistibile nei panni della scalcinata medium di campagna, che la Hammond avevano recitato i rispettivi ruoli anche a teatro, quando la commedia era andata in scena per la prima volta nel 1942. Il titolo proviene da un verso del poema "Ad un'allodola" di Percy Bysshe Shelley.

21 novembre 2019

Sesso, bugie e videotape (S. Soderbergh, 1989)

Sesso, bugie e videotape (Sex, Lies, and Videotape)
di Steven Soderbergh – USA 1989
con Andie MacDowell, James Spader
**1/2

Rivisto in TV.

Il matrimonio fra la casalinga Ann (Andie MacDowell), repressa e sessuofoba, e l'avvocato John (Peter Gallagher), rampante e donnaiolo, è in crisi, tanto che l'uomo si consola con la sorella di lei, l'estroversa barista Cynthia (Laura San Giacomo). L'inatteso arrivo in città di un vecchio amico di John, il misterioso Graham (James Spader), che a sua volta ha qualche problema con il sesso e ha l'abitudine di intervistare (registrando il tutto su videocassette) giovani donne a proposito delle loro prime esperienze e abitudini sessuali, farà precipitare gli eventi. Il primo lungometraggio di Soderbergh, un thriller intellettuale e psicologico un po' pretenzioso ma baciato dalla fortuna critica (vinse a sorpresa la Palma d'Oro a Cannes, rendendo il regista all'epoca il più giovane mai premiato, e fu nominato all'Oscar per la miglior sceneggiatura), è un oggetto insolito e quantomeno bizzarro, a cominciare dalla struttura, quasi teatrale. I personaggi sono quattro, ma sullo schermo si confrontano quasi sempre soltanto a coppie (sono rarissime le scene in cui ne compaiono più di due). L'iconico titolo (a proposito: chissà perché alla sua uscita non si volle tradurre "videotape" con "videocassette", termine già ampiamente in uso) contiene già al suo interno tutti i temi trattati dalla pellicola: l'approccio con il sesso (così differente per ciascuno dei personaggi coinvolti), le bugie (il tema della verità e della menzogna è ricorrente: segreti, omissioni, tradimenti – a livello di coniugi, di sorelle, di amici – e confessioni) e appunto le videocassette con le interviste in cui le donne si aprono completamente, confidando i propri segreti più intimi a uno sconosciuto (è proprio in cerca di questa "verità" che Graham ammette di andare, in contrasto alle menzogne legate al lavoro di John: gli avvocati sono definiti come "bugiardi patologici"). In fondo anche non ammettere di avere un problema equivale a mentire: quando lo riconosceranno, sia Ann che Graham sapranno aprire un nuovo capitolo della propria vita, più sincero e felice. Ottimi gli interpreti: Spader, in particolare, si specializzerà in personaggi ambigui e coinvolti in storie torbide – ma decisamente originali – a sfondo sessuale (vedi anche "Crash" e "Secretary"). Da sottolineare la colonna sonora di Cliff Martinez, fredda ed astratta come le barriere fra i personaggi.

20 novembre 2019

Musica nel buio (Ingmar Bergman, 1948)

Musica nel buio (Musik i mörker)
di Ingmar Bergman – Svezia 1948
con Birger Malmsten, Mai Zetterling
**

Visto in divx.

Bengt Vyldeke (Malmsten) è un giovane pianista di famiglia benestante che, diventato cieco per un incidente al poligono mentre era sotto le armi, si ritrova costretto a rinunciare alla carriera di concertista che aveva sognato e si riduce a suonare per ristoranti di basso ordine. Ingrid (Mai Zetterling) è una ragazza orfana che lavora come domestica nella casa di campagna degli zii di Bengt, si prende cura di lui e se ne innamora, mentre al contempo aspira ad istruirsi e a conquistarsi un posto nella società. Da un racconto di Dagmar Edqvist, una pellicola dai toni romantici e melodrammatici ma anche attenta alla psicologia dei personaggi e al contesto sociale, visto come segue le due parabole contrapposte dei protagonisti, con le continue umiliazioni cui è sottoposto Bengt e la parallela crescita (anche come consapevolezza) dell'ingenua e campagnola Ingrid. Interessante la sequenza di apertura, con un montaggio di immagini surreali che mostrano le percezioni di Bengt nel momento in cui diventa cieco. Ma il romanticismo e lo sviluppo della storia sono alquanto convenzionali, e la buona regia e le interpretazioni non possono far molto per sollevare più di tanto il soggetto. In ogni caso, fu il primo successo di pubblico – per quanto modesto – per il giovane Bergman: gli valse la fiducia della casa di produzione Svensk Filmindustri che gli commissionò ulteriori sceneggiature e regie.

18 novembre 2019

Z - L'orgia del potere (Costa-Gavras, 1969)

Z - L'orgia del potere (Z)
di Costa-Gavras – Algeria/Francia 1969
con Jean-Louis Trintignant, Yves Montand
***

Visto in divx, con Marisa.

