31 dicembre 2010

Bonjour tristesse (O. Preminger, 1958)

Bonjour tristesse (id.)
di Otto Preminger – USA 1958
con Jean Seberg, David Niven
**1/2

Visto in DVD.

Dal romanzo giovanile di Françoise Sagan, bestseller-sensazione dell'epoca, Preminger realizza un buon adattamento hollywoodiano che vanta le sue carte migliori nella prova degli interpreti principali e nei magnifici scenari della Riviera francese, ma che forse fatica a coinvolgere appieno lo spettatore nel dramma esistenziale di personaggi tanto egocentrici quanto superficiali. La ricca e viziata diciassettenne parigina Cecile (Jean Seberg, al suo secondo film e nel ruolo che ha fatto innamorare i critici e i registi della Nouvelle Vague) sta trascorrendo un'estate al mare sulla Costa Azzurra, all'insegna del divertimento e della spensieratezza, in compagnia dell'adorato padre Raymond (David Niven), vedovo e dongiovanni, e della più recente fiamma di quest'ultimo, la vacua bionda Elsa (Mylène Demongeot). Ma quando Raymond invita la stilista di moda Anne (Deborah Kerr), una vecchia amica di famiglia, a trascorrere qualche giorno con loro, le cose cambiano: l'uomo si innamora di Anne e le chiede di sposarlo. Preoccupata per i cambiamenti che la donna porterebbe nella loro vita, Cecile complotta per separare i due e impedirne il matrimonio; ma il successo del suo piano condurrà a una tragedia inaspettatata e al rimorso che segnerà il resto delle loro edonistiche esistenze. Strutturato in una narrazione a flashback (le scene nel presente sono in bianco e nero, quelle nel passato a colori: notevole il contrasto fra la grigia Parigi, simbolo di una tristezza ormai consolidata, e l'azzurro mare dei ricordi, quando la tragedia era ancora di là da venire) che mette sempre e comunque il punto di vista di Cecile al centro dell'attenzione, il film racconta la storia di un complesso di Edipo al femminile: la complicità fra padre e figlia finisce con l'escludere dalla loro vita qualsiasi possibilità di crescita e di cambiamento. Da segnalare le brevi comparsate di Juliette Gréco (la cantante nel cabaret) e Walter Chiari (il "sudamericano" Pablo).

29 dicembre 2010

Bad guy (Kim Ki-duk, 2001)

Bad guy (Nabbeun namja)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2001
con Cho Jae-hyun, Seo Won
***1/2

Rivisto in DVD.

Umiliato in pubblico dalla studentessa Sun-hwa, una ragazza pudica e "perbene" che aveva cercato di baciare contro la sua volontà, il taciturno delinquente Han-gi si vendica incastrando la ragazza in una spirale di debiti con la malavita e costringendola a diventare una prostituta. Obbligata a vendere il proprio corpo in una squallida casa del distretto a luci rosse di Seul, dove è sorvegliata a vista da Han-gi e dai suoi due giovani sottoposti, Sun-hwa finirà con lo sviluppare una relazione d'amore e d'odio con il suo aguzzino. E alla fine, nessuno dei due saprà più fare a meno dell'altro. Uno dei film più feroci, crudeli e controversi di Kim Ki-duk, al pari de "L'isola" (e non è un caso se, insieme a quello, è probabilmente anche il suo lavoro migliore), "Bad guy" recupera numerosi temi già affrontati dal regista coreano nei suoi lungometraggi precedenti, per esempio in "Crocodile" o "The birdcage inn": il rapporto sadomasochistico fra uomo e donna, l'amore per l'arte (Sun-hwa è affascinata dai nudi di Egon Schiele), la dolcezza che si nasconde nella violenza, la sopraffazione che dà origine alla dipendenza, e naturalmente – ma questo è un tema universale nel cinema dell'estremo oriente – la difficoltà nel comunicare (nel finale Han-gi rivela la ragione del suo mutismo: la cicatrice sulla gola gli ha lasciato una voce stridula, acutissima, sofferta, che collide comicamente e dolorosamente con il suo aspetto da duro). A questi aggiunge un sordido ma simpatetico ritratto del sottobosco criminale che opera ai margini del mondo della prostituzione: Han-gi e i suoi due complici sono legati da rapporti di solidarietà, di amicizia, di sacrificio ma anche di feroce rivalità. Se Sun-hwa viene esposta in vetrina come una vera e propria "merce", un altro vetro la divide da Han-gi: quest'ultimo, infatti, spia la ragazza mentre fa l'amore con i propri clienti attraverso il finto specchio nella sua stanza, come in una sorta di peep show privato, lasciandosi conquistare sempre più da lei. Scopriremo solo in seguito (attraverso le foto fatte a pezzi e sepolte nella sabbia che Sun-hwa ritrova e incolla sullo specchio della sua stanza: puzzle cui manca il tassello fondamentale, quello con i volti) che la ragazza è una copia esatta della donna che Han-gi aveva precedentemente amato e che forse è morta suicida (in una delle scene più belle del film, quasi onirica, rivediamo proprio questa ragazza materializzarsi a fianco dei protagonisti, come una sorta di fantasma, per offrire un conforto a Sun-hwa e infine immergersi nuovamente nell'oceano, come probabilmente aveva fatto la prima volta). Ferocemente attaccato da una parte della critica, soprattutto femminista, che vi ha visto un'apologia della violenza e dell'umiliazione della donna, in realtà "Bad guy" racconta la storia di un amore estremo perché consente ai personaggi, disperatamente, di ritrovare l'altro guardando dentro di sé. In più è girato e interpretato splendidamente, con una cura per l'immagine (magnifica la fotografia notturna, quasi scorsesiana, così come la scelta dei colori di scenografie e abiti) e per il sonoro (da segnalare una bella canzone in italiano che si sente per ben due volte, la prima proprio nella suddetta scena onirica: "I tuoi fiori" di Etta Scollo) di incisiva bellezza.

28 dicembre 2010

Love letter (Shunji Iwai, 1995)

Love letter
di Shunji Iwai – Giappone 1995
con Miho Nakayama, Miki Sakai
***

Visto in divx, con Hiromi, in originale con sottotitoli.

Due anni dopo la morte del suo promesso sposo durante una scalata in montagna, Hiroko trova nell'annuario scolastico il suo indirizzo ai tempi della scuola media, quando il ragazzo abitava in una cittadina dell'Hokkaido (nell'estremo nord del Giappone), e decide impulsivamente di scrivergli una lettera. Sorprendentemente, riceve una risposta. Presto capirà che ha trascritto l'indirizzo sbagliato, e che nella stessa classe c'era una ragazza con il medesimo nome e cognome, Itsuki Fujii (il nome Itsuki può essere sia maschile che femminile). La corrispondenza fra le due donne (che fra l'altro si assomigliano come due gocce d'acqua, e infatti sono interpretate dalla stessa attrice) si protrae a lungo, con Itsuki che recupera – a beneficio di Hiroko – tutti i ricordi del periodo scolastico trascorso insieme al suo omonimo. I piccoli dettagli che lentamente emergono faranno comprendere a entrambe che il ragazzo era innamorato proprio della compagna e che non aveva mai avuto il coraggio di dirglielo. Il primo lungometraggio di Iwai è un film delicato e toccante, girato quasi esclusivamente nella cittadina di Otaru (persino le scene ambientate a Kobe, dove vive Hiroko, sono state girate in realtà in Hokkaido) e dunque caratterizzato da paesaggi freddi, innevati e invernali, con un'insolita e triplice relazione a distanza: i tre personaggi sono uniti dai sentimenti e dalle circostanze ma tenuti a distanza dal tempo (i due Itsuki: lei scopre che lui la amava solo dopo dieci anni), dallo spazio (Hiroko e Itsuki ragazza, che vivono in città separate e comunicano solo tramite lettere) e dalla morte (Hiroko e Itsuki ragazzo: emblemantica la scena in cui la donna saluta definitivamente il fidanzato, gridando verso la montagna dove lui è scomparso). Proprio questa "distanza" (l'amore è ideale e platonico, mai fisico) dona alla pellicola – che si fa giusto un po' prevedibile nella seconda parte – un feeling particolare, estremamente giapponese così come i temi dei sentimenti mai espressi, della caducità della vita, dell'accettazione del proprio destino e dal saper andare oltre, ma anche l'importanza dei ricordi e come gli eventi assumino un aspetto diverso a distanza di tempo (non a caso viene esplicitamente citato Marcel Proust: è grazie a una copia de "La recherche" che i veri sentimenti di Itsuki vengono a galla). La brava attrice protagonista (che, come detto, interpreta entrambi i ruoli principali, sia quello della malinconica Hiroko che quello della vivace e perennemente raffreddata Itsuki) è la cantante Miho Nakayama, mentre Miki Sakai, al suo debutto, è Itsuki da studentessa nei numerosi flashback. Il direttore della fotografia è Noboru Shinoda, in seguito collaboratore fisso di Iwai.

27 dicembre 2010

Il diabolico dottor Satana (J. Franco, 1962)

Il diabolico dottor Satana (Gritos en la noche)
di Jess Franco – Spagna/Francia 1962
con Howard Vernon, Julie Hamilton
**

Visto in DVD, con Martin.

Il folle dottor Orloff, medico carcerario ora a riposo, rapisce e uccide ragazze con l'aiuto del suo servo Morfo, un condannato a morte da lui riportato in vita, allo scopo di procurarsi lembi di pelle da trapiantare alla figlia Melissa nel tentativo di restituirle la bellezza dopo che il suo volto è rimasto sfigurato. Su di lui indaga l'ispettore Turner, che ne scoverà il nascondiglio grazie anche alla collaborazione della propria fidanzata, la prosperosa ballerina Tania. Noto anche con il titolo inglese "The Awful Dr. Orlof", è stato uno dei primi film di Franco a ricevere considerazione e notorietà, dando praticamente il via al cinema horror spagnolo. Ispirandosi al classico "Occhi senza volto" di Georges Franju, il regista realizza un thriller gotico che, se non brilla per originalità dal lato della sceneggiatura (i temi sono quelli classici del genere), può vantare una certa qualità surrealista nelle immagini, grazie alla fotografia in bianco e nero, alle atmosfere che ricordano Mario Bava e al montaggio concitato di alcune sequenze (come quella iniziale in cui Morfo rapisce una delle sue vittime, che sembra rifarsi addirittura a "Il gabinetto del dottor Caligari"). Nell'edizione italiana, i nomi del regista e del protagonista sono alterati: Jess Franco diventa Walter Alexander e Howard Vernon è accreditato come John Sullivan. Anche se alla fine del film Orloff muore, il perfido dottore tornerà in diverse altre pellicole dirette da Franco negli anni successivi. E nel 1976 il regista ne realizzerà praticamente un remake, trasformando il protagonista in Jack lo squartatore ("Erotico profondo", con Klaus Kinski).

23 dicembre 2010

Desiderio del cuore (Carl T. Dreyer, 1924)

Desiderio del cuore (Michael)
di Carl Theodor Dreyer – Germania 1924
con Walter Slezak, Benjamin Christensen
***

Visto in DVD.

L'aspirante artista Michael, giovane di bell'aspetto, è il modello prediletto dell'affermato pittore Claude Zoret (personaggio ispirato, secondo i commentatori dell'epoca, allo scultore Auguste Rodin), che lo vorrebbe – oltre che come assistente – anche come figlio adottivo. Ma il rapporto fra i due, già incrinato dal crescente bisogno di indipendenza di Michael (che peraltro non si fa problemi a ricorrere alla ricchezza e ai regali del maestro ogni volta che ne ha bisogno), viene messo a dura prova dall'intromissione della principessa Zamirow, nobildonna in esilio di cui Michael si invaghisce a prima vista. Sceneggiato da Dreyer insieme a Thea von Harbou (sì, proprio la moglie e collaboratrice di Fritz Lang), il film mescola vita, arte, amore, morte, ricchezza e talento attraverso le parabole incrociate dei due protagonisti: Zoret, pur ammirato da tutti, è in declino sia artistico sia fisico, mentre il giovane Michael è l'allievo che sta per sorpassare il maestro (e affrancarsi da lui). Evidente il sottotesto omossessuale del rapporto fra i due personaggi, anche se naturalmente – vista l'epoca – non viene esplicitato: basta comunque per classificare il lungometraggio come una delle prime importanti pellicole a tematica gay nella storia del cinema. Alla vicenda principale si intreccia la storia parallela del Duca di Monthieu, che si innamora di una donna sposata e va fatalisticamente incontro alla morte in un duello per mano del marito di lei. Il "motto" che apre la pellicola ("Ora posso morire in pace, perché ho vissuto un grande amore") sembra riferirsi a entrambe le sottotrame. Esemplare la fotografia di Karl Freund (che interpreta anche una piccola parte, quella del mercante d'arte), caratterizzata da un'eccezionale profondità di campo, e splendide le sontuose scenografie della villa di Zoret. Insolita, invece, la sequenza in cui Michael e la principessa si recano a teatro ad assistere al balletto de "Il lago dei cigni", di cui vediamo i movimenti ma (ovviamente, essendo un film muto) non sentiamo la musica. Fra gli attori brilla soprattutto Christensen (che era a sua volta un regista danese, come Dreyer) nei panni del maestro Zoret. Slezak (Michael), a inizio carriera, diventerà famoso solo negli anni quaranta, specializzandosi in ruoli da "cattivo" come in "Prigionieri dell'oceano" di Hitchcock.

