31 agosto 2022

Irma Vep - La vita imita l'arte (O. Assayas, 2022)

Irma Vep - La vita imita l'arte (Irma Vep)
di Olivier Assayas – USA/Francia 2022
con Alicia Vikander, Vincent Macaigne
*1/2

Visto in TV (Now Tv).

Remake, sotto forma di miniserie televisiva (in otto episodi), dell'omonimo film del 1996 dello stesso Assayas, che a sua volta parla(va) di un remake: quello del celebre serial muto "I vampiri" di Louis Feuillade, che il regista autoriale René Vidal (Macaigne) sta girando a Parigi con una star hollywoodiana, Mira Harberg (Vikander), nei panni della protagonista Irma Vep. Costei (interpretata da Musidora nel 1915 – anche se la serie, chissà perché, dice 1916 – e da Maggie Cheung nel 1996) è una dark lady ante litteram, fascinosa ladra vestita con una tuta nera aderente che fa parte di una banda criminale (i "Vampiri", appunto) che terrorizza Parigi. Ma l'arte e la vita, la realtà e l'immaginazione, si confondono durante la travagliata lavorazione della serie, che mette a dura prova le fragili esistenze di attori e cineasti, alle prese con spiriti e demoni personali... Autoreferenziale e autobiografica (in René c'è molto di Assayas, a partire dalla relazione con "l'attrice cinese" che aveva interpretato Irma Vep in precedenza) ma al tempo stesso meno realistica (basti notare che, a differenza del film con Maggie Cheung, stavolta nessuno interpreta sé stesso e dunque tutti i personaggi sono immaginari), la serie è purtroppo noiosa e sfilacciata: come molti prodotti televisivi che prendono l'idea di partenza da un film o da qualcosa di preesistente, ne stiracchia i contenuti per spalmarli su una durata di più ore senza una vera necessità narrativa, il che risulta in una successione di situazioni ed episodi del tutto estemporanei e inconsequenziali. E quando prova a farsi "profonda", con le discussioni sulla vita, il cinema, la spiritualità, si ha l'impressione che sia tutto improvvisato sul momento e superficiale. La Vikander è francamente inadeguata nel ruolo dell'attrice sexy e bisessuale: meglio Macaigne in quello del regista nevrotico e depresso, nonché alcuni comprimari. Fra i migliori, Vincent Lacoste (il vanesio attore francese Edmond), Lars Eidinger (l'eccentrico e tossicomane attore tedesco Gottfried) e Devon Ross (Regina, assistente personale di Mira nonché aspirante regista), mentre il personaggio della costumista lesbica Zoe (Jeanne Balibar), assieme alla protagonista stessa, è quello che più ha sofferto nel passaggio dal film alla serie tv. Velleitari i riferimenti allo stato del cinema e della tv moderna (ma è triste che un prodotto in teoria così permeato di storia del cinema sia uscito sotto forma di serie televisiva: d'altronde, il cinema è morto). I numerosi inserti con la vicenda dei vampiri, con spezzoni del serial muto e poi le scene rifatte, sono la cosa più interessante: ma a quel punto, è meglio dedicare il proprio tempo a rivedersi direttamente l'originale di Feuillade.

29 agosto 2022

Io e Annie (Woody Allen, 1977)

Io e Annie (Annie Hall)
di Woody Allen – USA 1977
con Woody Allen, Diane Keaton
***1/2

Rivisto in divx.

Alvy Singer (Allen), comico e cabarettista newyorkese, ripercorre il proprio rapporto con le donne e in particolare quello con Annie Hall (Keaton), aspirante cantante del Wisconsin con cui ha convissuto, lasciandosi dopo un anno di relazione fra alti e bassi. Il film che ha definitivamente consacrato Woody Allen, fino ad allora noto per le sue commedie satiriche più o meno demenziali, di cui in un certo senso rappresenta artisticamente il punto d'arrivo: vinse l'Oscar (battendo nientemeno che "Guerre stellari") ed è tuttora considerato fra i suoi migliori lavori, se non il migliore in assoluto. La commedia romantica ed esistenziale vive sulle insicurezze, le nevrosi e le idiosincrasie del personaggio (magistralmente accentuate, nella versione italiana, dal doppiaggio di Oreste Lionello, che fu apprezzato dallo stesso Allen: "mi ha fatto sembrare migliore di quanto io sia"), intellettuale ebreo che disprezza gli intellettuali (celeberrima la scena della coda davanti al cinema, nella quale "materializza" dal nulla il sociologo Marshall McLuhan per mettere a tacere un saccente individuo che pontificava proprio su di lui), pessimista per natura (legge solo libri che contengono la parola "morte" nel titolo), che cerca di "elevare culturalmente" la sempliciotta e impulsiva Annie, spingendola a iscriversi all'università e ad andare in analisi (come lui, che va dallo psichiatra da quindici anni: "Gli concedo un altro anno, poi vado a Lourdes"). La sceneggiatura è ricchissima e frammentata, e passa da un momento all'altro senza pause e senza soluzione di continuità, in un susseguirsi di monologhi, flashback (cui spesso assistono, commentandoli, le versioni "attuali" dei personaggi) e istanti in cui il protagonista si rivolge direttamente al pubblico rompendo la quarta parete, dando vita a una serie di riflessioni esistenziali che forgiano non solo il personaggio (Alvy è un vero e proprio alter ego di Allen, nonché la naturale evoluzione delle figure interpretate nei film precedenti, in particolare il Sam Felix di "Provaci ancora, Sam") e il suo rapporto con i rappresentanti dell'altro sesso (ha ben due matrimoni alle spalle, prima ancora di incontrare Annie) ma anche quello con la stessa New York, "città morente" a cui fa da contraltare una California solare ma artificiale ed eccentrica. Anche il linguaggio cinematografico è decostruito attraverso l'uso occasionale dello split screen e persino una sequenza a cartoni animati (che parodizza la "Biancaneve" disneyana). Fra le battute più memorabili, quelle sul sesso: "Il sesso è stata la cosa più divertente che ho fatto senza ridere", "Non denigrare la masturbazione: è sesso con qualcuno che amo". In più, aforismi come quello (attribuito a Groucho Marx) che apre la pellicola, "Io non vorrei mai appartenere a nessun club che contasse tra i suoi membri uno come me", e la barzelletta sulle uova che la conclude ("Dottore, mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina" "Perché non lo interna?" "E poi a me le uova chi me le fa?"), con chiosa finale ("È quello che penso dei rapporti uomo-donna: e cioè che sono assolutamente irrazionali, e pazzi, e assurdi... ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova"). Diane Keaton, deuteragonista perfetta, aveva già recitato con Allen nei precedenti "Il dormiglione" e "Amore e guerra" (nonché in "Provaci ancora, Sam"). Piccole parti per Tony Roberts, Carol Kane, Paul Simon, Janet Margolin, Shelley Duvall e Christopher Walken (il fratello sciroccato di Annie), nonché camei per Jeff Goldblum, Sigourney Weaver e Truman Capote. Oltre a quello per il miglior film, la pellicola vinse anche gli Oscar per la regia, la sceneggiatura (di Allen e Marshall Brickman) e l'attrice (Keaton).