In una nazione europea non precisata (ma si tratta della Grecia degli anni sessanta, appena prima dell'insediamento della dittatura dei colonnelli), un deputato dell'opposizione pacifista e di sinistra (Yves Montand) giunge in città per tenere un comizio. Nonostante avesse ricevuto minacce di morte, la polizia non fa nulla per impedire che venga colpito alla testa, in piena strada, da alcuni manifestanti di estrema destra. A indagare su quello che vuol essere fatto passare per un "incidente" è un giovane ma solerte magistrato (Jean-Louis Trintignant), che grazie anche alle tracce fornitegli da un giornalista (Jacques Perrin), e nonostante i tentativi di depistaggio e le intimidazioni, scopre una rete di complicità che coinvolge persino il generale a capo della polizia (Pierre Dux), organizzatore dell'attentato perché convinto che il paese sia minacciato da una "infezione ideologica" che deve essere combattuta preventivamente. La didascalia introduttiva annuncia: "Ogni somiglianza con avvenimenti reali, persone morte o vive non è casuale. È volontaria". E infatti la pellicola, pur non facendo nomi espliciti e mantenendo la sua ambientazione in un'ambiguità che la rende universale, racconta con dovizia di particolari gli eventi che circondarono l'assassinio del deputato Grigoris Lambrakis, avvenuto nel 1963, poco prima del colpo di stato. Quando fu realizzata, tanto lo scrittore Vasilis Vasilikos (dal cui romanzo è tratta) che il regista Costa-Gavras vivevano in esilio all'estero, mentre il compositore Mikis Theodorakis, autore della colonna sonora, era addirittura agli arresti domiciliari (e le sue musiche erano vietate in patria). Atto d'accusa contro gli abusi, le manipolazioni e l'arroganza di un potere violento e prevaricatore, ma costruito come un giallo o un thriller, non privo di suspense e nemmeno di un certo umorismo satirico, e dunque assai accattivante anche per uno spettatore poco interessato ai retroscena politici, il film – frutto di una collaborazione internazionale: fu prodotto dalla Francia ma venne girato in Algeria – vinse l'Oscar come miglior film straniero e il Premio della giuria al Festival di Cannes, e divenne uno dei lungometraggi militanti più emblematici del periodo, oltre che il lavoro più celebre di Costa-Gavras. Il cast corale comprende anche Irene Papas (la moglie del deputato, un ruolo perlopiù muto), Renato Salvatori (il guidatore del furgoncino), Charles Denner, Bernard Fresson e Jean Dasté. La voce narrante nel finale spiega il significato del titolo: la lettera "Z" si pronuncia come "È vivo" in greco antico (Wikipedia riporta che "a seguito dell'omicidio Lambrakis, la lettera veniva scritta per protesta sui muri per ricordare il deputato ucciso"). La versione italiana, forse intimorita da un titolo costituito da una sola lettera, vi aggiunge un sottotitolo (com'era già avvenuto per "M" di Fritz Lang). Christos Sartzetakis, il magistrato al quale si ispira il personaggio di Trintignant, diventerà Presidente della Grecia dopo la caduta della dittatura.

17 novembre 2019

I poliziotti di riserva (Adam McKay, 2010)

I poliziotti di riserva (The Other Guys)
di Adam McKay – USA 2010
con Will Ferrell, Mark Wahlberg
*1/2

Visto in TV.

Quando gli audaci e arroganti detective Highsmith e Danson (Samuel L. Jackson e Dwayne Johnson), eroi del distretto di polizia e idolatrati dall'intera città per le loro roboanti imprese, scompaiono durante una missione, gli impacciati Gamble (Will Ferrell) e Hoitz (Mark Wahlberg), zimbello di tutti (il primo un revisore contabile che non si è mai mosso dalla sua scrivania, il secondo una giovane testa calda ambiziosa e combinaguai), sognano di prenderne il posto e si lanciano in un'indagine che si rivelerà più importante del previsto. Semi-parodia del poliziesco d'azione e del buddy movie, colmo di battute tongue-in-cheek e di gag infantili, demenziali o scollacciate (nello stile del "Saturday Night Live", da cui provengono McKay e Ferrell) sparse su un intreccio francamente poco originale e poco interessante. Molti i luoghi comuni del genere cinematografico che vengono rivisitati, ma non sempre il risultato è soddisfacente, anche per colpa di protagonisti ondivaghi e non troppo a fuoco, oltre che di una sceneggiatura spesso fuori registro. Nel cast di contorno spiccano Michael Keaton nei panni del capitano del distretto (che cita di continuo, ma inconsapevolmente, grandi classici della letteratura) ed Eva Mendes in quelli della moglie di Ferrell (che ne sminuisce la carica sexy, davanti a un esterrefatto Wahlberg). Steve Coogan è Ershon, lo speculatore finanziario al centro dell'indagine della coppia. I protagonisti si muovono su una Prius rossa, fonte di ilarità fra i loro colleghi perché negli Stati Uniti è considerata un'auto da donne. Nella versione originale, la voce narrante è quella del rapper Ice-T.

16 novembre 2019

La vita è un sogno (Richard Linklater, 1993)

La vita è un sogno (Dazed and confused)
di Richard Linklater – USA 1993
con Wiley Wiggins, Christin Hinojosa
**1/2

Rivisto in DVD, con Marisa.