22 dicembre 2010

I lunghi giorni della vendetta (F. Vancini, 1967)

I lunghi giorni della vendetta, aka Faccia d'angelo
di Florestano Vancini – Italia/Spagna 1967
con Giuliano Gemma, Francisco Rabal
**

Visto in TV.

Condannato ingiustamente a trent'anni di lavori forzati per un omicidio che non ha commesso, Ted Garnett evade per vendicarsi di coloro che lo hanno incastrato e hanno ucciso suo padre: il potente fazendero Cobb e il corrotto sceriffo Douglas, in combutta per spadroneggiare nella città di Kartown e commerciare illegalmente in armi con i ribelli messicani oltre il confine. Con l'aiuto della sua ex amante (Nieves Navarro) e di un medico-ciarlatano in viaggio con la nipote, riuscirà a dimostrare la propria innocenza e a far fuori l'intera banda. Ispirato evidentemente a "Il conte di Montecristo", l'unico western del regista Florestano Vancini (che si firma con lo pseudonimo di Stan Vance) gode di un certo riscontro fra gli appassionati del genere: addirittura Quentin Tarantino (che ha inserito un brano della colonna sonora di Armando Trovajoli all'interno di "Kill Bill vol. 1") lo considera uno dei migliori spaghetti western di tutti i tempi. La sceneggiatura di Fernando Di Leo (anche aiuto regista) e di Augusto Carminito non risparmia situazioni tese e violente: su tutte, oltre alla lunga sparatoria finale, la scena in cui Garnett si lascia pericolosamente radere la barba da un membro della gang nemica o quella in cui la sua impiccagione viene interrotta all'ultimo momento dall'arrivo del giudice che lo scagiona. Il personaggio di Gemma è sfaccettato, anche troppo: a volte è un astuto calcolatore, altre un atletico sbruffone (non manca nemmeno una scazzottata nel saloon, in stile "Trinità"). Buona comunque la regia e in generale la qualità visiva della pellicola.

21 dicembre 2010

L'inglese che salì la collina... (C. Monger, 1995)

L'inglese che salì la collina e scese da una montagna (The Englishman Who Went Up a Hill But Came Down a Mountain)
di Christopher Monger – GB 1995
con Hugh Grant, Colm Meaney
**1/2

Visto in TV, con Hiromi.

Siamo nel 1917: quando due cartografi inglesi (Ian McNeice e Hugh Grant) giungono nel villaggio gallese di Ffynnon Garw per misurare l'altezza della vicina altura – di cui tutti gli abitanti sono orgogliosi a tal punto da chiamarla "la prima montagna del Galles" – e giungono alla conclusione che non si tratta di una montagna bensì di una collina, in quanto non raggiunge (seppur di pochissimo) la quota di mille piedi necessaria a essere classificata come tale, l'intera popolazione del villaggio si mobilita: guidati dall'anziano parroco e soprattutto dal proprietario del pub locale, Morgan "il montone" (un simpaticissimo Colm Meaney), gli abitanti cercano in ogni modo di impedire la partenza dei due inglesi dal paese mentre, a loro insaputa, una grande quantità di terra viene trasportata e ammucchiata in cima alla "collina", in modo da incrementarne l'altezza fino alla quota fatidica. Nel contempo, il più giovane dei due inglesi – il più propenso a lasciarsi conquistare dal fascino della vita rurale – troverà anche l'amore in una spigliata cameriera (Tara Fitzgerald). Da un soggetto quasi barksiano (ricorda vagamente "Zio Paperone e la disfida dei dollari"), peraltro ispirato a una storia vera (l'intera vicenda è raccontata in flashback da un nonno al nipotino, e nel finale vediamo i discendenti attuali degli abitanti del villaggio che ne ripetono l'impresa), Monger realizza un filmetto gradevole che si iscrive nel filone di quelle commedie britanniche corali basate su piccole comunità ed elaborati inganni a fin di bene (come "Svegliati Ned" o "L'erba di Grace"). La pellicola è sostenuta da una sola idea, ma la buona ambientazione e il discreto cast di contorno riescono a tener desta l'attenzione fino in fondo.

20 dicembre 2010

La signora di Shanghai (O. Welles, 1947)

La signora di Shanghai (The Lady from Shanghai)
di Orson Welles – USA 1947
con Orson Welles, Rita Hayworth
***

Rivisto in DVD.

Il marinaio irlandese Michael O'Hara (Welles), avventuriero con un passato di combattente durante la guerra civile in Spagna, viene assoldato dal ricco avvocato Arthur Bannister (Everett Sloane) e da sua moglie Elsa (Hayworth) per condurre il loro yacht di lusso in una crociera lungo la costa messicana. Nel corso del viaggio si lascia conquistare dal pericoloso fascino della donna e cerca di non farsi coinvolgere dagli ambigui giochi di potere fra Bannister e il suo socio Grisby. Quest'ultimo, giunti a San Francisco, gli offrirà cinquemila dollari se lo aiuterà a simulare il proprio suicidio: ma quando Grisby viene ucciso veramente, Michael si ritroverà accusato di assassinio. "Vi sono degli uomini che intuiscono il pericolo. Io no": il protagonista si presenta così, iscrivendosi spontaneamente nella categoria dei tipici protagonisti dei film noir che si lasciano irretire dalla bellezza di una donna o dal fascino della ricchezza, finendo col farsi trascinare in un mondo torbido e autodistruttivo come quello dei coniugi Bannister (esemplare, al riguardo, la metafora degli squali che si azzannano a vicenda). Memorabile la caratterizzazione dei personaggi: l'avvocato è ambiguo, arrivista, disabile (cammina con le stampelle), mentre che il passato della signora Bannister non sia propriamente limpido viene subito lasciato intuire da alcuni frammenti di dialogo (oltre che dal titolo), che rivelano come abbia lavorato come "intrattenitrice" a Shanghai e nel sud-est asiatico. È l'ultimo film girato da Welles all'interno dei grandi studi hollywoodiani (fu costretto a realizzarlo, a partire da un libro che non aveva nemmeno letto, per ripagare un produttore che aveva finanziato un suo spettacolo teatrale). Il plot è un po' contorto e il protagonista è descritto in maniera piuttosto schematica, ma la regia colma di inventiva, le location visivamente splendide e la grandiosa fotografia in bianco e nero (ufficialmente di Charles Lawton, ma ci ha lavorato – senza accredito – Rudolph Matè) donano alla pellicola un fascino del tutto particolare, in grado di far dimenticare i difetti della sceneggiatura. Davvero magistrale, in ogni caso, la surreale sequenza finale nel labirinto di specchi del luna park, ricca di riflessi e sovrimpressioni dei volti e dei corpi dei tre personaggi. Welles riserva numerosi e bellissimi primi piani alla Hayworth, a quei tempi sua moglie (e alla quale aveva imposto, fra le polemiche, di tagliarsi i lunghi capelli rossi e di tingersi di biondo).

18 dicembre 2010

Hollywood Party (Blake Edwards, 1968)

Hollywood Party (The Party)
di Blake Edwards – USA 1968
con Peter Sellers, Claudine Longet
***1/2

Rivisto in DVD, con Marisa.

Qualche giorno fa è scomparso Blake Edwards, re della commedia brillante e irriverente: per ricordarlo mi sono rivisto un suo esilarante classico, una delle numerose collaborazioni con il grande Peter Sellers (da lui lanciato anche nella serie della "Pantera Rosa").

Invitato per errore a un party organizzato nella propria villa hollywoodiana dallo stesso produttore del costosissimo film (una sorta di remake di "Gunga Din") le cui riprese ha appena mandato all'aria con la sua dabbenaggine, l'imbranato attore di origine indiana Hrundi V. Bakshi provocherà disastri a non finire anche nel corso della serata, seminando caos e distruzione nella lussuosa casa e fra gli ospiti. Il personaggio si iscrive nel classico filone comico degli elementi involontariamente perturbatori della quiete all'interno di un establishment più o meno serioso (come sarà anche l'ispettore Closeau interpretato dallo stesso Sellers o, in tempi più recenti, Mr. Bean). Ma attenzione: l'inaccorto Bakshi non è semplicemente una causa di guai che nascono dal nulla, semmai catalizza e innesca quei germi della distruzione che sono già presenti negli ambienti che visita, proprio come faceva Monsieur Hulot (con i film di Jacques Tati ci sono moltissime cose in comune). La villa dove si svolge la festa, infatti, non è certo un luogo perfetto (molti arredi sono malfunzionanti di per sé, senza alcun bisogno dell'intervento di Bakshi), così come non lo sono i suoi proprietari ("La sua signora è caduta nella piscina!" – "Salvate i gioielli!"), la servitù (spicca, su tutti, il cameriere che si ubriaca bevendo i drink che dovrebbe servire agli ospiti) e gli stessi invitati (compresa la figlia dei padroni di casa, che a un certo punto irrompe al party con i suoi giovani amici "contestatori" – siamo nel 1968! – e un elefantino dipinto con slogan e simboli hippie). Gran parte della comicità deriva dallo sviluppo lentissimo ed estenuante delle gag (proprio la lentezza del ritmo può rendere forse il film poco appealing per chi è abituato alla comicità odierna, dai tempi ben più rapidi). Il ridicolo nasce infatti dall'esasperato accumularsi del tempo necessario a concludere una situazione: tre celebri esempi sono dati dalla scena iniziale in cui Bakshi, sul set del film, rifiuta di morire e continua a suonare (sempre peggio) la sua tromba; da quella dove cerca disperatamente di trattenere la pipì mentre la graziosa Claudine Longet canta un'interminabile e melliflua canzone ("Nothing to lose"); e dalla magistrale sequenza della carta igienica nel bagno che non finisce più di srotolarsi. Il film stesso non è che una lunga serie di esilaranti gag e di sketch che si succedono senza soluzione di continuità, spesso con un notevole grado di improvvisazione (Edwards ha dichiarato che si è trattato della sceneggiatura più breve su cui ha mai lavorato), fino alle estreme conseguenze. Tornando al parallelo con Jacques Tati, è indubbio come i lavori del comico francese (soprattutto "Mio zio" e "Play time") siano stati una costante fonte di ispirazione per la pellicola: lo ricordano la struttura narrativa (un elemento "puro" che si introduce in un ambiente fasullo e chiuso in sé stesso); la commistione di linguaggi e di nazionalità dei vari personaggi; l'interazione surreale e comica (ma con tempi calcolatissimi) con i vari arredi e oggetti; la satira contro le "comodità" moderne e tecnologiche, qui evidente nelle gag con la pulsantiera elettronica che controlla il mobilio e i pavimenti mobili; la confusione che monta in un crescendo irresistibile; per non parlare del personaggio femminile "innocente", la graziosa ragazza francese di cui alla fine Bakshi conquista la simpatia. E anche la bizzarra automobile con cui il protagonista arriva alla festa ricorda quella de "Le vacanze di Monsieur Hulot".

16 dicembre 2010

Ti amerò sempre (P. Claudel, 2008)

Ti amerò sempre (Il y a longtemps que je t'aime)
di Philippe Claudel – Francia/Germania 2008
con Kristin Scott Thomas, Elsa Zylberstein
*1/2

Visto in DVD.

Dopo quindici anni trascorsi in prigione per aver ucciso il figlio di sei anni ed essere stata ripudiata dal marito e dai genitori, l'ex medico Juliette viene accolta e ospitata dalla sorella minore Léa, sposata e madre di due bambine adottive. Il reinserimento in famiglia, nel mondo del lavoro e nella vita sarà lento e difficile, anche perché la donna frappone un gelido scudo fra sé e il resto del mondo. Soltanto alla fine la sorella scoprirà che il suo era stato un atto d'amore, visto che il figlio – all'insaputa di tutti – era condannato da un male doloroso e incurabile. Un nucleo narrativo implausibile e melodrammatico caratterizza un film pretenzioso e fasullo, privo di "trasparenza", che centellina le informazioni e i colpi di scena a esclusivo beneficio dello spettatore (più volte sembra che i personaggi, anziché parlare fra loro, recitino davanti a un pubblico). Claudel, scrittore al suo debutto come regista, vorrebbe rifarsi a Rohmer (citato esplicitamente, così come Kurosawa e Lubitsch) ma si rivela incapace di replicarne il naturalismo e la leggerezza, affidandosi invece a dialoghi scontati e ricattatori. La cosa migliore è senza dubbio l'interpretazione di Kristin Scott Thomas, peraltro svilita da un brutto doppiaggio italiano che, non contento di appiattire le performance degli attori, uniforma le diverse lingue (francese e inglese) parlate da alcuni personaggi, come la madre.