28 agosto 2022

Les carabiniers (Jean-Luc Godard, 1963)

Les carabiniers
di Jean-Luc Godard – Francia/Italia 1963
con Patrice Moullet, Marino Masè
**1/2

Visto in TV (Netflix), in originale con sottotitoli.

In un paese immaginario, in seguito alla visita di alcuni fucilieri (i "carabiniers" del titolo), due contadini – Ulysses (Marino Masè) e Michelangelo (Patrice Moullet), che vivono in una baracca con due donne, Cleopatra (Catherine Ribeiro) e Venus (Geneviève Galéa) – vengono arruolati nell'esercito del re e mandati in guerra, con la promessa che potranno saccheggiare tutto ciò che troveranno e diventare ricchi. Si macchieranno di molti delitti, ma resteranno con un pugno di mosche. Parabola surreale contro l'imperialismo e la guerra, ambientata fuori dal tempo (siamo evidentemente nel presente, ma i materiali di repertorio si riferiscono alla seconda guerra mondiale) con personaggi, luoghi e situazioni da intendersi in chiave universale. Lo stile di Godard è astratto e purificato, al tempo stesso essenziale e minimalista (una recitazione amatoriale e un aspetto quasi da film muto, con tanto di numerosi cartelli che rappresentano le lettere scritte a casa dai due soldati, i cui testi provengono da autentiche missive di soldati al fronte o di circolari dell'esercito nazista) e sofisticato (con i primi esempi di quella decostruzione del linguaggio che rappresentava una delle novità principali della Nouvelle Vague). Alla sceneggiatura ha contribuito Roberto Rossellini, da un soggetto di Beniamino Joppolo. Accolta con ostilità dal pubblico e dalla critica francese, la pellicola non è mai stata distribuita nei cinema italiani: probabilmente era troppo in anticipo sui suoi tempi. Molte le scene memorabili: la fucilazione della partigiana rivoluzionaria che cita Lenin e Majakovskij (Odile Geoffroy); le reazioni ingenue di Michelangelo al cinema, simili a quelle dei primi spettatori del muto, quale il tentativo di "entrare" nello schermo; il ritorno a casa con una valigia piena di fotografie di "ricchezze" che vengono minuziosamente catalogate ed elencate (monumenti, mezzi di trasporto, animali, donne...). La Ribeiro, che ebbe una relazione con Godard (al quale l'aveva presentata Truffaut) era una cantante impegnata, i cui brani venivano composti proprio da Moullet. La Galéa è la madre di Emmanuelle Béart.

27 agosto 2022

Street without end (Mikio Naruse, 1934)

Street without end (Kagirinaki hodo)
di Mikio Naruse – Giappone 1934
con Setsuko Shinobu, Sozo Okada
**

Visto in divx, con cartelli in inglese.