Il 28 maggio 1976, ad Austin in Texas, gli studenti del liceo locale festeggiano l'ultimo giorno di scuola. Per i "senior" (gli alunni dell'ultimo anno) è l'occasione per sottoporre le matricole a crudeli e goliardici riti d'iniziazione, tollerati dalla comunità, mentre per i più giovani siamo di fronte a un momento di passaggio e di crescita. E tutti si ritroveranno di notte a una scatenata festa all'aperto, all'insegna di amori, sesso, droga e rock'n'roll. Ambientato nell'arco di 24 ore, il primo film di Linklater prodotto da una major è una specie di "American graffiti" aggiornato agli anni settanta: un nostalgico ritratto di una generazione "fumata", che si ribella alle regole degli adulti o semplicemente non si identifica nel loro modo di pensare e nelle loro "priorità". Senza nessuna fretta di crescere, i giovani seguono le proprie dinamiche e il proprio istinto, annoiati dal presente e indifferenti verso il futuro. Ed ecco che la ricerca del divertimento nasconde un vagare in cerca di punti di riferimento difficili da trovare. Di impostazione corale, la pellicola segue in parallelo numerosi personaggi fra i quali spiccano le giovani matricole Mitch (Wiley Wiggins) e Sabrina (Christin Hinojosa), che dopo le goliardie di rito saranno prese sotto l'ala protettiva di studenti più grandi; Randall "Pink" Floyd (Jason London), stella del football che sta meditando di lasciare la squadra della scuola; il trio di "intellettuali" formato da Mike (Adam Goldberg), Tony (Anthony Rapp) e Cynthia (Marissa Ribisi), in cerca d'integrazione. Nel vasto cast anche alcuni nomi che diverranno poi noti, come Ben Affleck (il bullo pluri-ripetente Fred O'Bannion), Matthew McConaughey (il ventenne David Wooderson, che bazzica ancora con i liceali), Parker Posey e Milla Jovovich (in un ruolo assai ridotto). La ricca colonna sonora comprende brani (fra gli altri) di Aerosmith, Deep Purple, Kiss, Black Sabbath, ZZ Top, Alice Cooper, Bob Dylan e Peter Frampton. Senza senso il titolo italiano. Passato inosservato nel nostro paese, il film ha colpito invece parecchio l'immaginario americano, anche grazie all'ottima ricostruzione storico-sociale. Linklater ne dirigerà una sorta di "sequel spirituale" nel 2016 con "Tutti vogliono qualcosa".

15 novembre 2019

Les victimes de l'alcoolisme (F. Zecca, 1902)

Le vittime dell'alcolismo
(Les victimes de l'alcoolisme)
di Ferdinand Zecca – Francia 1902
**1/2

Visto su YouTube.

Diviso in cinque scene, il film mostra la discesa di un uomo negli abissi dell'alcol. Nel primo quadro vediamo la famiglia felice, in una bella casa, con la moglie, la madre e i figli che attendono il protagonista che torna dal lavoro per pranzare. Nel secondo, ambientato per la strada, l'uomo viene convinto da due amici ad andare con loro dal mercante di vini (“Il primo passo”, recita la didascalia). Nel terzo, all'interno del bar, il protagonista è ormai vittima dell'alcol e trascorre le giornate a bere e a giocare a carte con altri perdigiorno: la moglie e i figli cercano inutilmente di convincerlo a tornare a casa. Nel quarto quadro, la situazione è ormai compromessa: la famiglia vive in un sottotetto spogliato di ogni cosa. Infine, il quinto quadro ci mostra l'uomo rinchiuso in una clinica mentale, in preda al delirium tremens. Il titolo al plurale è indicativo: la vittima non è soltanto l'alcolista, ma tutta la sua famiglia, che viene trascinata da lui nella miseria. Reminiscente del film più celebre di Zecca fino ad allora, “Histoire d'un crime”, per il realismo e l'attenzione al contesto sociale, la pellicola è notevole per la composizione e la messa in scena dei diversi quadri, dove ogni elemento visivo (si pensi agli abiti del protagonista) è finalizzato alla rappresentazione del contesto drammatico, senza divagazioni o distrazioni superflue. E nel suo piccolo, anche la caratterizzazione dei personaggi e delle situazioni è complessa e assai focalizzata, fonte di empatia e di partecipazione da parte dello spettatore. Il realismo della prima scena lascia poi il posto a un melodrammaticismo esasperato, necessario affinché il messaggio (la condanna degli effetti dell'alcolismo) giungesse a segno. La fonte d'ispirazione principale era probabilmente il romanzo “L'assommoir” (“L'ammazzatoio”) di Émile Zola, ma la struttura in tableaux separati che illustrano progressivamente la parabola di un personaggio fa anche pensare alle serie di stampe o di dipinti a sfondo morale come quelle dell'inglese William Hogarth (“A Rake's Progress”).

14 novembre 2019

Par le trou de la serrure (F. Zecca, 1901)

Attraverso il buco della serratura
(Par le trou de la serrure)
di Ferdinand Zecca – Francia 1901
**

Visto su YouTube.

Nei suoi primi anni come regista alla Pathé (prima di dedicarsi progressivamente alla supervisione di altri registi e infine alla direzione artistica e amministrazione della compagnia), Zecca girò numerose pellicole appartenenti a differenti “generi”: le actualités reconstruites (poi film storici o in costume, come “La vie et la passion de Jésus-Christ”), i corti a sfondo sociale (come “Histoire d'un crime” o “Les victimes de l'alcoolisme”) e i film di “trucchi” o a sfondo comico, come "À la conquête de l'air" o questo "Par le trou de la serrure". Pur sperimentando personalmente qualche innovazione, Zecca si rifaceva in gran parte ai lavori di altri cineasti contemporanei, in particolare Méliès (che con la sua Star Film era il principale concorrente della Pathé) e i registi inglesi della Scuola di Brighton. Questo “Par le trou de la serrure”, in realtà, è debitore soprattutto a una pellicola americana del 1897 per il Mutescope di Edison, “What the butler saw” (o “Peeping Tom”), oggi andata purtroppo perduta ma allora talmente popolare da aver dato origine a un genere quasi a sé stante, quello “voyeuristico” (si tratta, in un certo senso, dell'antesignano dei film erotici!). Queste pellicole mostravano inevitabilmente un maggiordomo o un altro individuo curioso che spiava donne e ragazze, intente alla toilette personale, dal buco della serratura. Il titolo “What the butler saw” (entrato nella cultura popolare britannica e in seguito attribuito a diversi film e anche a una commedia teatrale) deriva, pare, da un processo per divorzio del 1886 che fece scalpore sui giornali inglesi (quello fra Lord Colin Campbell e Gertrude Elizabeth Blood), dove proprio la testimonianza del domestico che aveva spiato l'incontro della donna con l'amante si rivelò decisiva.