15 dicembre 2010

Erotico profondo (J. Franco, 1976)

Erotico profondo (Jack the Ripper)
di Jess Franco – Germania/Svizzera 1976
con Klaus Kinski, Josephine Chaplin
*1/2

Visto in DVD, con Martin.

Uno svogliato Klaus Kinski interpreta Jack lo squartatore in un film deludente, che si trascina senza offrire particolari sorprese allo spettatore (e mantenendo molto meno di quanto prometteva il fuorviante titolo italiano: giusto un paio di nudi fugaci e qualche grossolano tocco di gore). Il misterioso assassino che semina il panico fra le prostitute nella Londra di fine Ottocento è in realtà un medico rispettato e stimato, che di notte rapisce e mutila le donne per poi gettarne i pezzi nelle acque del fiume con la complicità della custode del giardino botanico. Nonostante gli indizi forniti da alcuni testimoni (fra cui un vecchio cieco dagli istinti molto sviluppati), Scotland Yard brancola nel buio: ma un giovane detective riuscirà a risolvere l'enigma grazie all'aiuto della propria compagna, una ballerina che pur di adescare l'assassino corre il rischio di diventare la sua prossima vittima. Luoghi comuni, scenari approssimativi e personaggi senza spessore: gli istinti omicidi del protagonista sono spiegati, un po' superficialmente, attraverso l'odio nutrito nei confronti della madre (interpretata – nella sequenza del sogno – dalla stessa attrice che recita nel ruolo della fidanzata dell'ispettore), che era stata a sua volta una prostituta. Risibile la ricostruzione d'epoca, che per rendere l'atmosfera si affida unicamente a strade invase dalla nebbia e a una fotografia scura e avvolgente. Il film è praticamente un remake a colori di una precedente e più riuscita pellicola in bianco e nero di Franco, "Il diabolico dottor Satana".

13 dicembre 2010

Hana & Alice (Shunji Iwai, 2004)

Hana & Alice (Hana to Arisu)
di Shunji Iwai – Giappone 2004
con Anne Suzuki, Yu Aoi
**1/2

Visto in divx, con Hiromi, in originale con sottotitoli.

Hana e Alice sono due amiche inseparabili, appena passate dalle scuole medie alle superiori. Innamorata di Masashi, un suo distratto compagno di classe, Hana gli fa credere – approfittando del fatto che ha sbattuto la testa – che soffre di amnesia e che dunque non ricorda più di essere il suo ragazzo. Ben presto, per rendere credibile l'inganno, è costretta a coinvolgere anche l'amica Alice, che deve "recitare" la parte dell'ex fidanzata di un sempre più confuso Masashi. Ma questi scoprirà di sentirsi più attratto proprio da Alice, dando vita a un insolito triangolo che metterà a dura prova l'amicizia fra le due ragazze. Come il precedente lavoro di Iwai, "All about Lily Chou-Chou", si tratta di un film dalla genesi bizzarra: nasce infatti da una serie di cortometraggi pubblicitari girati (in digitale) per il trentesimo anniversario della presenza di Kit Kat in Giappone (e questo spiega il product placement del popolare wafer al cioccolato, nonché la struttura episodica e frammentaria della narrazione), poi sviluppati dal regista – autore anche della colonna sonora – fino alle dimensioni di un lungometraggio, con risultati più che buoni: dai toni prettamente adolescenziali, il film è sicuramente più leggero e disimpegnato di altri suoi lavori, tutto basato com'è su amori scolastici, problemi familiari, aspirazioni e passioni di vario genere (sia Hana sia Alice frequentano una scuola di balletto; Alice viene "scoperta" da un talent scout e si sottopone a una serie di provini fotografici e pubblicitari; Hana – per amore di Masashi – si iscrive al circolo di recitazione della scuola e partecipa al festival studentesco), con personaggi delicati, spontanei, goffi, vivaci, timidi, mentitori, dotati di pregi e di difetti. Un film, insomma, che scorre con leggerezza e lascia di buonumore. Simpatiche e carine le due giovani protagoniste: Yu Aoi (Alice) aveva debuttato proprio in "All about Lily Chou-Chou" e nel finale si esibisce in una lunga sequenza di balletto; Anne Suzuki (Hana) si è vista in "Initial D" e in "Kantoku banzai" di Kitano.

12 dicembre 2010

Meltdown 2 (Allun Lam, 1998)

Meltdown 2, aka The black sheep affair (Bi xie lan tian)
di Allun Lam – Hong Kong 1998
con Zhao Wen Zhuo, Shu Qi
*

Visto in DVD.

Un patriottico soldato dell'esercito cinese, eroico ma refrattario agli ordini e incline a mettersi nei guai, viene trasferito all'ambasciata di Lavernia, paese europeo (fittizio, la pellicola è stata girata in Ungheria) che faceva parte dell'Unione Sovietica. Qui ritroverà un vecchio amico e la sua ex ragazza, che era fuggita dalla Cina dopo le rivolte di piazza Tien An Men, ma dovrà anche vedersela con un pericoloso terrorista giapponese a capo di una setta di fanatici. Nonostante il titolo (negli Stati Uniti è noto anche come "Another Meltdown"), il film non c'entra nulla con il precedente "Meltdown" (alias "High Risk") che vedeva Jet Li come protagonista, benché la presenza del suo look-alike Zhao Wen Zhuo (ovvero Vincent Zhao, che già aveva sostituito il buon Jet nel quarto e nel quinto episodio della saga di "Once upon a time in China") potrebbe trarre in inganno uno spettatore distratto. In ogni caso non si tratta d'altro che di un noioso e improbabile action movie come tanti, reso ancora più insopportabile dai tocchi di propaganda nazionalista e – nella versione italiana – da un doppiaggio fiacco e dilettantesco, forse il peggiore che io abbia mai sentito in un film distribuito nei circuiti ufficiali (il livello è talmente basso e gli accenti dei doppiatori così evidenti da far sorgere persino il dubbio che si tratti di una parodia o di una volontaria presa in giro nei confronti dello spettatore). A salvare il tutto non bastano le coreografie di Ching Siu-tung nelle scene d'azione e la bellezza di Shu Qi, che restano comunque gli unici due motivi per vedere il film fino alla fine.

11 dicembre 2010

I love Radio Rock (R. Curtis, 2009)

I love Radio Rock (The Boat That Rocked, aka Pirate Radio)
di Richard Curtis – GB 2009
con Tom Sturridge, Philip Seymour Hoffman
**

Visto in DVD, con Giovanni e Rachele.

Negli anni sessanta, numerose radio "pirata" trasmettevano illegalmente musica pop e rock da navi in disuso o ancorate nelle acque internazionali al largo della costa della Gran Bretagna, sfidando il monopolio delle emittenti di stato e i divieti del governo inglese. Il film racconta la storia di una di queste, Radio Rock, ispirata alla "vera" Radio Caroline. Il diciottenne Carl (Tom Sturridge), espulso da scuola, vi giunge a bordo perché la madre vuole che trascorra un po' di tempo in compagnia del patrigno Quentin (Bill Nighy), l'eccentrico direttore dell'emittente. Qui conosce tutta una serie di bizzarri personaggi che si alternano ai microfoni della radio in qualità di DJ nel corso dell'intera giornata, fra i quali spiccano l'americano "il Conte" (Philip Seymour Hoffman), l'estroverso "dottor Dave" (Nick Frost), il popolarissimo Gavin (Rhys Ifans) e il sempliciotto Simon (Chris O'Dowd). In un'atmosfera spensierata e liberatoria, all'insegna del trinomio sesso, droga e rock'n'roll, il ragazzo vivrà anche le sue prime esperienze sentimentali e conoscerà il suo vero padre. Farsesco, musicale, colorato e leggero, il film è un tuffo nelle atmosfere disimpegnate e lisergiche del rock anni sessanta: ma alla resa dei conti la sceneggiatura manca di spessore, i personaggi non sono altro che macchiette (molto superficiali, in particolare, quelli femminili) e la pellicola si limita a mettere in successione una serie di episodi nello stile corale e goliardico dell'Altman di "MASH" e di "Nashville": è un film più nostalgico che significativo. Nel ricco cast, anche Kenneth Branagh (il ministro che cerca in ogni modo di far chiudere la radio) ed Emma Thompson (la madre di Carl).

9 dicembre 2010

Giungla d'asfalto (J. Huston, 1950)

Giungla d'asfalto (The asphalt jungle)
di John Huston – USA 1950
con Sterling Hayden, Sam Jaffe
***1/2

Rivisto al cinema Greenwich Village di Torino, con Giovanni, Rachele ed Eleonora, in originale con sottotitoli (Torino Film Festival).

Appena uscito di galera, il genio del crimine "Doc" Riedenschneider (Sam Jaffe) organizza con un pugno di complici un audace colpo notturno a una gioielleria. Vi partecipa anche un delinquente di basso calibro, Dix Handley (Sterling Hayden), che si guadagna da vivere con piccoli furtarelli e che ha bisogno di denaro per riacquistare la fattoria appartenuta ai genitori e perduta durante la Grande Depressione. Il colpo, progettato scientificamente, sembra riuscire: ma gli scherzi del destino (un proiettile partito accidentalmente dalla pistola di una guardia uccide un membro della banda) e l'avidità del finanziatore della rapina, l'avvocato Emmerich (Louis Calhern), che vorrebbe tenersi il bottino tutto per sé, mandano il gruppo alla rovina. Gravemente ferito e braccato dalla polizia, Dix – accompagnato dalla donna che lo ama, Doll (Jean Hagen) – sceglie di andare a morire nella fattoria di famiglia, in mezzo ai puledri selvaggi, in un memorabile finale. Caposaldo del genere noir, la pellicola inaugura il filone degli heist movie anticipando titoli come "Rapina a mano armata" di Kubrick o "Rififi" di Jules Dassin (che gli è molto debitore), ma soprattutto è uno dei primi film polizieschi a mostrare con simpatia il sottobosco criminale, raccontando la vicenda dal punto di vista dei "cattivi" e mostrando pregi e difetti di ciascuno di essi con un approccio quasi naturalistico. La sua forza risiede infatti nel ritratto vivo ed efficace dei numerosi personaggi della vicenda, da quelli principali a quelli minori: il geniale e flemmatico "Doc", di origine tedesca, attento a ogni dettaglio ma con un debole per le giovani ragazze che lo perderà; il "traditore" Emmerich, che si barcamena fra problemi finanziari e una giovane amante (Marilyn Monroe, al suo primo ruolo serio, ancora acerba ma già splendente di luce propria); il barista gobbo Gus Minissi (James Whitmore), fedele amico di Dix che partecipa al colpo come autista; l'esperto scassinatore Louie Ciavelli (Anthony Caruso), che deve sfamare una famiglia fin troppo numerosa; il tenente di polizia Ditrich (Barry Kelley), corrotto e avido; l'emotivo Cobby (Marc Lawrence), che gestisce una sala di scommesse clandestine; il commissario Hardy, che si prodiga a estirpare le "mele marce" dalle forze dell'ordine; l'ardito detective privato Bob Brannon (Brad Dexter), che affianca Emmerich nel tentativo di ingannare i complici della rapina; Doll, ballerina sfortunata e innamorata (senza speranza) di Dix; e naturalmente lo stesso Dix, antieroe che rimane vittima del destino e delle circostanze. Huston ebbe carta bianca nell'adattare con Ben Maddow il romanzo di W. R. Burnett, e ricevette in cambio le nomination all'Oscar come miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura (Jaffe vinse invece la Coppa Volpi a Venezia). Magistrali anche la fotografia in bianco e nero di Harold Rosson e la colonna sonora di Miklos Rosza. Numerosi i remake.

7 dicembre 2010

The ward (John Carpenter, 2010)

The ward - Il reparto (John Carpenter's The Ward)
di John Carpenter – USA 2010
con Amber Heard, Lyndsy Fonseca
**1/2

Visto al cinema Massimo di Torino, con Giovanni e Rachele, in originale con sottotitoli (Torino Film Festival).