Sugiko (Setsuko Shinobu) e Kesako (Chiyoko Katori), due amiche che lavorano come cameriere in un bar, hanno la possibilità di "elevarsi" socialmente quando la prima è chiesta in moglie da Hiroshi (Sozo Okada), ricco rampollo di una famiglia nobile, e alla seconda viene offerto di diventare attrice cinematografica. Ma le cose non funzioneranno: Sugiko è guardata con sospetto e poi rifiutata dalla madre e dalla sorella di Hiroshi, che non tollerano che una ragazza lavoratrice e di bassa estrazione entri a far parte della loro famiglia; e Kesako si trova a disagio nel mondo fasullo e dorato del cinema, preferendo alla fine sposarsi con l'amico di sempre Shinkichi (Shinichi Himori). L'ultimo film muto di Naruse, nonché l'ultimo realizzato per la Shochiku prima di passare a quella che diventerà la Toho, è uno shomingeki (storie di gente comune) tratto da un serial di Komatsu Kitamura (già autore dei soggetti di alcune pellicole di Ozu del primo periodo). La storia, a dire il vero, è un po' ondivaga e sfilacciata, e ricicla insieme tanti temi standard del genere: Sugiko che vuole sacrificarsi per la famiglia, e in particolare per il fratello minore Koichi (Akio Isono), cui vuole pagare gli studi; il conflitto fra la vita moderna e le antiche tradizioni, come i valori feudali che regnano nella famiglia di Hiroshi, il che si traduce in rapporti di classe (la servitù di casa è vista dall'alto in basso, tanto che Sugiko è criticata dalla suocera perché la tratta da "uguale") e atteggiamenti sprezzanti e altezzosi. Una didascalia, a un certo punto, rende esplicito il tema centrale: "Ancora oggi, in Giappone, la nozione "feudale" di famiglia schiaccia l'amore puro dei giovani". Tutto alquanto generico, nonostante la buona prova degli attori e la regia dinamica. Ma la scena in cui Sugiko, con orgoglio, lascia Hiroshi e la sua famiglia e ribatte a testa alta alla suocera e alla sorella, è potente. Piccole parti per Chishu Ryu (il talent scout cinematografico), Ichiro Yuki (il primo ragazzo di Sugiko) e Tomio Aoki (il bambino che risponde al telefono).

25 agosto 2022

Buongiorno, notte (M. Bellocchio, 2003)

Buongiorno, notte
di Marco Bellocchio – Italia 2003
con Maya Sansa, Roberto Herlitzka
***

Rivisto in TV (Netflix).

La ventitreenne Chiara (Maya Sansa) fa parte con altri tre compagni del piccolo gruppo armato delle Brigate Rosse che il 16 marzo 1978 sequestra Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, tenendolo poi prigioniero per quasi due mesi in una stanza segreta, nascosta dietro la libreria di un appartamento romano, prima di ucciderlo. Ma nella sua immaginazione la ragazza, colta da dubbi e ripensamenti, sogna invece di liberarlo e di lasciarlo andare via per le strade della città... Liberamente tratto dal romanzo semi-autobiografico "Il prigioniero", scritto dalla brigatista Anna Laura Braghetti (di cui Chiara è l'alter ego, come i personaggi interpretati da Luigi Lo Cascio, Pier Giorgio Bellocchio e Giovanni Calcagno lo sono dei suoi compagni), una rappresentazione personale e originale di uno dei fatti di cronaca più importanti dell'Italia dei tardi anni settanta, visto interamente dalla prospettiva di una ragazza combattuta fra un'ideologia folle, cieca e astratta e sentimenti umanitari che prendono forma poco a poco, così come dal contrasto fra una vita "normale" (i pranzi in famiglia, il lavoro come archivista ministeriale, le discussioni con l'amico e collega Enzo) e le azioni quasi "utopiche" delle BR che, peraltro, sono accolte con indifferenza o ostilità dalla maggior parte della società che la circonda. Oltre alla buona prova degli attori (da segnalare Roberto Herlitzka che dà vita a un Moro pieno di dignità), la forma filmica mette in scena l'insieme grazie a un montaggio che usa materiali di repertorio di vario genere (in televisione passano i telegiornali d'epoca, i balletti della Carrà, le carrellate di primi piani e dichiarazioni di politici come Andreotti & C.; nella mente e nei sogni di Chiara, invece, si dipanano documentari d'epoca sovietici, che accompagnano la sua lettura delle "Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana", in parallelo con la lettura delle lettere che lo stesso Moro è costretto dai brigatisti a scrivere ai suoi cari e ai suoi colleghi di partito). L'atmosfera del film, in generale, è sospesa, irreale, onirica, grazie anche alla fotografia fredda di Pasquale Mari e all'uso estraniante della musica (fra i brani ricorrenti, estratti da brani dei Pink Floyd come "Shine On You Crazy Diamond" e "The Great Gig In The Sky" e dalla versione orchestrale del Momento musicale op. 94 n. 3 in fa minore di Franz Schubert). Alcuni passaggi dei dialoghi, in particolari le frasi del più "convinto" fra i brigatisti (quello interpretato da Lo Cascio), provengono da dichiarazioni e comunicati dei fondatori delle stesse Brigate Rosse. Il titolo (da un verso di Emily Dickinson) è anche quello di una sceneggiatura scritta da Enzo (Paolo Briguglia), ispirata proprio al caso Moro. Nel 2022 Bellocchio tornerà sull'argomento con un altro film, "Esterno notte".

24 agosto 2022

Listening (Kenneth Branagh, 2003)

Listening
di Kenneth Branagh – GB 2003
con Frances Barber, Paul McGann
**1/2

Visto su YouTube.

Un uomo (McGann) e una donna (Barber), ospiti di una struttura dove, per rilassarsi, è assolutamente vietato l'uso della parola, stringono un legame empatico. Cortometraggio (di 20 minuti) quasi senza dialoghi, che narra una storia d'amore accompagnata solo da sguardi e dai suoni della natura: insolitamente "minimalista" per Branagh, anche sceneggiatore, ma con un twist finale. Una pellicola delicata e al tempo stesso intensa, che distilla le sue emozioni contando proprio sull'assenza delle parole, poco nota (anche se ha vinto alcuni premi a vari festival internazionali) e di difficile reperibilità (la copia su YouTube è di scarsa qualità e con sottotitoli in greco), ma che rappresenta una pausa quanto mai benvenuta fra un filmone ipertrofico e un altro. Ottimi i due attori, attivi per lo più a teatro: ma McGann è noto anche come ottavo "Doctor Who". Nella colonna sonora c'è il secondo movimento del concerto "Emperor" di Beethoven.