Zecca non si limita però a “imitare” il film americano, ma vi aggiunge anche del suo: innanzitutto quadruplica la situazione, mostrandoci il cameriere di un albergo, mentre è intento a pulire sui piani, osservare attraverso gli spioncini gli occupanti di ben quattro stanze. Nella prima c'è una ragazza intenta a pettinarsi i lunghi capelli, colta nell'intimità. Nella seconda, una donna che, man mano che si toglie il trucco, il finto seno e la parrucca, si rivela essere un uomo! Nella terza, una coppia di amanti intenta a mangiare, con la donna seduta sulle ginocchia dell'uomo. E nella quarta... il cameriere non fa in tempo a spiare che un gentiluomo esce, furibondo, per prenderlo a pedate e bastonate! La situazione, come si vede, comincia in maniera ammiccante ma diventa progressivamente più farsesca e disastrosa, con i tempi perfetti per una (breve) commedia. Notevole il montaggio e le variazioni dell'inquadratura, che alternano la figura intera del cameriere nel corridoio davanti alle quattro porte (un'evidente quinta teatrale) ai piani medi che mostrano gli ospiti delle varie stanze, attraverso un mascherino a forma di serratura: una trovata per la quale Zecca si era ispirato con ogni probabilità al film britannico “As seen through a telescope” di George Albert Smith dell'anno precedente. Alcune fonti confondono il lavoro di Zecca con la pellicola originale per il Mutescope di Edison, attribuendogli la data del 1897: eppure è evidente, per via del montaggio, dei cambi di inquadratura e della generale “sofisticazione” della struttura, che sarebbe stato impensabile girarlo anche soltanto quattro anni prima.

13 novembre 2019

Panama papers (Steven Soderbergh, 2019)

Panama papers (The laundromat)
di Steven Soderbergh – USA 2019
con Meryl Streep, Gary Oldman, Antonio Banderas
*1/2

Visto in TV (Netflix).

Dopo la morte del marito in un incidente, una vedova (Meryl Streep) scopre che l'assicurazione che avrebbe dovuto risarcirla non ha copertura: la compagnia è infatti una società fittizia, parte di una serie di scatole cinesi riconducibile a società offshore gestite da una coppia di loschi avvocati (Oldman e Banderas) a Panama. La sua storia si intreccia con quelle di altre "vittime" del raggiro, fino a quando tutto non verrà alla luce per via di una fuga di notizie nel 2016. La vera storia del caso "Panama papers", che ha coinvolto lo studio legale Mossack Fonseca e le centinaia di migliaia di società offshore da esso gestite. A tratti spigliato (come quando Oldman e Banderas ammiccano e parlano direttamente allo spettatore), in altri momenti melodrammatico (le insopportabili vicende della Streep), comunque sempre confuso, retorico e soprattutto noioso. Ultimamente sono uscite diverse pellicole che hanno cercato di raccontare sullo schermo, con alterne fortune, celebri casi recenti legati all'economia (fra le migliori, "La grande scommessa" di Adam McKay sui mutui subprime e "Adults in the room" di Costa-Gavras sulla crisi economica greca), ma questo è uno dei meno interessanti e più qualunquisti, che anziché spiegare il fenomeno si concentra sulle sue ricadute. Non aiuta il pessimo doppiaggio televisivo. Nel finale, la Streep sveste i panni del suo personaggio per tornare sé stessa e denunciare le tante scappatoie legali che hanno favorito questo tipo di situazione e il ruolo degli Stati Uniti nell'aiutare le grandi aziende a discapito dei cittadini comuni. Piccole parti per David Schwimmer, Sharon Stone, Jeffrey Wright e James Cromwell.

11 novembre 2019

Suspiria (Dario Argento, 1977)

Suspiria
di Dario Argento – Italia 1977
con Jessica Harper, Stefania Casini
***

Rivisto in divx.