Kristen, una ragazza ribelle e dal passato misterioso, viene rinchiusa nel reparto speciale di un ospedale psichiatrico (siamo negli anni sessanta), quasi una sorta di prigione, insieme ad altre quattro giovani donne. Ma qui, oltre a progettare la fuga e a difendersi dalle crudeltà di medici e sorveglianti, dovrà vedersela con il fantasma di una delle precedenti ospiti che intende vendicarsi di tutte le ragazze ricoverate, uccidendole una a una. E scoprirà che la cosa la riguarda più da vicino di quanto avesse immaginato. Nove anni dopo "Fantasmi da marte", Carpenter torna al cinema con un horror di impostazione classica, forse non molto originale per temi e contenuti ma sicuramente efficace nel mantenere costantemente alta la tensione per l'intera durata della pellicola e nel mettere paura nei momenti giusti, grazie al sapiente uso di tutti i "trucchi del mestiere" per far sobbalzare gli spettatori nelle poltrone. I colpi di scena nel finale, benché preannunciati da numerosi indizi, sorprendono e riescono a spiegare in maniera coerente tutta la vicenda. Nulla di nuovo, ma girato benissimo e con un interessante cast di giovani attrici semisconosciute (oltre alla protagonista Amber Heard, le altre ragazze sono Danielle Panabaker, Lyndsy Fonseca, Mamie Gummer, Laura-Leigh e Mika Boreem). L'unico ruolo maschile di rilievo, oltre al sorvegliante D. R. Anderson, è quello di Jared Harris nei panni del medico.

6 dicembre 2010

Super (James Gunn, 2010)

Super
di James Gunn – USA 2010
con Rainn Wilson, Ellen Page
***

Visto al cinema Massimo di Torino, con Giovanni, Rachele ed Eleonora, in originale con sottotitoli (Torino Film Festival).

Umiliato dalla vita in più occasioni e abbandonato dalla moglie (Liv Tyler), che lo ha lasciato per mettersi con un gangster e trafficante di droga (Kevin Bacon), l'anonimo e sempliciotto Frank D'Arbo (Rainn Wilson) ha una visione mistica e si convince che Dio vuole che lui diventi un supereroe. Si fabbrica così un costume rosso e comincia a dare la "caccia al crimine" nei panni di Crimson Bolt, usando come arma una chiave inglese da calare sulla zucca dei suoi malcapitati avversari: e non importa se si tratta di ladri, di spacciatori o semplicemente di persone che saltano la fila davanti alle casse del cinema. Con l'aiuto di una giovane ed entusiasta commessa di un negozio di fumetti (Ellen Page), che si offre di fargli da sidekick con il nome di Boltie, darà infine l'assalto alla villa del rivale Jacques per riprendersi la sua Sarah. Mescolando parodia e realismo (non ci sono superpoteri, le persone muoiono davvero) e guardando in parte allo "Zebraman" di Takashi Miike (dove si mette in mostra la follia di un uomo comune che indossa un costume e si aggira per il quartiere a caccia di malviventi), Gunn realizza un film bizzarro, assurdo, insolito e stratificato, che gioca su più registri e passa dalla satira (esilaranti i riferimenti alla cultura pop e al genere supereroistico mainstream, come quando Frank e la sua esuberante partner studiano le possibili armi da usare, per non parlare della scena di sesso in costume) al dramma sociale, da situazioni surreali e visionarie (la sequenza in cui il protagonista è toccato dal "dito di Dio") a sequenze gore ricche di humour nero e di gusto post-tarantiniano, con un protagonista che è allo stesso tempo un folle psicopatico e un individuo sensibile per il quale non si può non provare una sincera simpatia. Pur a continuo rischio di deragliamento, il film riesce a mantenersi in equilibrio fino alla bella conclusione, grazie anche a un buon cast (simpaticissima la Page) e a un ritmo che mantiene alta la tensione pur prendendosi gioco di tutti i cliché del genere supereroistico (più dei supereroi a fumetti, a dire il vero, che di quelli cinematografici). Non per tutti i gusti (James Gunn si è fatto le osse alla Troma, il che spiega molte cose), ma da vedere.

5 dicembre 2010

E venne il giorno (M. N. Shyamalan, 2008)

E venne il giorno (The Happening)
di M. Night Shyamalan – USA 2008
con Mark Wahlberg, Zooey Deschanel
**

Visto in DVD, con Hiromi.

Una misteriosa epidemia che spinge gli uomini al suicidio di massa, causata da una neurotossina portata dal vento e forse prodotta dalle piante e dalla natura come "reazione" alla presenza sempre più dannosa degli esseri umani, si diffonde a partire dal Central Park di New York in tutta la regione nord-orientale degli Stati Uniti. Fra coloro che cercano disperatamente di mettersi in salvo, fuggendo in qualche modo dalla zona contaminata, ci sono l'insegnante di scienze Elliot Moore, sua moglie Alma e la piccola Jessie, figlia di un collega: ma dovranno vedersela con un mondo impazzito nel quale anche la solidarietà umana sembra venire a mancare. Tracciando ardite metafore e collegamenti fra fenomeni naturali diversissimi fra loro (la scomparsa delle api, le alghe che producono tossine per uccidere i pesci, il sistema immunitario degli organismi biologici), Shyamalan si lancia nel catastrofismo a sfondo ecologico, mette in scena una "fine del mondo" singolare e silenziosa, e vorrebbe spaventare gli spettatori costruendo un'atmosfera tesa e inquietante che guarda a Hitchcock ("Gli uccelli"), a Weir ("L'ultima onda") e ai film paranoici degli anni cinquanta (come "L'invasione degli ultracorpi"). Ma nonostante alcuni spunti interessanti (le fronde degli alberi mosse dal vento, percepite dai personaggi come una minaccia; l'assenza di momenti "fracassoni" e gridati, tipici di altri horror catastrofici), la pellicola non decolla mai completamente, anche per colpa di attori non molto in parte, e il messaggio ecologista risulta talmente banale e generalizzato da essere difficile da prendere sul serio (a suo onore, comunque, l'autore ha dichiarato esplicitamente di non aver voluto realizzare nient'altro che un buon B-movie). Se pure avevo difeso il regista di origine indiana in occasione dei suoi film precedenti, stroncati anch'essi – come questo – dalla maggior parte della critica ("Lady in the water", per esempio, non mi era dispiaciuto), stavolta devo riconoscere che c'è poco da salvare. E deve essersene accorto lo stesso Shyamalan, visto che per la prima volta rinuncia al suo consueto cameo (avrebbe dovuto interpretare Joey, il collega con cui Alma si incontrava all'insaputa del marito, ma il personaggio non si vede mai sullo schermo).

3 dicembre 2010

La magnifica preda (O. Preminger, 1954)

La magnifica preda (River of no return)
di Otto Preminger – USA 1954
con Robert Mitchum, Marilyn Monroe
**

Rivisto in DVD, con Martin.

Matt Calder (Mitchum), ex galeotto e ora contadino che vive con il figlioletto presso un fiume ai margini della frontiera, salva dalle rapide e accoglie nella propria casa il giocatore d'azzardo Weston (Rory Calhoun) e la ballerina di saloon Kay (Marilyn), diretti in città dove intendono registrare una concessione d'oro che l'uomo ha vinto alle carte. Pur di giungere alla meta il più presto possibile, Weston ruba il cavallo e il fucile di Calder, lasciandolo disarmato in mezzo ai territori indiani insieme al bambino e alla ragazza: e quando i pellerossa attaccheranno la fattoria, i tre saranno costretti a tentare una difficile fuga con la zattera sulle acque insidiose di quello che gli indiani chiamano "il fiume senza ritorno". Western dall'insolita ambientazione fluviale, il film ha i suoi punti di forza nei bellissimi paesaggi (è stato girato in Canada, e l'ambientazione è resa vivida dalla fotografia a colori e dal Cinemascope che Preminger utilizzava per la prima volta) e nella fisicità carismatica dei due protagonisti, che nel corso del viaggio impareranno a conoscersi e, ovviamente, a innamorarsi. Meno efficace invece la sceneggiatura, ricca di luoghi comuni e povera di dialoghi memorabili. Ma lo showdown finale in città fra Calder (che deve farsi perdonare dal figlio il fatto di aver sparato alle spalle a un uomo per difendere un amico) e l'infido Weston offre alcuni spunti interessanti, con il bambino che deve intervenire per salvare il padre. Marilyn canta diverse canzoni, fra cui "One Silver Dollar" (con corsetto rosso e calze a rete), "Down in the Meadow" e la title song "River of No Return". Sia lei che Mitchum avevano già avuto o avranno a che fare con fiumi e rapide, rispettivamente in "Niagara" e ne "La morte corre sul fiume". Durante la lavorazione, il regista e la diva ebbero da ridire l'uno dell'altra: Marilyn considerava la pellicola come il peggior film della sua carriera, mentre Preminger affermò che "dirigere Marilyn è come dirigere Lassie, ci vogliono quattordici ciak prima che abbai nel modo giusto". In ogni caso, il risultato – pur non facendo gridare al capolavoro – non è completamente da buttar via: si tratta di un piacevole esempio di cinema "medio" hollywoodiano dell'epoca. Poco sensato il titolo italiano.

30 novembre 2010

Le conseguenze dell'amore (P. Sorrentino, 2004)

Le conseguenze dell'amore
di Paolo Sorrentino – Italia 2004
con Toni Servillo, Olivia Magnani
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni.

Il commercialista salernitano Titta Di Girolamo, un uomo grigio, metodico, riservato, serio ("l'unica cosa frivola che possiedo è il mio nome") e apparentemente incapace di esprimere emozioni, vive come un recluso da otto anni in un albergo in Svizzera. Ritenuto da tutti un uomo d'affari, in realtà si occupa di riciclare i proventi di Cosa Nostra versando in banca le valigie piene di denaro che periodicamente gli vengono recapitate. L'amore per la giovane barista dell'albergo lo spingerà però a compiere una scelta coraggiosa, incrinando le consuetudini più radicate e accettando volontariamente di pagarne le conseguenze. Il secondo lungometraggio della coppia Sorrentino/Servillo (dopo "L'uomo in più" e prima de "Il divo") è il folgorante racconto di un'esistenza triste e solitaria, incentrato su un personaggio che sembra anestetizzato dal destino e avulso dalla vita. È lui stesso, attraverso una voce off che evoca un film noir, a raccontare allo spettatore molte cose di sé: gli scarsi rapporti con i parenti (la moglie e i figli, rimasti in Campania; il giovane fratellastro, sportivo e globetrotter, che passa a salutarlo), la mancanza di relazioni sociali (il suo "miglior amico" è uno che non vede da vent'anni: bella e toccante la scena, nel finale, che lo mostra mentre lavora su un traliccio dell'alta tensione fra le montagne altoatesine, paesaggio simbolo di quella libertà che contrasta con la "prigionia" di Titta); la dipendenza dall'eroina (anche questa consumata settimanalmente in maniera metodica) e l'abitudine, una volta l'anno, di fare un completo "lavaggio del sangue". Ma lentamente la sua ritrosia e la riservatezza cominceranno a incrinarsi. Sorrentino gira con grande stile, dando vita a un'atmosfera fredda e sobria. La lunga scena d'apertura, nella quale i titoli di testa scorrono mentre un incaricato della banca porta la valigia lungo un nastro trasportatore, evoca sia "Il laureato" sia la sequenza iniziale di "Millennium mambo". L'ottima regia è ben accompagnata dalla fotografia algida di Luca Bigazzi, dall'evocativa e minimalista colonna sonora di Pasquale Catalano, e soprattutto dalla magistrale interpretazione di Toni Servillo, uno dei migliori attori italiani (se non il migliore) dell'ultimo decennio. La coprotagonista, al suo esordio sul grande schermo, è la nipote di Anna Magnani.

29 novembre 2010

C.R.A.Z.Y. (Jean-Marc Vallée, 2005)

C.R.A.Z.Y. (id.)
di Jean-Marc Vallée – Canada 2005
con Marc-André Grondin, Michel Côté
**

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli inglesi.