22 agosto 2022

Il talento di Mr. C (Tom Gormican, 2022)

Il talento di Mr. C (The unbearable weight of massive talent)
di Tom Gormican – USA 2022
con Nicolas Cage, Pedro Pascal
**1/2

Visto in TV (Now Tv).

Insoddisfatto di come procede la sua carriera, e in crisi nella relazione con la figlia sedicenne, Nicolas Cage (sé stesso) medita di abbandonare il cinema e, nel frattempo, accetta l'invito di un ricco fan, lo spagnolo Javi Gutierrez (Pedro Pascal), che lo ospita nella sua villa a Maiorca per discutere di una sceneggiatura da lui scritta. Ma si ritroverà al centro di un vero e proprio thriller, quando due agenti dell'FBI, sospettando che Javi sia un criminale internazionale, lo convinceranno a indagare per conto loro... L'idea dell'attore in crisi che interpreta sé stesso in una pellicola parodistica e auto-ironica non è certo nuova: qualche anno fa lo aveva fatto, per esempio, anche Jean-Claude Van Damme in "JCVD". Qui Gormican (anche sceneggiatore) gioca sul fatto che Cage ha la fama di non rifiutare quasi nessun ruolo e, pertanto, di apparire in moltissimi film, spesso di qualità discutibile, nonostante nella sua carriera non siano mancati lavori belli e importanti (fra i tanti che vengono citati in un modo o nell'altro durante la pellicola, "Face/Off" di John Woo e "Cuore selvaggio" di David Lynch, il cui protagonista – una versione giovane e ribelle dello stesso Cage – appare talvolta davanti agli occhi del suo alter ego per conversare con lui, come fosse la sua coscienza). Anche se l'idea è comunque carina e il divertimento non manca (toccante l'amicizia che Nick stringe con Javi, e spassose le scene in cui i due agiscono sotto effetto dell'LSD), alla resa dei conti il film è un po' piatto e meno dirompente di come avrebbe potuto essere senza il freno a mano tirato (per non parlare della commistione fra realtà e fantasia: alla fine non è chiaro se tutto ciò cui abbiamo assistito sia vero o sia cinema). Ma l'interpretazione di Cage, che parodizza più volte sé stesso e le proprie "doti sciamaniche d'attore", è ottima, come anche quella di Pascal. Il titolo italiano, che richiama "Il talento di Mr. Ripley", è più banale e meno evocativo di quello originale.

21 agosto 2022

Rabid (David Cronenberg, 1977)

Rabid - Sete di sangue (Rabid)
di David Cronenberg – Canada/USA 1977
con Marilyn Chambers, Frank Moore
**1/2

Visto in divx.

Sottoposta a un trapianto di pelle sperimentale dopo un incidente in moto, Rose (Marilyn Chambers) diventa "portatrice sana" di un'epidemia che rende lei assetata di sangue e trasforma la gente che morde (attraverso una protuberanza sotto l'ascella) in una sorta di mostri idrofobi. Il secondo lungometraggio "mainstream" di David Cronenberg è un horror seminale che fonde insieme le tematiche dei vampiri e degli zombie, con tanto di finale apocalittico in cui l'infezione si è ormai sparsa in tutto il mondo. Se infatti la prima parte del film è ambientata nella clinica di chirurgia plastica del dottor Keloid (Howard Ryshpan), isolata in campagna, i cui esperimenti danno origine alla mutazione, nel prosieguo la vicenda si sposta in città: memorabile la scena in cui Rose "adesca" una delle sue vittime in un cinema a luci rosse. Il diffondersi dell'epidemia, con i tentativi delle autorità di contenerla (attraverso vaccini, lockdown e controlli sanitari) sembra anticipare a modo sua la recente pandemia di Covid. Ma naturalmente la pellicola si iscrive di buon diritto nel filone dell'horror (anzi, del body horror, di cui Cronenberg è un maestro) alla Romero. All'epoca fece impressione per la violenza grafica, e in effetti era in anticipo sui tempi. La protagonista (scelta dal produttore esecutivo Ivan Reitman: Cronenberg avrebbe voluto Sissy Spacek) era nota per i suoi film pornografici, come "Dietro la porta verde". Un remake nel 2019.

19 agosto 2022

House of Gucci (Ridley Scott, 2021)

House of Gucci (id.)
di Ridley Scott – USA 2021
con Lady Gaga, Adam Driver
*1/2

Visto in TV (Prime Video), con Sabrina.