La giovane ballerina americana Susy Benner (Jessica Harper) giunge a Friburgo, in Germania, per frequentare una prestigiosa accademia privata di danza classica. Attorno alla scuola, però, si verificano inquietanti delitti, come l'omicidio di una studentessa la notte stessa dell'arrivo di Susy. E la ragazza, la cui salute si fa man mano più cagionevole, scopre che alla fine del diciannovesimo secolo l'edificio aveva ospitato quella che si riteneva essere una congrega di streghe, il culto della cui capostipite (Elena Markos, detta "la regina nera") potrebbe essere ancora vivo... Abbandonando il giallo/thriller per darsi all'horror soprannaturale, Dario Argento firma il suo film stilisticamente più maturo e consapevole, nonché quello che internazionalmente è considerato il suo capolavoro (in patria la palma va invece ancora a "Profondo rosso"). Scritto insieme alla compagna Daria Nicolodi, il lungometraggio ha fra i suoi punti di forza la suggestiva ambientazione gotica e mitteleuropea (oltre a Friburgo e alla Foresta Nera, diverse scene sono state girate a Monaco di Baviera), la fotografia coloratissima ed espressionista di Luciano Tovoli (con toni di rosso acceso che donano alle immagini una patina fantastica e surreale: tutto in particolare richiama il sangue, dalle luci alle scenografie, a partire dalle pareti di una scuola fiabesca e barocca), le inquietanti musiche dei Goblin, i volti e le interpretazioni dei vari attori, fra giovani promesse e vecchi mostri sacri (nel cast ci sono, fra gli altri, Stefania Casini, Miguel Bosé, Alida Valli, Joan Bennett, Udo Kier e Renato Scarpa). I meccanismi di costruzione della tensione e della paranoia sono forse un po' scoperti e grossolani (rispetto, per esempio, a capolavori come "Rosemary's baby" e similari), ma anche efficaci nella loro ingenuità stilizzata. E tutti gli elementi della storia concorrono a rendere angosciante l'esperienza dello spettatore: l'ambiente rigido e severo della scuola di danza, la protagonista estraniata e fuori dal proprio mondo, il tema soprannaturale della stregoneria, per non parlare dei personaggi disturbanti (come il pianista cieco, il misterioso dottore, l'inserviente deforme, le domestiche), delle morti cruente, degli eventi misteriosi (cosa accade di notte, dopo che le alunne vanno a dormire e le insegnanti lasciano – presumibilmente – l'edificio?). Curiosità: è il primo di sei film consecutivi di Argento con il titolo composto da una sola parola. Con i successivi "Inferno" (1980) e "La terza madre" (2007) forma una sorta di trilogia, ispirata al romanzo "Suspiria De Profundis" di Thomas de Quincey. Un remake nel 2018, firmato da Luca Guadagnino.

10 novembre 2019

Naissance des pieuvres (C. Sciamma, 2007)

Naissance des pieuvres
di Céline Sciamma – Francia 2007
con Pauline Acquart, Adèle Haenel
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

La minuta e taciturna quindicenne Marie (Pauline Acquart) si invaghisce della bella Floriane (Adèle Haenel), spigliata capitana della squadra di nuoto sincronizzato, e fa di tutto per diventarne amica e confidente, accettando persino di favorirne gli incontri con François, il ragazzo di cui anche l'amica Anne (Louise Blachère) è innamorata. Inedito in Italia (a quanto mi risulta), il film è l'opera d'esordio di Céline Sciamma, regista che con i successivi "Tomboy" e "Ritratto della giovane in fiamme" continuerà a raccontare storie di giovani donne alla scoperta dei propri sentimenti e della propria sessualità. Già in questa opera prima dimostra di saperlo fare con estrema delicatezza, ritraendo tutto il disagio e l'insicurezza di chi si sente fuori posto nel mondo ("Non sono normale", dice Marie ad Anne) e cerca disperatamente di trovare qualcosa o qualcuno cui aggrapparsi. Di fronte alla goffaggine e all'infantilismo di Anne, Marie pensa bene di "scaricarla" in favore di Floriane, che le appare invece più sicura di sé, matura e disinibita (ha infatti la fama di ragazza che ha già avuto molte esperienze): ma si renderà conto che non è così. Gli sguardi, i silenzi, le dinamiche dell'amicizia e degli amori adolescenziali (con annesse delusioni, sofferenze e tradimenti che conducono a una presa di consapevolezza anche amara) rendono il film molto gradevole e realistico, nonostante qualche leggera forzatura. Buona anche la regia, che gioca molto col "non detto", soprattutto nelle scene finali. Adèle Haenel era la compagna della regista all'epoca.

9 novembre 2019

Il brigante di Tacca del Lupo (P. Germi, 1952)

Il brigante di Tacca del Lupo
di Pietro Germi – Italia 1952
con Amedeo Nazzari, Saro Urzì
**1/2

Visto in TV.

Nel 1863, subito dopo l'Unità d'Italia, il meridione è funestato dal fenomeno del brigantaggio. Bande armate composte anche da ex soldati e nostalgici del regno borbonico, sostenute con simpatia dalle popolazioni locali, ostili al nuovo governo piemontese, devastano i paesi e i territori della Calabria e della Lucania. Per riportare l'ordine e catturare il temibile brigante Raffa Raffa, che ha saccheggiato Melfi e portato via con sé degli ostaggi, il capitano Giordani (Amedeo Nazzari) guida un manipolo di fanti e di bersaglieri (per lo più giovani contadini coscritti delle regioni del Nord, non molto diversi dai loro nemici se non per il dialetto parlato) per le terre collinari circostanti, inospitali e selvagge. La ricerca del covo del bandito si rivelerà più ardua del previsto, e la missione avrà successo soltanto grazie alla collaborazione di una ragazza (Cosetta Greco) che è stata "oltraggiata" dal brigante, e dal marito (Vincenzo Musolino) che intende vendicare il suo onore, per non parlare dei magheggi del commissario Siceli (Saro Urzì), meridionale e dunque ben più aduso di Giordani ai sotterrifugi e alle manovre astute e ciniche ("In questo paese le questioni d'onore sono una cosa seria"). Quasi un sequel di "1860", il film di Blasetti che raccontava le imprese di Garibaldi. Ma forse per la prima volta i temi risorgimentali sono letti in una chiave critica, che mette in luce le ragioni e i punti di vista di ambo le parti (sottolineando per esempio la povertà e l'orgoglio delle popolazioni meridionali, che si vedono "colonizzate" dai nuovi arrivati, i quali spesso con arroganza non provano nemmeno a comprendere la differente cultura con cui hanno a che fare) e che traspare nonostante la forma decisamente avventurosa e "popolare" della pellicola, debitrice dal punto di vista formale ai western di John Ford. Alcune scene, per via delle uniformi militari e degli scenari naturali – come il canyon dove ha luogo lo scontro finale – sembrano uscire dritte dritte dai film del maestro americano, che Germi ammirava molto e al quale si era già rifatto nel precedente "In nome della legge", con cui ci sono diverse affinità: per non parlare del protagonista, un comandante duro e dal pugno di ferro, giusto ed audace, che ricorda John Wayne e che deve mostrarsi inflessibile per riuscire in un impresa resa difficile anche per via di una popolazione che non li aiuta, e che anzi parteggia per i briganti, per simpatia o paura ("Ma dovranno imparare ad avere paura anche di noi", dice il comandante). Fausto Tozzi è il tenente Magistrelli. La sceneggiatura nasce dalla riduzione (di Tullio Pinelli, insieme a Germi e Federico Fellini) dell'omonimo romanzo di Riccardo Bacchelli. Musiche di Carlo Rustichelli.