Oltre a far riferimento a una canzone di Patsy Cline che si sente ripetutamente durante la pellicola, il titolo di questa saga familiare ambientata nel Canada francofono è composto dalle iniziali dei cinque figli (tutti maschi) di Gervais e Laurianne Beaulieu: Christian, Raymond, Antoine, Zachary e Yvan. La storia però è interamente raccontata dal punto di vista del quarto figlio, Zac, nato il giorno di Natale del 1960, del quale seguiamo la crescita attraverso gli anni sessanta e settanta, i vari compleanni che inevitabilmente si sovrappongono ai festeggiamenti natalizi, i difficili rapporti con i fratelli con i quali non ha nulla in comune (in particolare con il secondo, Raymond, tossicodipendente problematico), e soprattutto gli scontri con il padre, severo e omofobo, che trova impossibile accettare le nascenti tendenze omosessuali del ragazzo. Fra ribellioni adolescenziali e dissidi generazionali, al film – che sembra lunghissimo, anche più di quanto non sia realmente – non manca quasi nulla: la scoperta della sessualità, il rapporto con il sacro (la famiglia Beaulieu è religiosissima, e la madre di Zac, a lui molto legata, si convince che il ragazzo abbia il "dono" miracoloso di guarire la gente con il pensiero; lo stesso Zac, pur diventato ateo, "ritroverà sé stesso" dopo un viaggio in Terrasanta), una colonna sonora piuttosto ruffiana e a base di hits dell'epoca (si va dai Pink Floyd a David Bowie, senza dimenticare quel Charles Aznavour che costituisce il vero tema musicale di tutte le feste di Natale della famiglia), attori bravi e simpatici. Ma il troppo stroppia e forse un po' di sintesi in più non sarebbe nuociuta, anche perché la sceneggiatura – a parte alcuni episodi sopra le righe – in fondo non dice nulla di così originale e si preoccupa per lo più di accattivarsi in ogni modo le simpatie dello spettatore. E anche i personaggi sono troppi: solo due dei figli, Zac e Raymond, hanno davvero un ruolo nella storia. Zac dai 6 agli 8 anni è interpretato da Émile Vallée, figlio del regista.

28 novembre 2010

Marie Chantal contro il dr. Kha (C. Chabrol, 1965)

Marie Chantal contro il dr. Kha (Marie-Chantal contre le docteur Kha)
di Claude Chabrol – Francia 1965
con Marie Laforêt, Francisco Rabal
*1/2

Visto in divx.

In viaggio verso la Svizzera insieme al cugino per una vacanza sulla neve, la svampita Marie Chantal rimane coinvolta in un caso di spionaggio internazionale quando un uomo, prima di morire, le affida un misterioso gioiello che sembra far gola a molti: due agenti segreti russi, un ambasciatore americano, un affascinante giornalista e diversi loschi individui, molti dei quali lavorano per il Dottor Kha, genio del crimine con base in Marocco. Nel tentativo, da parte degli esponenti della Nouvelle Vague, di recuperare e nobilitare gli stilemi del cinema di genere (lo stesso sforzo che ha portato Godard e Truffaut a girare film gialli, noir o di fantascienza), Chabrol realizza una strana pellicola che guarda a James Bond (a un certo punto citato esplicitamente dalla protagonista) e ai fumetti d'avventura con tono svagato ma senza mai scadere nella parodia esplicita. Francamente, però, nonostante le premesse e qualche gag occasionale, il risultato è piuttosto noioso e il divertimento latita. Nel cast, anche Akim Tamiroff, Stéphane Audran e Serge Reggiani. Lo scenario con le numerose spie in lotta fra di loro può ricordare la storia di Carl Barks "Paperino e le spie atomiche". Il finale lasciava presagire un sequel, se non addirittura l'inizio di una serie, che però non c'è mai stato.

26 novembre 2010

Drunken master (Yuen Woo-ping, 1978)

Drunken master (Jui kuen)
di Yuen Woo-ping – Hong Kong 1978
con Jackie Chan, Yuen Siu-tien
***

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

L'abile ma indisciplinato Wong Fei-hung (chiamato Freddy Wong nel classico doppiaggio inglese), sempre pronto ad attaccar briga o a mettersi nei guai, viene affidato per un anno dal padre a un insegnante di arti marziali tanto bizzarro quanto severo, il vagabondo Beggar So. Questi sottopone il ragazzo a un addestramento durissimo ma efficace: Fei-hung apprende infatti la straordinaria tecnica dell'ubriaco, che consiste nell'evadere i colpi dell'avversario simulando i movimenti imprevedibili di un avvinazzato che non si regge in piedi, e riuscirà così a sconfiggere il temibile Thunderleg (o Thunderfoot), spietato sicario a pagamento che era stato assoldato per uccidere proprio suo padre. Realizzato pochi mesi dopo "Snake in the eagle's shadow" (di cui condivide la troupe e l'intero cast, comprimari compresi), questo film leggendario, divertente e appassionante ha consacrato Jackie Chan come il nuovo divo del cinema di arti marziali alla fine degli anni settanta e ha reso estremamente popolare il suo approccio comico al kung fu (è proprio qui che Jackie comincia a sfruttare, durante i combattimenti, tutto ciò che gli capita sottomano: sgabelli, capi di vestiario, persino cibo). Ispirato a una figura realmente esistita, Wong Fei-hung è un personaggio che era già apparso sullo schermo in centinaia di pellicole, per non contare le serie televisive: in seguito verrà interpretato ancora, fra gli altri, da Jet Li nella serie "Once upon a time in China". Nella versione di Jackie Chan lo vediamo attraversare tutte le fasi del suo sviluppo caratteriale: inizialmente discolo e smargiasso (memorabile la scena in cui riesce con l'inganno a farsi abbracciare al mercato da una ragazza, che si rivelerà essere sua cugina!), sulle prime tenta di evadere dalla ferrea sorveglianza di Beggar So e dai suoi esercizi al limite della tortura; ma dopo essere stato pesantemente umiliato in uno scontro a mani nude da Thundeleg, ritorna con la coda fra le gambe dall'anziano maestro e accetta di sottoporsi ai suoi allenamenti estremi. Il film è ricco di momenti umoristici ma anche di combattimenti realistici, lunghi e diversificati – da ricordare quello al mercato con la zia (Linda Lin), che punisce Fei-hung per aver importunato la nipote; la rissa al ristorante in cui il ragazzo viene aiutato per la prima volta da Beggar So; lo scontro con l'imbonitore dalla testa d'acciaio; e quello con il lottatore che usa il bastone (Hsu Hsia) – nel corso dei quali Jackie fa uso di molti stili differenti (compresi quelli ispirati agli animali, che derivano dallo Hung Ga messo a punto dal Wong Fei-hung storico). Anche il maestro ubriacone Beggar So (So Chan, o Su Hua Chi) è una popolare figura del folklore cinese legato alle arti marziali, una delle "dieci tigri di Canton": interpretato da Yuen Siu-tien (sostituito da Yuen Biao come controfigura in alcune sequenze), padre del regista Yuen Woo-ping, insegna a Wong Fei-hung lo stile degli "otto dèi ubriaconi". Il ragazzo apprende velocemente i primi sette, ma si rifiuta di studiare la tecnica dell'ottava divinità, Miss Ho, la "dea signora", in quanto la ritiene troppo effemminata. Inutile dire che nel corso dello scontro finale con Thunderleg (Hwang Jang-lee) si troverà in difficoltà proprio per questa mancanza, e dovrà improvvisarne lo stile. Nella colonna sonora è riconoscibile il classico tema musicale legato a Wong Fei-hung, che compare in tutte le pellicole con il celebre personaggio. Nel 1994 Jackie realizzerà un sequel, "Drunken master 2", nel quale i suoi genitori saranno interpretati nientemeno che da Ti Lung e Anita Mui.

24 novembre 2010

Bokassa (Werner Herzog, 1990)

Bokassa - Echi da un regno oscuro
(Echos aus einem düsteren Reich)
di Werner Herzog – Francia/Germania 1990
**1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Jean-Bédel Bokassa, eccentrico e megalomane dittatore della Repubblica Centrafricana fra il 1966 e il 1979, a un certo punto proclamatosi addirittura imperatore e accusato dai nemici di praticare il cannibalismo, era ovviamente il protagonista ideale per uno dei documentari di Herzog sulla grandiosità della follia umana. Alternando immagini di repertorio (come quelle della sontuosa e costosissima cerimonia di incoronazione in stile napoleonico, "un'operetta messa in scena per sé stesso", accompagnate dalle note del medesimo trio di Schubert che figura nella colonna sonora di "Barry Lindon") a una serie di interviste realizzate dal giornalista Michael Goldsmith a diversi personaggi legati a vario titolo a Bokassa (alcune ex mogli del dittatore – che ne avrebbe avuto in tutto 17, con oltre 50 figli –, i suoi avvocati, i rivali politici), il regista tedesco realizza un interessante reportage su una delle più bizzarre figure storiche del ventesimo secolo. Lo stesso Goldsmith aveva già avuto a che fare con l'imperatore: accusato di essere una spia (perché un suo articolo, trasmesso con un telex difettoso, era diventato così illeggibile da far credere agli operatori che fosse un messaggio cifrato in codice!), era stato rinchiuso in prigione, picchiato personalmente da Bokassa e minacciato di essere messo a morte. Come sempre Herzog ha la grande capacità di unire al racconto storico (di per sé arricchito da curiosità e aneddoti impagabili, come la storia della "falsa figlia" vietnamita) piccoli squarci, immagini e suggestioni che valgono più di mille parole: la visita all'ex reggia del sovrano, con i bambini che si aggirano fra saloni disadorni e statue abbattute; le immagini dei granchi di mare che escono dalle acque e che invadono la terra, ricoprendo il mondo intero (un sogno dello stesso Goldsmith); e la sequenza conclusiva dello scimpanzé in gabbia che fuma una sigaretta. Quanto a Bokassa, dopo essere stato deposto si era rifugiato in Francia nel castello di Hadricourt, dove è vissuto in esilio fino al 1986, quando ha scelto volontariamente di tornare in patria nonostante fosse stato condannato a morte in contumacia. Dopo un nuovo processo, ricevette l'ergastolo e morì in prigione nel 1996, non senza essersi reso protagonista di altre farneticazioni e manie di grandezza (come quella di ritenersi "il tredicesimo apostolo"). Herzog avrebbe voluto intervistare anche lui, ma prima di poterlo fare la troupe venne espulsa dal paese: il dittatore compare così soltanto in immagini di repertorio (comprese quelle del secondo processo). Il documentario, per una volta privo della consueta voce narrante di Herzog, è aperto da un intervento del regista che si dichiara preoccupato per la sorte di Goldsmith, disperso durante la guerra civile in Liberia (il giornalista sarebbe morto poco dopo l'uscita del film).

22 novembre 2010

Il profumo del mosto selvatico (A. Arau, 1995)

Il profumo del mosto selvatico (A walk in the clouds)
di Alfonso Arau – USA 1995
con Keanu Reeves, Aitana Sanchez-Gijon
*1/2

Visto in TV, con Hiromi.

Un giovane reduce della Seconda Guerra Mondiale, insoddisfatto del suo lavoro e con un matrimonio infelice alle spalle, si offre di accompagnare una ragazza incinta e abbandonata, fingendo di essere suo marito, fino alla sua tenuta vinicola nel sud della California (la ragazza proviene da una ricca famiglia di agricoltori di origine ispanica). Nonostante l'iniziale ostilità del padre di lei, i due finiranno per innamorarsi davvero. Lineare e sdolcinato, scontato e prevedibile, il film è il remake di una pellicola di Blasetti del 1942, "Quattro passi fra le nuvole". Gran spreco di paesaggi da cartolina, illuminati da una fotografia ruffiana: il resto sono situazioni stereotipate (le ragazze che pestano l'uva), personaggi-macchietta (i nonni, i domestici), conflitti schematici, risoluzioni facili e senza alcuna fatica, per non parlare di diversi passaggi improbabili (l'incendio che si attacca all'intero vigneto nel giro di pochi secondi). Non male il cast maschile (Keanu Reeves è in buona forma, il padre della ragazza è Giancarlo Giannini, il nonno è Anthony Quinn); del tutto dimenticabile invece la protagonista femminile.

19 novembre 2010

Nostalgia (Sergio Sgrilli, 2010)

Nostalgia
di Sergio Sgrilli – Italia 2010
con Sergio Sgrilli
***

Visto in DVD, con Marisa.

Comincia come una mattina qualsiasi: un uomo è solo, in bagno, davanti allo specchio. Si lava i denti, si osserva compiaciuto. Ma poi qualcosa prende il sopravvento, e in un'escalation di alternanze emotive (ride, piange, fa smorfie) il personaggio finisce col radersi totalmente barba e capelli: un atto che può essere dettato dalla necessità di un rinnovamento, forse un modo per riazzerare anche il mondo che lo circonda. E come in tutti i processi di rinnovamento, ci sono momenti di rischio: in certi passaggi, si teme quasi che il protagonista stia per farsi del male. In questo cortometraggio di 24 minuti, girato in un unico piano sequenza con la camera fissa e dagli echi scorsesiani (ma più che a "Taxi Driver" il riferimento è al corto d'esordio "The big shave"), Sergio Sgrilli – già musicista, autore e comico teatrale e televisivo – offre il proprio volto e le proprie espressioni in pasto allo spettatore che si trova dall'altra parte dello schermo/specchio, mettendo in scena un taglio radicale che appare addirittura ringiovanirlo, pur senza cancellare del tutto il suo vissuto e la sua identità. Come una maschera del teatro greco (quando la testa dell'attore è completamente ricoperta e avvolta dalla schiuma da barba, questa lascia spazi liberi solo per gli occhi e la bocca e trasforma il suo volto, a seconda delle espressioni, nei simboli della commedia o della tragedia), l'autore dà vita a un one-man-show che comunica le emozioni in maniera diretta, senza filtrarle attraverso un'ingombrante struttura narrativa, delle parole o anche un accumulo di informazioni che potrebbero potenzialmente distrarre l'attenzione. Angoscia o soddisfazione sgorgano di volta in volta in maniera spontanea, mentre le loro cause ci rimangono ignote. E chissà che non siano da ricercare dall'altro lato dello specchio, il nostro.