La storia degli eventi che hanno circondato la celebre casa di moda italiana, simbolo di stile, fascino ed esclusività, fra gli anni settanta, quando Patrizia Reggiani (Lady Gaga), arrampicatrice sociale con pochi scrupoli, conosce e sposa Maurizio (Adam Driver), l'ultimo rampollo della famiglia Gucci, e gli anni novanta, quando, dopo aver ceduto il controllo dell'azienda a una società di investimenti, Maurizio viene ucciso da un paio di balordi su commissione dell'ex moglie. Raccontato all'insegna del connubio fra passione e potere, quasi come si trattasse di una dinastia nobile (e un po'... mafiosetta), il film appare assai diseguale: interessanti, entro certi limiti, le vicende legate agli intrighi familiari (grazie anche ad attori come Al Pacino, Jeremy Irons e Jared Leto, che interpretano rispettivamente Aldo, Rodolfo e Paolo Gucci, ovvero lo zio, il padre e il cugino di Maurizio: sono loro tre, senza alcun dubbio, la cosa migliore del film, anche se spesso gigioneggiano in modo quasi caricaturale: quando sono di scena Pacino e Leto, in particolare, sembra di assistere a una commedia) e al declino e al conseguente rilancio della casa di moda; molto meno, anche perché frettolose e poco approfondite, quelle relative al matrimonio fra Maurizio e Patrizia, al loro divorzio e infine all'omicidio, tutti momenti che si susseguono in maniera stereotipata, banale o senza la necessaria preparazione, Nonostante la durata forse eccessiva della pellicola (e alcune libertà prese nelle date e nella cronologia degli eventi), la caratterizzazione dei personaggi è ondivaga e mal focalizzata: di Maurizio non capiamo mai veramente il carattere (si fa plagiare dalla moglie come se questa fosse una sorta di Lady Macbeth? è disinteressato alle sorti dell'azienda? o è davvero una carogna pronta a tradire ed escludere i parenti?), mentre Patrizia passa da protagonista a comprimaria in un attimo, salvo tornare alla ribalta negli ultimi minuti con tendenze omicide, sia pur mosse dalla rabbia e dal rancore, che mai aveva fatto trapelare in precedenza. E se la sceneggiatura lascia alquanto a desiderare, la regia di Scott a sua volta è svogliata e un po' anonima. Buona, tutto sommato, la ricostruzione d'epoca, a livello di scenografie e costumi. Decisamente kitsch invece la colonna sonora, che mescola canzoni italiane (scelte a caso, almeno questa è l'impressione) e naturalmente, trattandosi di Italia, brani d'opera (i più famosi possibili: "Libiamo ne' lieti calici", "Largo al factotum", "La donna è mobile", l'ouverture del Barbiere, il coro a bocca chiusa della Madama Butterfly e, per buona misura, l'aria della Regina della Notte). Il kitsch, a dire il vero, è sempre in agguato quando gli americani provano a fare un film sulla moda e sullo stile europeo o ambientato nel Bel Paese (Ridley Scott, fra l'altro, aveva già dato con "Hannibal" e "Tutti i soldi del mondo"), e questo (con una Lady Gaga che assomiglia a Marisa Laurito) non fa eccezione. Eppure, nel guardarlo, c'è una sorta di guilty pleasure. In ogni caso, meglio Gaga di di Driver (che per Scott aveva già recitato nel precedente "The last duel"). Jack Huston è Domenico De Sole, consulente legale dei Gucci; Camille Cottin è Paola Franchi; Salma Hayek è la "sensitiva" Pina Auriemma; Reeve Carney è lo stilista Tom Ford.

17 agosto 2022

Irma Vep (Olivier Assayas, 1996)

Irma Vep (id.)
di Olivier Assayas – Francia 1996
con Maggie Cheung, Jean-Pierre Léaud, Nathalie Richard
***

Rivisto in divx.

René Vidal (Jean-Pierre Léaud), regista "autoriale" da tempo in declino, è in procinto di girare un remake del classico serial del 1915 "I vampiri" di Louis Feuillade (naturalmente muto e in bianco e nero, come l'originale) scegliendo come protagonista Maggie Cheung (sé stessa), popolare attrice di Hong Kong. Giunta a Parigi, Maggie si ritrova spersa in una città straniera di cui non conosce la lingua e su un set pieno di confusione, dove abbondano tensioni e litigi. Per non parlare del fatto che si trova al centro delle tensioni fra la troupe e un regista in profonda crisi, sia professionale che personale, e delle attenzioni che, secondo feroci gossip, esercita su Zoé, la costumista lesbica (un'ottima Nathalie Richard). Una sorta di "Effetto notte" per Assayas, con cui affronta svariati temi semi-autobiografici e legati allo stato della settima arte in un momento di passaggio dalle velleità autoriali delle Nouvelle Vague (di cui René è uno degli ultimi rappresentanti: non a caso il personaggo è interpretato da Léaud, celebre "alter ego" di Truffaut nel ciclo di Antoine Doinel iniziato con "I quattrocento colpi") al post-modernismo di Tarantino & Co. (esemplificato dalla macchietta del giornalista che intervista Maggie, innamorato di John Woo e del cinema di arti marziali e feroce detrattore del vecchio cinema francese, descritto come "noioso", "intellettuale" e interessato solo al "proprio ombelico": sembra di sentire le stesse critiche che si facevano all'epoca al cinema impegnato italiano, o le parole rivolte da esegeti del cinema "popolare" e "d'azione" contro quello "d'autore"; il paradosso, naturalmente, è che le due cose possono convivere, come ha dimostrato la stessa Maggie nel corso della sua carriera, passando dalle pellicole di Jackie Chan a quelle di Wong Kar-wai). Lo stile di Assayas, per forza di cose, va alla ricerca del realismo, con la macchina a mano, lunghi piani sequenza, musica diegetica, dialoghi improvvisati o che si sovrappongono fra loro in modo fluente; e non mancano momenti intensi e sorprendenti, come quello in cui Maggie, per "entrare nel personaggio", indossa il costume di Irma Vep (una tuta in lattice, aderente e completamente nera, simile a quella di Musidora nel film di Feuillade ma ispirata anche alla Catwoman del secondo "Batman" di Tim Burton) e si aggira per l'albergo dove risiede, entrando persino nella stanza di una turista americana (interpretata da Arsinée Khanjian, moglie e musa di Atom Egoyan!) e rubandole una collana. L'insieme è affascinante, nel ritrarre il caos turbolento di una produzione cinematografica destinata da subito al fallimento: alla fine René abbandonerà il progetto e gli subentrerà un altro regista, José Mirano (Lou Castel), che come prima cosa rinuncerà all'attrice cinese, sostituendola con la sua controfigura. Maggie come sempre è esotica, splendida e vulnerabile. Nel cast anche Bulle Ogier (l'amica di Zoé). Nella colonna sonora spicca "Bonnie and Clyde" cantata da Serge Gainsbourg e Brigitte Bardot. Nel 2022 lo stesso regista ha realizzato un remake autoreferenziale sotto forma di miniserie televisiva (con Alicia Vikander).