8 novembre 2019

L'ultima donna (Marco Ferreri, 1976)

L'ultima donna (La dernière femme)
di Marco Ferreri – Italia/Francia 1976
con Gérard Depardieu, Ornella Muti
**

Visto in divx.

Costretto a un mese di ferie forzate (o in cassa integrazione?) dalla fabbrica dove lavora, un giovane ingegnere e padre single (Depardieu: il personaggio è chiamato Giovanni nella versione italiana e Gérard in quella francese) si innamora della misteriosa Valeria (Muti), maestra presso il nido d'infanzia dove lascia il figlio Pierino. I due si ritrovano a convivere – insieme al bambino – nell'appartamento di lui, da dove escono di rado e dove occasionalmente Giovanni riceve ancora le visite dell'ex moglie Gabrielle (Zouzou), che lo ha abbandonato per dedicarsi a tempo pieno alla "lotta femminista". Dal suo canto, Valeria ha lasciato il più anziano Michele (Michel Piccoli), ma è spesso tentata di tornare da lui. Anche perché il nuovo rapporto è tormentato da continue tensioni e incomprensioni, amplificate dall'egoismo "prevaricatore" dell'uomo e dall'incertezza evanescente della donna. Grande scandalo (per i nudi integrali, in particolare quelli di Depardieu) ma anche successo al botteghino per quello che in superficie è un film noiosetto sulle difficoltà di dar vita a una relazione di coppia in un mondo che cambia e dove "il modello di famiglia non funziona più". Per certi versi (vedi l'insistenza sul sesso) sembra voler fare il verso a "Ultimo tango a Parigi", anche se in maniera più nichilista e meno liberatoria, soffrendo inoltre per via di un personaggio femminile poco caratterizzato, che non ha ricordi e non sa che cosa vuole (non aiuta il fatto che la Muti sia bella e basta). La scena finale dell'evirazione vorrebbe sottolineare l'impotenza maschile di fronte alle rivendicazioni di un nuovo ruolo per la donna. In seconda lettura, però (come suggerisce l'amico Giuliano nel suo blog), siamo di fronte a una specie di allegoria, che pesca a piene mani dai simboli e dai miti, come gli amori di Marte e Venere (da notare come Giovanni costruisca giocattoli da guerra per il figlio), con il bambino pacioccoso che ricorda gli Eros e gli amorini rubicondi di tanti dipinti barocchi, trascendendo così l'attualità "militante" e la dicotomia fra maschilismo e femminismo (che diventa semmai quella fra patriarcato e matriarcato). E in questo caso il ruolo della donna, "amore" assoluto, ideale e irraggiungibile (vedi anche le citazioni a Marilyn Monroe), acquista un diverso significato: è "l'ultima donna", appunto, dopo la quale non possono essercene altre. Il film è stato girato a Créteil, periferia industriale di Parigi, ma la località non viene specificata nella versione italiana, lasciando intendere che possa essere ambientata nel nostro paese. Piccole parti per Renato Salvatori, Giuliana Calandra e Nathalie Baye. Curiosità: i doppiatori italiani dei due protagonisti (Flavio Bucci e Micaela Pignatelli) sono stati marito e moglie.

6 novembre 2019

Full metal jacket (Stanley Kubrick, 1987)

Full Metal Jacket (id.)
di Stanley Kubrick – USA/GB 1987
con Matthew Modine, Lee Ermey
***1/2

Visto in divx.

Il duro addestramento nel corpo dei marines di un giovane coscritto (Matthew Modine), insieme ad altre reclute, e poi le sue esperienze sul campo di battaglia durante la Guerra del Vietnam, dapprima come giornalista militare nelle retrovie e quindi come combattente in prima linea. L'ennesimo capolavoro di Kubrick nel genere bellico (il più frequentato dal grande regista, che già vi aveva firmato "Paura e desiderio", "Orizzonti di gloria" e, se vogliamo, "Il dottor Stranamore" e "Barry Lindon") è un raggelante ritratto della follia che circonda l'apparato militare, ispirato a un romanzo autobiografico di Gustav Hasford ("The Short-Timers", in italiano "Nato per uccidere"), che ha collaborato alla sceneggiatura. Diviso essenzialmente in due parti, il film è entrato nell'immaginario collettivo soprattutto per la prima sezione (che dura circa quarantacinque minuti), quasi un mediometraggio a sé stante: quella dell'addestramento dei soldati nel campo di Parris Island, in Carolina del Sud, agli ordini di un severissimo istruttore, il sergente maggiore Hartman (Ronald Lee Ermey), che pur di farne dei "duri" ("Non voglio dei robot, ma dei killer") li tartassa con esercizi e punizioni e li umilia verbalmente in continuazione, a partire dai degradanti nomignoli che affibbia loro per identificarli durante il loro soggiorno nel campo (il protagonista, per il suo spirito sarcastico, rimarrà il "soldato Joker" per tutto il film). A essere preso particolarmente di mira, come bersaglio preferito, è un giovane contadino sempliciotto, bonaccione e (purtroppo per lui) sovrappeso, subito rinominato "Palla di lardo" (Vincent D'Onofrio), il più fragile e il meno dotato del gruppo. Hartman riuscirà sì a piegarlo, a disumanizzarlo e a trasformarlo in una macchina da guerra, ma a prezzo della sua sanità mentale.