Nota: il film non è ancora in commercio. L'ho potuto vedere in "anteprima" grazie alla gentilezza di Sergio, che me ne ha fatto avere una copia, informandomi che nei suoi progetti questo è il primo di una trilogia di cortometraggi che dovrebbero finire in un unico cofanetto. Le immagini del film si trasformeranno anche in un videoclip per la canzone "L'unica cosa" del gruppo italiano Marta sui Tubi.

17 novembre 2010

Crank (M. Neveldine, B. Taylor, 2006)

Crank (id.)
di Mark Neveldine, Brian Taylor – USA 2006
con Jason Statham, Amy Smart
**1/2

Visto in DVD, con Hiromi.

Frenetico action movie, dalla trama semplicissima e sopra le righe, con il sempre simpatico Jason Statham nei panni di un killer professionista i cui nemici gli hanno iniettato in corpo una pericolosa droga sintetica. Il veleno, che agisce sui recettori dell'adrenalina, lo ucciderà nel momento in cui il battito del suo cuore rallenterà sotto una certa soglia: per restare in vita, dunque, deve mantenersi costantemente in agitazione e in movimento, impegnato in una folle corsa fra inseguimenti, sparatorie, droghe ed emozioni forti (a un certo punto ricorre persino a un amplesso in pubblico con la propria fidanzata!), seminando il caos nelle strade di Los Angeles e cercando contemporaneamente di vendicarsi e di trovare un antidoto. Divertente, improbabile, esagitato, videogiocoso (vedi anche la scena finale, dopo i credits), con un ottimo ritmo (l'intera pellicola si svolge nell'arco di poche ore), uno stile estetico fra Guy Ritchie e Robert Rodriguez, e un seguito ("Crank: High Voltage").

14 novembre 2010

The social network (D. Fincher, 2010)

The social network (id.)
di David Fincher – USA 2010
con Jesse Eisenberg, Andrew Garfield
**1/2

Visto al cinema Eliseo.

Il film racconta la storia della nascita di Facebook, social network ideato in un campus dell'Università di Harvard e che conta oggi 500 milioni di iscritti in tutto il mondo per un valore di circa 25 miliardi di dollari (come recitano le didascalie alla fine della pellicola), attraverso i dissidi e le due cause legali che ne hanno opposto il creatore Mark Zuckerberg al suo ex miglior amico Eduardo Saverin (finanziatore e socio iniziale dell'impresa, poi estromesso da Mark per motivi mai del tutto chiariti) e a un terzetto di studenti che lo avevano accusato di aver rubato loro l'idea. Lo stile classico e senza fronzoli di Fincher, l'incisiva sceneggiatura a flashback di Aaron Sorkin e la fotografia fredda e scura di Jeff Cronenweth mettono la figura di Mark – molto più che la sua creatura, della quale in realtà si parla pochissimo – al centro dell'attenzione, presentandolo come un nerd inespressivo e con scarse capacità comunicative e relazionali (il che è ironico, se si pensa che il suo sito serve proprio a coltivare le relazioni sociali). Forse perché si occupa di persone ancora in vita e di eventi così recenti, per giunta oggetto di controversie in tribunale, il film non si azzarda a spiegare i "tradimenti" di Mark nei confronti dei suoi compagni, lasciandoli solo intuire (la frustrazione e una rivalsa contro il mondo esclusivo – come le confraternite di Harvard – che lo teneva a distanza?). Il personaggio rimane distante e impenetrabile, e i soli momenti in cui qualcosa sembra accendersi nei suoi occhi sono quelli in cui trova una sorta di anima gemella in Sean Parker (interpretato da Justin Timberlake), fondatore di Napster e a sua volta giovane genio dell'informatica, l'unico con il quale sembra trovarsi in sintonia di idee. Il finale mette comunque in luce la profonda solitudine in cui si trova prigioniero "il più giovane miliardario del mondo", rimasto senza un vero amico al di fuori del suo mondo virtuale: forse chi ha ironicamente ribattezzato il film "Sesto potere" non ha tutti i torti. A Fincher non interessa dunque analizzare il fenomeno dei social network o l'impatto che hanno sui loro utenti: non approfondisce le spinose questioni relative alla perdita della privacy, alla profilazione a fini di marketing cui gli utilizzatori di Facebook si consegnano volontariamente, o al distacco dal mondo reale, argomenti ai quali la maggior parte degli aficionados del sito presta sconsideratamente poca attenzione. Pur ripercorrendo le varie tappe della crescita del social network (che inizialmente era riservato solo agli studenti di Harvard e di pochi altri college americani), queste per la sceneggiatura sono soltanto un pretesto per illustrare la frustrazione e la personalità complessata del protagonista. Allo stesso modo, non viene spiegato il motivo del successo di Facebook ("è fico", si limitano a dire i ragazzi: ma cosa lo distingue da altri siti simili se non l'aver raggiunto più velocemente una "massa critica" di utenti?), e nemmeno quello del suo valore commerciale (anzi, uno dei punti chiave della pellicola è proprio l'opposizione di Mark allo sfruttamento pubblicitario della sua creazione, perseguito invece da Eduardo). Dove il film brilla, oltre che sul versante formale, è invece nella rappresentazione di un ambiente dominato dalle disfunzioni sociali (le personalità problematiche di Mark e di Sean, il rapporto fra Mark ed Eduardo, quello patologico con le ragazze). Bella, ma sostanzialmente fuori posto, la sequenza della gara di canottaggio sulle note (riarrangiate) di Grieg: è l'unico momento in cui il film perde di vista l'oggetto del racconto e si concede una divagazione che forse poteva risparmiarsi.

13 novembre 2010

Il primo ragazzo (S. Paradžanov, 1959)

Il primo ragazzo (Pervyy paren)
di Sergej Paradžanov – URSS 1959
con Georgij Karpov, Lyudmila Sosyura
*1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Fra i film "di regime" girati da Paradžanov prima della sua svolta personale e artistica del 1964, questo è forse uno dei più sopportabili, grazie a una messa in scena sbarazzina (sebbene naturalmente molto impostata), a una fotografia dai colori vivaci (belli soprattutto i cieli rossi al tramonto) e alle numerose canzoni patriottiche che donano alla pellicola un tono leggero, per l'appunto quasi da musical. Ambientato in un kolchoz ucraino nel quale seguiamo la vita di un gruppo di "giovani comunisti", fra amori e corteggiamenti, studio e lavoro nei campi, sagre paesane e balli contadini, ricorda un po' "Il fiore sulla pietra", anche perché ne condivide l'attore protagonista (Georgij Karpov, che secondo me assomiglia all'Aleksey Batalov di "Quando volano le cicogne"). Il giovane Juscka – come ci spiega la voce narrante – si ritiene il ragazzo più in gamba della regione, e in effetti il suo comportamento audace e spudorato lo rende assai popolare presso gli amici e le ragazze (benché non riesca a fare breccia nel cuore della bella Odarka, allevatrice di maiali e ottima atleta ma dotata di un caratterino pari al suo). La sua leadership sembra vacillare quando nel villaggio ritorna Danilo, appena congedato dall'esercito, che ben presto diventa il centro dell'attenzione di tutti e stimola i compagni a fare sport (corse ciclistiche o campestri, partite di calcio). Juscka lo crede anche suo rivale in amore, e per mettergli i bastoni fra le ruote si "arruola" come portiere nella squadra avversaria durante un incontro amichevole. Alla fine, però, gli equivoci saranno risolti e l'amicizia e l'amore trionferanno. A tratti quasi corale (a quella di Juscka e Danilo si intrecciano altre storie parallele, come la vicenda romantica fra il negoziante Sidor e la bambinaia Frosenka), il film può essere considerato un equivalente sovietico delle contemporanee pellicole occidentali a sfondo giovanile: naturalmente qui i valori sono quelli del lavoro e della solidarietà, che vanno di pari passo con l'amicizia, l'amore e lo sport.

10 novembre 2010

Angelo (Ernst Lubitsch, 1937)

Angelo (Angel)
di Ernst Lubitsch – USA 1937
con Marlene Dietrich, Herbert Marshall
***

Visto in DVD, con Marisa.

La moglie di un brillante diplomatico inglese, trascurata dal marito, vive un'avventura di una sola sera a Parigi con un affascinante gentiluomo, al quale non rivela il proprio nome (lui la chiama "Angelo") e che non intende rivedere mai più. Ma pochi giorni dopo se lo ritroverà in casa a Londra, invitato dal marito, che naturalmente non è al corrente della loro fugace relazione. Come in molti altri lavori di Lubitsch, i temi sono quelli del desiderio e dei rapporti coniugali, e non manca il solito triangolo amoroso: ma stavolta non si tratta di una commedia, o almeno non soltanto (non mancano comunque infatti dialoghi e situazioni assai comiche, in particolare quelle legate alla servitù che commenta puntigliosamente il comportamento dei padroni, per non parlare dell'understatement britannico: "Com'è il tempo?" "Discreto", mentre diluvia). La pellicola è permeata da un retrogusto malinconico e struggente, quasi disperato, che non si dissipa nemmeno nel finale, anzi si rafforza con l'inquadratura dei coniugi che si prendono sottobraccia, allontanandosi di spalle, senza neanche guardarsi in volto: è il trionfo dell'amore ritrovato o piuttosto quello della rassegnazione? Marlene Dietrich è bellissima, misteriosa ed enigmatica: il suo personaggio ha molte ombre nel proprio passato (è stata un'escort di lusso?), eppure prova più volte a confessare tutto al marito (come nella scena in cui, durante la colazione, gli rivela di avere un amante, anche se sembra solo una provocazione fatta per gioco); Marshall e Douglas (entrambi già attori lubitschiani) sono soltanto satelliti che ruotano attorno a lei, perfetti nelle parti del flemmatico marito inglese che nemmeno si accorge di trascurare la consorte e dell'appassionato amante pronto a tutto pur di rivedere la sua adorata. Per queste caratteristiche ambigue, il film fu un flop ed è considerato uno dei meno popolari di Lubitsch: eppure non mancano i consueti "tocchi" di genio del regista, come nella scena in cui Marlene parla del brano che ha appena suonato al pianoforte alludendo invece alla sua avventura sentimentale ("Quando l'inizio di una cosa è molto bello, mi domando se è bene portarla a termine...") e naturalmente in quella – citatissima, anche da Truffaut nel saggio "I film della mia vita" – in cui la tensione durante la cena viene risolta senza inquadrare la sala da pranzo ma mostrando invece la cucina, attraverso i commenti dei camerieri che osservano i piatti man mano che ritornano: la signora non ha toccato cibo, l'invitato ha tagliato la bistecca in cento pezzettini senza mangiare nulla, e invece il marito – che sollievo! – ha fatto piazza pulita! A parte questi picchi, la pellicola (di cui è evidente l'origine teatrale) ha una consistenza strana e impalpabile, quasi come un sogno a occhi aperti. E il regista si adegua, mostrando personaggi che svaniscono nel nulla (Marlene nel parco di Parigi, quando lascia la fioraia e le violette sole sullo schermo) o risparmiandoci momenti chiave della storia (l'amante che, osservando il ritratto, capisce che "Angelo" è la moglie del suo anfitrione). Pessimo l'audio (non restaurato) del DVD italiano.

8 novembre 2010

Malcolm X (Spike Lee, 1992)

Malcolm X (id.)
di Spike Lee – USA 1992
con Denzel Washington, Angela Bassett
**1/2

Visto in DVD, con Martin.