15 agosto 2022

Nodo alla gola (Alfred Hitchcock, 1948)

Nodo alla gola (Rope)
di Alfred Hitchcock – USA 1948
con James Stewart, John Dall, Farley Granger
***1/2

Rivisto in divx.

Due studenti universitari, Brandon (John Dall) e Phillip (Farley Granger), uccidono l'amico David, strangolandolo con una corda, e ne nascondono il cadavere in una cassapanca, pochi minuti prima che nel loro appartamento giungano gli ospiti invitati a cena, fra cui il padre stesso di David (Cedric Hardwicke) e sua zia (Constance Collier), la sua ragazza Janet (Joan Chandler), il suo rivale Kenneth (Douglas Dick), e soprattutto l'ex istitutore e ora amico dei ragazzi, il brillante Rupert Cadell (James Stewart), dotato di grande intelligenza e capacità di osservazione... Da un testo teatrale di Patrick Hamilton, il primo film a colori di Alfred Hitchcock è noto per una particolare caratteristica: a parte l'incipit con i titoli di testa, è girato interamente in un unico piano sequenza, ovvero con la macchina da presa che si muove ininterrottamente all'interno dell'appartamento in cui si svolge la vicenda (un attico a New York, di cui si intravede la skyline attraverso il grande finestrone), senza alcuno stacco di montaggio. La tecnologia dell'epoca, a dire il vero, rendeva impossibile tutto ciò: a differenza di film più recenti ("Arca russa", "Birdman", "1917"), che possono contare sul digitale, la durata limitata dei rulli di pellicola costringeva di fatto i cineasti a dover interrompere le riprese ogni dieci minuti (o meno): Hitchcock risolse il problema facendo in modo che l'inquadratura, ogni volta, fosse brevemente "oscurata" dalla schiena di un personaggio o da un mobile (come la suddetta cassapanca), per poi riprendere dalla stessa posizione come se non ci fosse stata alcuna interruzione. Il risultato è stupefacente, anche perché il regista inglese ha coreografato nei minimi dettagli l'azione, il movimento e la disposizione dei personaggi, l'apparire di ogni oggetto di scena nell'inquadratura al momento giusto per accrescere la tensione (come quando vediamo per la prima volta la tavola apparecchiata, o la pistola nel finale, o quando i commensali discutono fuori scena mentre la macchina da presa si sofferma sulla governante (Edith Evanson) che sta liberando la cassapanca e si appresta ad aprirla). Il tutto non fa che mantenere alta la tensione e cattura l'attenzione dello spettatore dall'inizio alla fine, impresa notevole per un film costituito da soli dialoghi, ambientato in una sola stanza e che si svolge in tempo reale!

Il soggetto, naturalmente, è ispirato al celebre caso (del 1924) dell'assassinio di Bobby Franks da parte di Leopold e Loeb, due studenti dell'università di Chicago che provarono a mettere in atto un "delitto perfetto", convinti di riuscire a scamparla dall'alto del loro "intelletto superiore" che si abbinava al disprezzo provato verso il resto della società. Anche qui Brandon teorizza l'omicidio come "forma d'arte", un privilegio riservato "ai pochi che se lo possono permettere", ovvero a coloro che, per superiorità intellettuale o culturale, si stagliano sopra le masse. Idee, di derivazione nietzschiana (il Superuomo), che gli sono state suggerite dallo stesso Rupert, per il quale però erano sono provocazioni teoriche e filosofiche, non certo da mettere in pratica nella realtà. Intelligente e pignolo, Rupert recita di fatto la parte dell'investigatore in quello che è in tutto e per tutto una inverted detective story come quelle del tenente Colombo, dove cioè il delitto viene compiuto all'inizio, davanti agli occhi degli spettatori – la prima inquadratura del film dopo i titoli è proprio quella del "nodo alla gola" del povero David! – che ne conoscono perciò ogni dettaglio e sono lasciati a interrogarsi su come gli assassini verranno scoperti. E proprio Rupert svelerà l'intrigo, tormentando con la sua sola presenza i due colpevoli (in particolare Phillip, più facile a cedere alla tensione e di fatto "succube" di Brandon, che invece è sempre, o vorrebbe apparire, sicuro di sé: tra i due studenti, fra l'altro, scorre un'evidente – anche se non esplicita – tensione omosessuale), il tutto mentre l'abile sceneggiatura semina di doppi sensi e battutine "macabre" l'intera cena, dai continui riferimenti a David (e alla sua assenza) ai retroscena sui polli, cui veniva tirato il collo. Qualche affinità (a partire dal cadavere nella cassapanca) con "Arsenico e vecchi merletti" di Frank Capra, a sua volta tratto da una commedia teatrale. Da notare i tanti riferimenti meta-cinematografici (in una scena, i commensali parlano di cinema, di James Mason, Ray Milland e Gregory Peck). In Italia il film venne distribuito anche col titolo "Cocktail per un cadavere".