Se la sezione dell'addestramento è entrata nell'immaginario collettivo (sin dalla sequenza iniziale, quella della rasatura dei capelli a zero con la macchinetta: un rimando al musical "Hair"?) e può essere giustamente considerata come il pezzo forte del film, con il suo esasperato militarismo (talmente agghiacciante da sconfinare spesso nella satira: si pensi al rapporto che i soldati devono instaurare con il proprio fucile, dedicandogli preghiere o chiamandolo con un nome da ragazza), anche quella successiva, pur meno dirompente e originale (ma comunque esteticamente notevole), non è da meno. La guerra è spogliata di qualsiasi eroismo e rivestita invece di disillusione, antiretorica (che emerge nelle "interviste" fatte ai soldati al fronte), incoscienza e infantilismo (basti pensare al finale, con i marines che vanno in battaglia cantando la "Marcia di Topolino": poco prima hanno ucciso a sangue freddo una giovane cecchina vietnamita che era, lei sì, poco più di una bambina). D'altronde gli stessi americani, come abbiamo visto nella prima parte, non erano altro che "bravi ragazzi" costretti spesso controvoglia a trasformarsi in macchine per uccidere, "uomini indistruttibili e senza paura". A farci da guida in questo inferno è lo sguardo sarcastico e disincantato di Joker (in un certo senso il personaggio più equilibrato di tutti), le sue citazioni di John Wayne, il suo humour nero ("Volevo tanto vedere l'esotico Vietnam, il gioiello dell'Asia orientale. Volevo incontrare gente interessante, stimolante, con una civiltà antichissima... e farli fuori tutti"), le sue ambiguità e contraddizioni, come la scelta di sfoggiare un distintivo con il segno della pace e contemporaneamente scrivere "Born to kill" sul proprio elmetto: un riferimento alla dualità dell'essere umano (una "teoria junghiana", spiega a un esterrefatto superiore).

La regia di Kubrick è tagliente ed efficace, con il consueto ampio uso di piani sequenza e carrelli. Le scene di battaglia in Vietnam furono ricostruite e girate in Gran Bretagna: la lunga sequenza dell'assalto del cecchino fra i palazzi della città semidistrutta e in fiamme, in particolare, presenta uno scenario urbano apocalittico che ispirerà, nella sua estetica, tanti videogiochi. La colonna sonora comprende diverse canzoni del periodo in cui si svolge la storia (gli anni sessanta), da "Hello Vietnam" di Johnnie Wright (sui titoli di testa) a "These Boots Are Made for Walkin'" di Nancy Sinatra, da "Surfin' Bird" dei Trashmen a "Paint It Black" dei Rolling Stones. Modine (qui con caratteristici occhiali con la montatura in metallo) aveva già interpretato un soldato in caserma quattro anni prima, nel bel film "Streamers" di Robert Altman. Lee Ermey era stato un vero istruttore di marines durante la Guerra del Vietnam: la sua interpretazione così sopra le righe, urlata e piena di volgarità (gran parte della quale fu scritta o improvvisata sul set: una rarità per Kubrick, che si fidò dell'attore in nome dell'autenticità), ha conquistato il pubblico ed è diventata oggetto di numerose parodie (lo stesso Ermey parodiò sé stesso in "Sospesi nel tempo"). Nel cast anche Adam Baldwin (Animal), Arliss Howard (Cowboy) e Kevyn Major Howard (Rafterman). Il titolo del film fa riferimento a un tipo di pallottole blindate (o "incamiciate" con un metallo più duro). Una nomination agli Oscar per la miglior sceneggiatura non originale. Rispetto alla versione uscita originariamente nelle sale, la riedizione della Warner altera, chissà perché, alcune battute del doppiaggio italiano (come la frase sul finale, "Fottuta dedizione al dovere", che diventa un più banale "Adesso sei un duro, Joker") ed elimina la localizzazione della marcia di Topolino sulle scene conclusive (che torna ad essere in inglese). Qui un confronto fra le due versioni.

5 novembre 2019

Leningrad Cowboys meet Moses (Aki Kaurismäki, 1994)

Leningrad Cowboys meet Moses
di Aki Kaurismäki – Finlandia/Germania/Francia 1994
con Matti Pellonpää, Kari Väänänen
**

Visto in divx, in originale.