Monumentale (dura tre ore e quaranta minuti) biopic su una figura cardine delle lotte e delle rivendicazioni degli afroamericani negli anni cinquanta e sessanta, il film è tratto dalla "Autobiografia di Malcolm X" scritta da Alex Haley e racconta con dovizia di dettagli la movimentata vita di uno dei personaggi più carismatici e controversi della cultura statunitense del ventesimo secolo, considerato da alcuni un paladino dei diritti civili e da altri un seminatore di odio. Anche il ritratto che ne fa Spike Lee non è privo di contraddizioni: se da un lato il film ne mostra tutti gli aspetti più scomodi (le origini umili a Boston, le attività criminali in gioventù, la tossicodipendenza, il carcere, la conversione all'Islam, le violente prediche contro la razza bianca, i dissidi con gli altri leader neri, il pellegrinaggio alla Mecca, la svolta verso una riappacificazione sociale e razziale, e infine l'assassinio durante un comizio a Manhattan di cui sono tuttora ignoti i mandanti – benché la sceneggiatura suggerisca una complicità fra i suoi ex compagni della Nazione dell'Islam e i servizi segreti americani), dall'altro utilizza spezzoni e immagini di repertorio per celebrare l'importanza e l'influenza che Malcolm X – come persona, ma anche come simbolo – ha avuto e continua ad avere tuttora per la comunità nera negli Stati Uniti e nel mondo (c'è anche un frammento di un discorso di Nelson Mandela). Altrettanto controverso è l'incipit, che fonde insieme l'immagine di una bandiera americana in fiamme – fino a quando non ne rimane che un brandello a forma di X – con quelle del pestaggio di Rodney King da parte della polizia di Los Angeles, avvenuto l'anno prima dell'uscita della pellicola. La visione del film, dunque, non chiarisce le idee: chi era Malcolm X? Un fanatico idealista o un maestro da seguire? Ogni fase della sua vita sembra contraddire quella precedente, eppure la sua figura nel complesso ha saputo catalizzare come poche altre l'attenzione sulla discriminazione dei cittadini di colore negli Stati Uniti: e se oggi la situazione è migliorata, lo si deve sicuramente anche a lui. Per tutta la sua durata, il film poggia su alcuni pilastri – l'interpretazione solida di Denzel Washington e la regia classica di Lee – che non cedono mai. Il cast è completato da Angela Bassett (la moglie Betty), lo stesso Spike Lee (Shorty, il compagno di bravate in gioventù), Delroy Lindo (Archie, il piccolo boss di Harlem per il quale Malcolm lavora da giovane), Albert Hall (Baines, colui che lo converte alla religione musulmana) e Al Freeman jr. (Elijah Muhammed, il leader della Nazione dell'Islam, l'organizzazione per la quale Malcolm predica per anni prima di rompere ogni contatto). Inizialmente la pellicola avrebbe dovuto essere diretta da Norman Jewison, ma proteste e discussioni sull'opportunità di lasciare un'icona nera in mano a un regista bianco (per quanto fosse l'autore di un film iconico come "La calda notte dell'ispettore Tibbs") hanno spinto i produttori a affidare le redini del film a Spike Lee, che ne ha riscritto la sceneggiatura mantenendo però il protagonista già scelto da Jewison (con Denzel Washington, peraltro, aveva già lavorato in "Mo' better blues"). Per consentirgli di portare a termine le riprese, molte personalità di colore dello sport e dello spettacolo hanno contribuito al finanziamento della pellicola, alcune delle quali apparendo anche con un cameo. Per la prima volta, inoltre, una troupe statunitense ha avuto il permesso di girare alcune scene di un film di finzione all'interno della Mecca.

6 novembre 2010

L'illusionista (Sylvain Chomet, 2010)

L'illusionista (L'illusionniste)
di Sylvain Chomet – Francia/GB 2010
animazione tradizionale
**1/2

Visto al cinema Apollo, con Paola.

Un prestigiatore francese, che si sposta di teatro in teatro e di città in città in cerca di scritture, giunge fino in Scozia dove conosce una ragazzina che lo seguirà per qualche tempo, affascinata dalla sua capacità di trasformare la grigia realtà in qualcosa di sempre nuovo e sorprendente. Ma sullo sfondo c'è tutta la malinconia e la tristezza di un mondo che sta cambiando a grande velocità. Tratto da un soggetto e da una sceneggiatura inedita di Jacques Tati, il secondo lungometraggio di Chomet (che già nel suo primo film, "Appuntamento a Belleville", aveva reso omaggio all'arte del grande comico) sembra in molte cose un film di Monsieur Hulot, a partire dalla rinuncia al linguaggio parlato (il film non è propriamente muto, ma i dialoghi sono del tutto inessenziali). Il protagonista, modellato anche fisicamente su Tati (il cui vero nome è lo stesso del personaggio, Tatischeff), si muove con gentilezza ma fuori posto in un mondo in cui gli spettacoli di magia e di varietà non riscuotono più l'interesse del pubblico, contagiato da nuove mode (esilarante la parodia dei complessi rock che elettrizzano le folle di giovani a Londra), distratto dai venti di guerra, dal consumismo o dalle nuove tecnologie. Come l'illusionista, anche gli altri abitanti di questo microcosmo sono destinati al fallimento: si veda il clown che tenta il suicidio o il ventriloquo che, costretto a impegnare il suo pupazzo, finisce col chiedere l'elemosina (altri, come gli acrobati, si riciclano con più facilità lavorando nel campo del marketing). E anche il nostro mago, nel finale, sembra abbracciare la disillusione, rinunciando ai giochi di prestigio (esemplare quando non sostituisce la matita della bambina in treno con una più lunga) e facendo aprire gli occhi alla ragazzina con il suo ultimo messaggio: "I maghi non esistono". Alla fine, rassegnato, stringe fra le mani la foto della figlia (Sophie Tatischeff, la vera figlia di Tati, alla quale Chomet dedica il film con gratitudine per avergli dato il permesso di realizzare quello che era un suo sogno da tempo: riportare sullo schermo lo spirito un artista unico e indimenticabile). Per un breve momento, nel buio di una sala che proietta "Mio zio", il Tati disegnato e quello in carne e ossa hanno anche l'occasione di incontrarsi e di confrontarsi. Splendidi i disegni e soprattutto i fondali e le scenografie ad acquarello, che rendono giustizia agli scenari dell'Europa degli anni cinquanta (Parigi, Londra, le isole scozzesi e soprattutto Edimburgo).

4 novembre 2010

Vendicami (Johnnie To, 2009)

Vendicami (Vengeance)
di Johnnie To – Hong Kong/Francia 2009
con Johnny Hallyday, Anthony Wong
***

Visto in DVD, con Hiromi.

Francis Costello (Hallyday), cuoco francese che nasconde un passato da killer (e il cui cognome riecheggia inevitabilmente quello del protagonista del leggendario "Le samourai" di Jean-Pierre Melville, da noi intitolato per l'appunto "Frank Costello faccia d'angelo"), giunge a Macao dove la famiglia di sua figlia (Sylvie Testud) è stata sterminata da misteriosi sicari. Per rintracciare i colpevoli e ottenere la giusta vendetta, assolda tre gunmen esperti del luogo (Anthony Wong, Lam Ka-Tung e Lam Suet) affinché lo aiutino a individuare la pista giusta e a seguirla fino a Hong Kong. I tre uomini, quando scopriranno che il mandante dell'omicidio è lo stesso boss per il quale solitamente lavorano, Mister Fung (Simon Yam), sceglieranno di rimanere dalla parte del francese e di tener fede alla parola datagli, sacrificando la propria vita in nome della lealtà e dell'amicizia. Ma Costello, nel frattempo, ha perso la memoria per colpa di una pallottola nella testa ("a bullet in the head"!)... E "a che serve la vendetta se non ricordi più niente?". Proprio il tema della memoria dona a questo malinconico noir d'azione, frutto della collaudata coppia Johnnie To-Wai Ka-Fai (il primo regista, il secondo sceneggiatore), una patina tutta particolare, quasi alla "Memento" (come il protagonista del film di Nolan, Hallyday ricorre a fotografie e ad appunti per riconoscere o distinguere gli amici e i nemici). Ma anche se To, alle prese con una coproduzione internazionale, aggiunge qualche ingrediente europeo alla solita ricetta, i temi rimangono gli stessi dei suoi lavori migliori: l'amicizia (che viene cementata dai consueti momenti di condivisione attorno a un tavolo), il cameratismo (anche fra nemici: vedi la scena del picnic che precede la sparatoria al parco), la famiglia, il tradimento, la vendetta. Nelle intenzioni originarie, il personaggio di Costello avrebbe dovuto essere interpretato proprio da Alain Delon, esplicitando ancora di più il richiamo a Melville: di fronte al suo rifiuto, il regista ha dovuto ripiegare su un altro attore transalpino, Johnny Hallyday, che comunque non se la cava affatto male con il suo volto scavato e lo sguardo che sembra adombrare un tragico passato, la cui cancellazione è forse un sollievo e un'occasione per ricominciare da capo. Numerose le scene da antologia, fra cui vanno ricordati almeno gli inseguimenti sotto la pioggia (magnifica la fotografia di Cheng Siu-keung) e lo scontro a fuoco nella discarica, con i personaggi che si fanno scudo con le enormi balle di carta riciclata.

3 novembre 2010

Wild Wild West (B. Sonnenfeld, 1999)

Wild Wild West (id.)
di Barry Sonnenfeld – USA 1999
con Will Smith, Kevin Kline
*1/2

Visto in TV.

Nel 1869, due agenti speciali al servizio del presidente Grant (l'eroe di guerra nero James West e il bizzarro sceriffo-inventore Artemus Gordon) cercano di salvare gli Stati Uniti dalla minaccia di un folle scienziato sudista, il dottor Loveless. Assurdi meccanismi pseudoscientifici, treni a vapore superaccessoriati, letali armi magnetiche, gadget anacronistici, gigantesche tarantole meccaniche: poteva essere una buona occasione per portare finalmente alla ribalta un genere poco frequentato dal cinema come lo steampunk (per l'occasione in salsa western). E invece, se pure l'abbinamento fra la tecnologia ottocentesca e gli scenari di frontiera si conferma intrigante, il resto è un vero disastro: l'avventura non decolla mai (anche perché per tener desti gli spettatori si ricorre a una lunga serie di capitomboli e inseguimenti degni di "Mamma, ho perso l'aereo"), i personaggi non sono che macchiette (in alcuni casi, vedi quello interpretato da Salma Hayek, del tutto inutili ai fini della trama), il cast è poco ispirato (l'unico a salvarsi è Kevin Kline, grazie anche ai suoi molteplici travestimenti, mentre Will Smith – che per girare il film ha rinunciato alla parte di Neo in "Matrix" – è quasi impresentabile e Kenneth Branagh nei panni del cattivo fa il minimo sindacale), stereotipi e luoghi comuni si sprecano, la regia è anonima e la sceneggiatura è sciatta e pedestre. Più immaturo che infantile (le imbarazzanti gag a sfondo sessuale non si contano), il lungometraggio – tratto da una serie televisiva degli anni sessanta, poco nota da noi – si rivela alla resa dei conti un giocattolone costoso, vuoto e disarmante, da ricordare solo per la contaminazione di generi e per due fugaci inquadrature dei fondoschiena di Salma Hayek e Bai Ling.

29 ottobre 2010

L'angelo del male (Jean Renoir, 1938)

L'angelo del male (La bête humaine)
di Jean Renoir – Francia 1938
con Jean Gabin, Simone Simon
***1/2

Visto in DVD.

Il macchinista ferroviario Jacques Lantier soffre di occasionali e incontrollabili impulsi omicidi, forse per una tara ereditaria ("Sembra che io debba pagare per gli altri. I padri, i nonni che bevevano. Ho nel sangue generazioni e generazioni di ubriachi"). E proprio per il timore di far del male a qualcuno non ha voluto mai sposarsi e di fatto "convive" con la sua locomotiva (che chiama con un nome di donna, Lisa), a bordo della quale percorre la tratta fra Parigi e Le Havre insieme all'inseparabile fuochista Pecqueux. Quando conosce Séverine, giovane e bella moglie del vicecapostazione Roubaud, se ne innamora immediatamente. Ma la donna gli chiede di uccidere il suo gelosissimo marito, che la tiene legata a lui e che l'ha resa complice dell'omicidio di un suo precedente amante, un delitto di cui proprio Lantier è l'unico testimone... Adattando un romanzo di Émile Zola (all'inizio della pellicola vengono mostrate anche una foto e una citazione dello scrittore), Renoir realizza un torbido noir ad alta tensione che precorre molti archetipi del genere e che scava nelle zone d'ombra di personaggi vittime e carnefici al tempo stesso, immersi in una società marcia (si pensi al ricco e rispettato Grandmorin, l'anziano padrino di Séverine con un debole per le ragazzine) e dominata da gelosie, interessi, tradimenti, violenza e cinismo, un mondo dove l'amore puro sembra impossibile. I pregi tecnici del film vanno di pari passo con quelli contenutistici: la fotografia in bianco e nero avvolge i personaggi come l'ambientazione proletaria e il vapore che fuoriesce dalle locomotive, mentre il montaggio secco e la colonna sonora essenziale li accompagnano nel loro cammino verso la perdizione, la passione e il rimorso. Ottimi gli interpreti: Fernand Ledoux (Robaud) era un membro della Comédie Française; Gabin (in un ruolo che aveva fortemente voluto, essendo lui stesso figlio di un conduttore di treni) si mostra fragile, tormentato e in balia del proprio destino; e la seducente Simon, femme fatale ante litteram, quattro anni prima de "Il bacio della pantera" sembra già profondamente "felina": nella prima scena in cui appare tiene in braccio un gatto bianco, appena prima di baciare Lantier accenna a dargli un morso, e a suo proposito Pecqueux commenta "Certe donne sono come i gatti, non gli piace bagnarsi i piedi". Renoir stesso interpreta la parte di Cabuche, il cantoniere che viene ingiustamente accusato dell'omicidio di Grandmorin. Il film si apre con una lunga e celebre sequenza, impressionante per l'epoca, che mostra la soggettiva di un treno in corsa, lanciato a tutta velocità nei tunnel e sui binari. L'immagine del treno si sposa perfettamente con il determinismo che permea il romanzo di Zola (Lantier fa parte della famiglia dei Rougon-Macquart, protagonista di un suo ciclo di romanzi sul tema dell'ereditarietà): è impossibile deviare dal percorso segnato dalle rotaie, se non con la scelta radicale di gettarsi giù dal treno in corsa. La pellicola ha influenzato, fra gli altri, Luchino Visconti ("Ossessione") e soprattutto Fritz Lang ("La bestia umana", praticamente un remake).