13 agosto 2022

Frodo is great... Who is that!!? (aavv, 2004)

Frodo is great... Who is that!!?
di Stan Alley, Nick Booth, Hannah Clarke – Nuova Zelanda 2004
con Bret McKenzie, Jemaine Clement
**1/2

Visto su YouTube, in lingua originale.

All'uscita de "La compagnia dell'anello", il primo film della trilogia de "Il Signore degli Anelli" diretta da Peter Jackson, alcune fan stavano guardando la scena chiave del Consiglio di Elrond, quando l'hobbit Frodo Baggins si offre di portare l'anello fino a Mordor. "Frodo is great... Who is that!!?", gridarono, notando un elfo affascinante, silenzioso e misterioso, situato all'estremità dell'inquadratura. Si trattava soltanto di una comparsa, un personaggio senza nome che appare sullo schermo per pochissimi secondi (tre in tutto, pare, sommando le varie scene della sequenza). L'acronimo ricavato dalla suddetta frase gli ha fornito un nome, Figwit appunto, e un sito web realizzato per l'occasione gli ha dato popolarità all'interno del fandom tolkeniano. Un po' per gioco, Figwit è diventato oggetto di teorie, disegni, racconti e poesie: e l'attore che lo aveva interpretato, il neozelandese Bret McKenzie (membro del gruppo comico-musicale Flight of the Conchords), ha finito per essere richiamato da Jackson e dai responsabili del casting per dare vita nuovamente al personaggio, stavolta con un ruolo parlato e come sorta di tributo ai fan, in una breve scena del terzo film, "Il ritorno del re" (è lui l'elfo che fa da scorta ad Arwen mentre sta recandosi ai Rifugi Oscuri). Questo documentario ne celebra la storia, raccontando l'ascesa del "fenomeno Figwit" attraverso interviste allo stesso McKenzie, ai suoi amici e famigliari, a membri del cast e dello staff della trilogia (Jackson compreso) e a tanti appassionati della Terra di Mezzo: è uno sguardo ironico e affettuoso alla potenza dell'immaginazione, alla capacità affabulatoria che quasi dal nulla (tre secondi di un personaggio marginale, muto e senza nome!) può creare storie e mondi interi. Alcune curiosità: il padre di Bret appare a sua volta come comparsa nel "Signore degli Anelli", anche se con un ruolo ben più importante: è infatti Elendil, il padre di Isildur, che cade in battaglia contro Sauron nel prologo del primo film. E Jemaine Clement, l'altra metà dei Flight of the Conchords, è stato il sodale di Taika Waititi (anche qui presente) nel film parodistico "Vita da vampiro".

12 agosto 2022

Dagor Dagorath (aavv, 2016)

Dagor Dagorath
di [Willow Productions] – [USA?] 2016
animazione digitale
*1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Dagor Dagorath ("La battaglia delle battaglie") è il nome dello scontro finale fra il bene e il male che, secondo una profezia di Mandos, segnerà la fine del mondo nell'universo di J.R.R. Tolkien. Si tratta di una sorta di Ragnarok norreno o di Apocalisse biblica, cui si accenna soltanto di sfuggita nel "Silmarillion", avendo Christopher Tolkien eliminato i paragrafi che ne parlavano in dettaglio e che il padre aveva inserito nella versione del 1937 del manoscritto. Quei paragrafi (pubblicati poi nel quarto volume della "History of Middle-earth", inedito in Italia) formano la base del testo letto dal narratore in questo cortometraggio animato, realizzato dallo stesso studio (Willow Productions) che l'anno precedente aveva firmato un bel "Ainulindalë" (ovvero la creazione del mondo, l'altra "estremità" della cosmogonia tolkeniana). Assistiamo così alla liberazione di Melkor/Morgoth dal Vuoto Esterno e al suo ritorno su Arda, alla distruzione del Sole e della Luna e all'ultima battaglia sui campi di Valinor, con la sconfitta di Melkor a opera di un redivivo Túrin Turambar. Il recupero della luce dei Silmaril e la rinascita dei Due Alberi porterà con sé un rinnovamento del mondo, con una seconda "musica degli Ainur", e l'avvento di una nuova era. Meno affascinante visivamente del precedente lavoro (anche la CGI mostra ancor più tutte le sue pecche e appare decisamente amatoriale), il film si fa notare per alcuni riferimenti non a Arda ma al nostro mondo (si riconosce la geografia del pianeta Terra e si vedono grattacieli moderni) ma resta comunque interessante come tentativo di portare sullo schermo un evento importante ma narrativamente marginale nel corpus letterario tolkeniano. Come nel corto precedente, i credits glissano sui nomi dei registi.

Ainulindalë (aavv, 2015)

Ainulindalë
di [Willow Productions] – [USA?] 2015
animazione digitale
**1/2

Visto su YouTube.