Sperduti nel deserto messicano alla fine del film precedente, i Leningrad Cowboys ("la peggior banda di rock'n'roll del mondo") ritrovano il loro vecchio manager Vladimir (Pellonpää), che ora si fa chiamare Mosé, sfoggia una lunga barba nera e dichiara di essere stato inviato per ricondurre il suo popolo in patria. Si lasciano così convincere a ripartire per l'Europa, dove, a bordo di un vecchio pulmino rosso, attraverseranno vari paesi (dalla Francia alla Germania, dalla Repubblica Ceca alla Polonia) diretti verso l'ex (ma tuttora esistente) Unione Sovietica. Sulle loro tracce c'è però un agente della CIA (André Wilms), che li insegue perché Vladimir/Mosé ha rubato il naso della Statua della Libertà (!), e che si unisce al gruppo spacciandosi per il profeta Elia... Dopo il brillante "Leningrad Cowboys go America", ecco un sequel divertente ma assai meno significativo, nonostante le bizzarrie non manchino (così come la parodia degli eventi biblici: vedi Mosé che cammina sulle acque). I membri del gruppo (nato dalla fantasia di Kaurismäki, ma che nel frattempo era diventato una vera rock band) – divisi tra i dipartimenti "messicani", con tanto di poncho, sombreri e baffoni, e "sovietici", con uniformi militari e medaglie – interpretano sempre sé stessi, con gli inconfondibili ciuffi a punta, affiancati da un pugno di attori cari al regista (Kari Väänänen è ancora l'accompagnatore muto, che li tira spesso fuori dai guai). Ma tutto sembra meno nostalgico e più fine a sé stesso: non a caso il film, a differenza del prototipo, non ha avuto la stessa fama (non è nemmeno stato distribuito in Italia) e rimane tuttora il meno noto di tutti i lavori di Kaurismäki. Impagabili comunque i dialoghi in un inglese rudimentale e maccheronico, che accentuano il senso di spaesamento, e la consueta ironia minimalista, straniante e surreale. Nello stesso anno Kaurismäki dirigerà il primo film-concerto del gruppo, "Total Balalaika Show".

3 novembre 2019

Cappello a cilindro (Mark Sandrich, 1935)

Cappello a cilindro (Top hat)
di Mark Sandrich – USA 1935
con Fred Astaire, Ginger Rogers
***

Rivisto in divx.

Il ballerino americano Jerry Travers (Fred Astaire), a Londra per uno spettacolo organizzato dall'impresario teatrale Orazio Hardwick (Edward Everett Horton), si innamora della modella Dale Tremont (Ginger Rogers) e le fa la corte. Ma per un equivoco lei lo scambia proprio per Orazio, e dunque lo crede già sposato con la sua amica Madge (Helen Broderick). Dopo una lunga serie di fraintendimenti, la verità verrà a galla nel corso di una romantica trasferta a Venezia. Quarto film girato in coppia da Fred e Ginger, il secondo come protagonisti assoluti, e forse il migliore e il più popolare di tutti: una commedia degli equivoci (basata su uno spunto in fondo esile, e simile al precedente "Cerco il mio amore", da cui ritornano diversi comprimari) che è una summa del brio e della leggerezza che caratterizza tutti i film del duo. Merito non solo dell'eccellente alchimia fra gli attori, protagonisti di diversi numeri di ballo ma anche di schermaglie amorose tipiche della commedia screwball, ma pure della colonna sonora di Irving Berlin, con canzoni come "Cheek to cheek" (su tutte), "No Strings (I'm Fancy Free)", "Isn't This a Lovely Day?" e la titolare "Top Hat, White Tie and Tails". Ginger Rogers canta inoltre "The piccolino", con un gran numero di parole italiane nel testo. Da non sottovalutare poi l'apporto dei comprimari, a partire dal comicissimo Edward Everett Horton, perenne vittima delle circostanze e degli scambi di persona, coadiuvato da Eric Blore nei panni del valletto che parla di sé al plurale e da Erik Rhodes in quelli dello stilista geloso (il cui motto è "Per le donne il bacio, e per gli uomini la spada!"): tutti habitué di questo tipo di film e già visti nelle pellicole precedenti di Fred e Ginger. Alla miscela, infine, vanno aggiunte le fantastiche e fintissime scenografie (si pensi all'albergo italiano e alla Venezia ricostruita in studio, dove tutto è bianco come se ci trovassimo in Paradiso: d'altronde i testi della canzone più famosa del film cominciano proprio con "Heaven, I'm in Heaven...") e le raffinate coreografie dei numeri di ballo (di Hermes Pan), entrambe nominate all'Oscar (insieme al film stesso e alla canzone "Cheek to cheek"). Il famigerato abito di piume indossato dalla Rogers fu disegnato personalmente da lei.

2 novembre 2019

Stasis (Nicole Jones-Dion, 2017)

Un nuovo futuro (Stasis)
di Nicole Jones-Dion – USA 2017
con Anna Harr, Mark Grossman
*

Visto in TV.

Nel 2067, dopo una catastrofe nucleare che ha sterminato gran parte dell'umanità, la Terra è governata da una dittatura militare. Un gruppo di ribelli intende sfruttare i viaggi nel tempo per cambiare la storia: in realtà, a saltare indietro (fino al 2017) sono soltanto le coscienze, che vanno a occupare i corpi (gli "involucri") di altre persone nel momento della loro morte. La teenager ribelle Ava (Harr), vittima di un'overdose durante una festa, rimane però ancorata al mondo sotto forma di residuo (una sorta di fantasma) e assiste cosi, non vista, alle vicissitudini dell'agente Seattle, che ora occupa il suo corpo. L'idea alla base di questo B-movie, pur non originalissima (pesca un po' da tutto, da "Terminator" a "Matrix"), non sarebbe nemmeno male: ma è affossata da una realizzazione pedestre e soprattutto da una recitazione atroce, anche se gli interpreti (poco più che dilettanti) non sono certo aiutati da dialoghi banali e da una sceneggiatura (della stessa regista, all'esordio nel lungometraggio) incapace di sfruttare gli spunti migliori o di riflettere in maniera interessante sui temi introdotti. Un'occasione sprecata. Ridicola, nella versione italiana, la voce che pronuncia la traduzione di tutte le scritte e le didascalie che compaiono sullo schermo in inglese.