27 ottobre 2010

Snake in the eagle's shadow (Yuen Woo-ping, 1978)

Il serpente all'ombra dell'aquila (Se ying diu sau)
di Yuen Woo-ping – Hong Kong 1978
con Jackie Chan, Yuen Siu-tien
**1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

All'apparenza un gongfupian come tanti altri, si tratta invece di un film fondamentale nella storia del cinema di Hong Kong. Oltre a segnare il debutto alla regia di Yuen Woo-ping (il futuro coreografo, fra le altre cose, di "Matrix", "Kill Bill" e "La tigre e il dragone"), è anche la pellicola che – insieme a "Drunken master", realizzato pochi mesi più tardi dalla stessa troupe e con lo stesso cast – trasforma definitivamente Jackie Chan nella nuova superstar del cinema di arti marziali, rendendolo popolarissimo dapprima in oriente e poi anche in occidente. Se il film si apre con un combattimento che più classico non si può, ben presto prende le distanze dai vecchi stilemi del genere grazie all'innesto di gag e momenti umoristici che sembrano provenire direttamente dalle comiche mute del cinema americano degli anni venti. Il protagonista è un orfano sempliciotto, vessato in continuazione nella scuola di kung fu dove vive: novello "cenerentolo", gli è impedito di seguire le lezioni e ha invece il compito di fare le pulizie, oltre a essere utilizzato dagli inetti insegnanti (fra cui il caratterista Dean Shek) come punching bag umano durante le dimostrazioni. Dopo aver accolto e curato un vecchio mendicante (che in realtà è l'ultimo maestro sopravvissuto della scuola del Pugno del Serpente, in fuga dalla setta rivale dell'Artiglio dell'Aquila), viene da lui sottoposto a un duro addestramento e impara a padroneggiarne le tecniche. Nello scontro finale con il capo del clan rivale (Hwang Jang-Lee) utilizzerà però uno stile ancora diverso, da lui stesso ideato e ispirato alle zampate del gatto. Oltre alle gag e alle smorfie, che lo differenziano dai tanti seriosi imitatori di Bruce Lee che infestavano i film di arti marziali dell'epoca, Jackie dà sfoggio di tutta la propria prestanza fisica in una serie di combattimenti tanto inusuali quanto dinamici (nel corso di quello finale perde persino un dente!): gli manca ancora la caratteristica di sfruttare a proprio vantaggio l'ambiente e gli oggetti che lo circondano, ma l'equilibrio fra i momenti comici e quelli d'azione è già ben dosato. La colonna sonora è a base di musica elettronica "rubata" a Jean-Michel Jarre (si riconosce il tema di "Oxygene"), com'era consuetudine nelle produzioni di Hong Kong di allora. L'anziano maestro è interpretato dall'ottimo Yuen Siu-tien (noto anche come Simon Yuen), padre del regista, che tornerà – in un ruolo simile ma ancora più leggendario – in "Drunken master". Fra i cattivi, si fa ricordare per curiosità il falso prete occidentale (Roy Horan).

26 ottobre 2010

The warrior (Asif Kapadia, 2001)

The warrior (id.)
di Asif Kapadia – India/GB 2001
con Irrfan Khan, Noor Mani
**1/2

Visto in DVD, con Giovanni, in originale con sottotitoli inglesi.

Un taciturno mercenario fa parte di un gruppo di guerrieri al servizio di un crudele signore feudale, che se ne serve per punire chi disubbidisce al suo dovere e per mettere a ferro e fuoco i villaggi che non pagano i tributi. Durante una di queste missioni punitive, l'uomo ha una visione mistica del proprio futuro e decide così di cambiare vita, abbandonando per sempre la spada e mettendosi in cammino per tornare al proprio villaggio. Perderà il figlio, ucciso per vendetta dai suoi ex compagni, ma nel corso del lungo viaggio dai deserti del Rajasthan alle cime innevate dell'Himalaya troverà la compagnia di un giovane ladruncolo in cerca, come lui, di redenzione. Girato in lingua hindi ma di produzione inglese (il regista, al suo primo lungometraggio dopo alcuni corti, è un britannico di origine indiana), il film è ambientato in un'epoca senza tempo ed è caratterizzato da toni epici-fiabeschi, da paesaggi di grande impatto e da pochissimi dialoghi, con immagini e silenzi di grande intensità che fanno perdonare una trama forse sin troppo semplice (ispirata, a quanto pare, da un racconto di samurai). La pellicola era stata proposta dalla Gran Bretagna come il proprio candidato agli Oscar per il miglior film straniero, ma è stata rifiutata dall'Academy perché non era parlata in una lingua nativa del Regno Unito.

23 ottobre 2010

Tarda primavera (Yasujiro Ozu, 1949)

Tarda primavera (Banshun)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1949
con Setsuko Hara, Chishu Ryu
****

Rivisto in DVD (registrato da "Fuori Orario"),
con Giovanni, Rachele e Paola.

Noriko ha da tempo raggiunto l'età in cui dovrebbe sposarsi, come le suggeriscono di fare con insistenza tanto le amiche quanto i parenti. Ma lei preferirebbe continuare a vivere con l'anziano padre, un professore universitario vedovo e solo, per accudirlo e stargli sempre vicina. Pur di convincerla a non sacrificare la propria vita per lui, il genitore fingerà di essere intenzionato a sua volta a risposarsi: ma non è altro che una sofferta bugia. Alla fine la ragazza accetterà un matrimonio combinato dalla zia, anche se non sapremo se sarà felice (d'altronde sullo schermo non vedremo mai nemmeno il marito). Il film, che personalmente considero il capolavoro di Ozu, contiene alcune fra le sequenze più belle di tutto il cinema del regista nipponico: quella della gita in bicicletta di Noriko e Hattori, il giovane assistente del padre, che lascia per un attimo immaginare allo spettatore (e anche al padre di Noriko) una qualche sorta di intesa romantica fra i due, immediatamente smentita dalla scena successiva in cui viene rivelato che Hattori è già fidanzato con un'altra; quella in cui padre e figlia si recano ad assistere a una rappresentazione di teatro No, un capolavoro di montaggio in cui la macchina da presa mostra alternativamente il palscoscenico e il pubblico, soffermandosi sulle reazioni di Noriko nello scorgere, fra la folla, la presunta futura moglie del padre; e il confronto finale fra i due personaggi nell'albergo di Kyoto, quando Noriko chiede per l'ultima volta al genitore di lasciarla rimanere con lui: c'è qui la famosissima sequenza – su cui i critici cinematografici hanno sparso fiumi di inchiostro – con l'immagine del vaso che intervalla due primi piani del volto di Setsuko Hara, dapprima sorridente e poi piangente. La mia personale interpretazione di questa enigmatica scena è simile a quella che Dario Tomasi avanza nel suo "castorino": si tratta di un inserto con cui Ozu, per pudicizia, ci nasconde il delicato momento in cui Noriko raggiunge finalmente l'accettazione del proprio destino. Il regista "distoglie lo sguardo" per un attimo, e come un maestro zen offre allo spettatore un vaso da riempire con le sue emozioni. E proprio il tema dell'accettazione – cosa ben diversa dalla semplice rassegnazione – è il vero fulcro del film (si veda anche la scena finale del padre che acquista improvvisamente la consapevolezza di essere rimasto da solo nella casa ormai vuota), insieme a quello del contrasto fra la ricerca della felicità personale e la fedeltà agli obblighi sociali (curiosamente in un melodramma occidentale si sarebbe identificata la prima con il matrimonio e la seconda col restare a casa, mentre qui è l'esatto contrario!), o fra tradizione e spirito democratico, "due realtà che il Giappone, sotto il controllo americano, sembra pensare antitetiche".

Con "Tarda primavera" inizia l'ultima fase della carriera di Ozu, contrassegnata da uno stile sempre più asciutto ed essenziale (ma non mancano alcune sorprese: proprio in questo film, per esempio, sono presenti alcuni carrelli, il più significativo dei quali è quello che segue i personaggi, di spalle, mentre escono dal teatro dove hanno assistito alla rappresentazione No), da un'ancora più costante attenzione al tema dei rapporti familiari, dalla collaborazione fissa con lo sceneggiatore Kogo Noda e dall'utilizzo di un ristretto nucleo di attori fra i quali spiccano proprio i due ottimi protagonisti di questo lungometraggio, Chishu Ryu e Setsuko Hara. Si tratta di elementi che avevano caratterizzato già la sua produzione precedente, ma che nei film del dopoguerra si "cristallizzano" e si purificano sempre di più, liberando le pellicole da ogni orpello e trasformandole in tanti piccoli tasselli di un unico discorso narrativo e stilistico. Lo stesso regista, accusato dai critici suoi contemporanei di essere rimasto legato ai linguaggi del passato (in quegli anni il Giappone stava cambiando alla velocità della luce dal punto di vista sociale ed economico, ma anche artistico: al cinema, per esempio, stava per arrivare la nuberu bagu di Oshima, Imamura e compagni), ha replicato spiegando che i suoi film degli anni cinquanta e sessanta vanno considerati come una serie di "variazioni sul tema", al pari dei dipinti di alcuni maestri dell'arte pittorica, tanti tentativi di mettere a fuoco lo stesso soggetto, avvicinandosi ogni volta di più all'obiettivo finale. Proprio sul canovaccio di "Tarda primavera", per esempio, Ozu realizzerà in seguito ben due pseudo-remake: "Tardo autunno" e "Il gusto del sakè" (che sarà fra l'altro il suo ultimo film, in cui Setsuko Hara – che qui interpreta la figlia – vestirà i panni dell'altra protagonista della storia, la madre).

In ogni caso, è ingeneroso accusare Ozu di rivolgere il suo sguardo esclusivamente al passato. Al contrario, i suoi film mostrano in maniera evidente e puntuale i cambiamenti in atto nella società giapponese: lo facevano già quelli degli anni trenta, e lo fanno a maggior ragione i lavori della maturità, sebbene sempre fra le righe e in maniera non gridata. Piccoli elementi (un cartello pubblicitario della Coca-Cola, un bar con l'insegna in caratteri occidentali, gli abiti o gli arredi moderni, le donne emancipate come l'amica divorziata di Noriko che lavora come dattilografa) ci fanno capire che non siamo più nel Giappone nazionalista di prima della guerra. Curiosamente, rispetto ai personaggi più anziani come il padre o il suo collega Onodera, proprio la giovane Noriko si dimostra più legata ai valori del passato: si dichiara – per sua stessa ammissione – molto "più all'antica" del padre, per esempio accusando (sia pure bonariamente) il professor Onodera di immoralità per aver osato risposarsi. Il suo sorriso perenne (tranne nelle scene in cui manifesta il proprio disappunto per la decisione del padre di prendere una nuova moglie) è il simbolo del ruolo sottomesso e servizievole della donna che storicamente ha caratterizzato il paese del Sol Levante. Persino per uscire dalla casa paterna e cominciare a vivere la propria vita, Noriko sceglie la strada del matrimonio combinato, un altro retaggio del Giappone feudale. Ma forse proprio le dure esperienze della guerra (cui si accenna brevemente in un dialogo) e quelle ancora più dure del dopoguerra spingevano tanti giovani giapponesi a nutrire un certo timore per i cambiamenti radicali, come quelli che le forze di occupazione stavano imponendo in quegli anni: esemplare il momento in cui Noriko chiede al padre se non è possibile lasciare per sempre le cose come stanno. Che non sia possibile, naturalmente, ce lo rivela l'ultimissima inquadratura della pellicola, quella con le onde del mare che si riversano sulla spiaggia: nulla è per sempre.