Affascinante cortometraggio d'animazione che riesce in qualcosa che poteva sembrare impossibile, o comunque estremamente difficile: portare sullo schermo in maniera convincente l'Ainulindalë, "la musica degli Ainur", ovvero l'incipit del Silmarillion, il capitolo che – come una vera e propria "Genesi" biblica – racconta la creazione dell'universo (Eä) e di Arda (il pianeta su cui si svolge "Il Signore degli Anelli") a partire dal tema musicale introdotto da Ilùvatar (il "padre di tutti") e sviluppato dagli Ainur, progenie del suo spirito. Fra questi spicca Melkor, il più potente degli Ainur, che come Lucifero osa portare avanti una melodia propria, introducendo così una dissonanza (il male) nel creato. Quando la musica assume forma fisica, dando origine ad Arda, gli Ainur vi si stabiliranno, come sorta di divinità (e qui dalla teologia biblica si passa a un parallelo con le mitologie pagane, come quella greco-romana o quella norrena). Il breve corto si conclude con due eventi narrati nel prosieguo del "Silmarillion" ovvero la costruzione delle due lampade, Illuin e Ormal, e il risveglio dei figli di Ilùvatar, i primi Elfi. I puristi di Tolkien storceranno il naso di fronte ad alcune imprecisioni: gli Elfi infatti nascono in realtà quando le lampade erano ormai crollate, tanto da essere noti come "popolo delle stelle" perché proprio le stelle sono state la prima cosa che hanno visto al loro risveglio; e la forma di Arda mostrata nel film è sferica, quando invece, fino alla distruzione di Númenor, era un disco piatto. A parte questi (non insignificanti) dettagli, e nonostante la computer grafica molto semplice e piuttosto rozza, il breve film riesce a trasmettere in maniera accattivante quel senso di cosmogonia e di afflato epico-religioso che permea il testo di Tolkien, e potrebbe benissimo fungere da prologo per un eventuale film (o serie) basata sul "Silmarillion". Le musiche sono di Aaron e Andrew Woodhouse. Gli stessi autori (i credits dicono Willow Productions: non sono riuscito a individuare i nomi dei registi) realizzeranno l'anno seguente un sequel che racconta invece la battaglia alla fine del mondo, "Dagor Dagorath".

11 agosto 2022

One of the seven (Sampsa Kares, 2021)

Uno dei sette (One of the seven)
di Sampsa Kares – Finlandia 2021
con Saaraz, Anae, Faroni
**1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli.

Breve film amatoriale, realizzato da un gruppo di cosplayer finlandesi e britannici, ispirato al mondo de "Il Signore degli Anelli" di J.R.R. Tolkien. Due giovani nani (la pellicola non fornisce nomi, ma l'aspetto è quello di Fíli e Kíli, due dei compagni di Thorin Scudodiquercia, nella trilogia "Lo Hobbit" di Peter Jackson) si inoltrano nel Bosco Atro, alla ricerca di uno dei sette anelli dei nani, finito nelle mani del re degli elfi Thranduil. Per riaverlo indietro, gli offrono in cambio una cassetta di preziose gemme, fra cui il monile un tempo appartenuto alla sua defunta moglie: ma si tratta di un inganno... Senza dialoghi, solo con una voce narrante (che è appunto quella della moglie di Thranduil, che appare anche al re degli elfi sotto forma di visione), il corto merita un plauso per l'originalità: a differenza di quasi tutti gli altri fan movie ambientati nella Terra di Mezzo, per una volta non ci presenta storie di Raminghi o genericamente di battaglie fra uomini e orchi (forse i personaggi più facili da realizzare), ma un episodio su elfi e nani, con una trama incentrata sulla loro rivalità e su temi tipici del capolavoro tolkeniano (la corruzione del potere). Definito dagli stessi autori una "fan fiction", il film rappresenta l'anello nanico con caratteristiche identiche a quello di Sauron, dalla "voce" sussurrante al potere di tentare e corrompere il suo portatore: in realtà, pur essendo stati forgiati con l'aiuto dell'Oscuro Signore, i sette anelli dei nani non ebbero sui loro portatori la stessa influenza dei nove degli uomini o dell'Unico, per via dell'innata resilienza dei nani. I due protagonisti sono però molto giovani e, dunque, più sensibili al suo potere. La scena finale, in cui appare l'Unico Anello nelle acque del fiume Anduin (anche se si tratta di una gag), lascia poi intendere che la storia si svolga prima di quando questo cadde nelle mani di Gollum (e naturalmente prima che i sette anelli dei nani vennero distrutti o recuperati da Sauron: l'ultimo, quello di Durin, fu sottratto a Thráin, il padre di Thorin): dunque i due protagonisti non possono essere Fíli e Kíli, allora non ancora nati, ma soltanto due nani che gli somigliano. Nel complesso il corto è simpatico e realizzato con cura e passione: ogni interprete, in particolare, ha curato il proprio costume (stiamo parlando di cosplayer, dopo tutto).

Horn of Gondor (Šimon Pešta, 2020)

Horn of Gondor
di Šimon Pešta – Repubblica Ceca 2020
con Borek Belfin, Zdeněk Gloser
**

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Fan movie (di poco meno di 20 minuti) su un episodio importante della storia della Terza Era della Terra di Mezzo: circa cinquecento anni prima degli eventi de "Il Signore degli Anelli", Gondor è attaccata dai Balchoth, una tribù nomade di Carrieri provenienti da oriente. Il sovrintendente reggente Cirion invia così alcuni emissari a nord, in cerca di aiuto. Solo uno di questi, il guerriero Borondir (Belfin), riesce a raggiungere gli Eorlingas, popolo di cavalieri che accoglierà la richiesta e scenderà in battaglia contro i Carrieri. In segno di riconoscenza, Cirion donerà loro la provincia del Calenardhon, che diventerà così il regno di Rohan. Girato con pochi mezzi e pochi attori, senza effetti speciali ma con tanto entusiasmo (e grazie a una raccolta fondi su internet), il corto è gradevole e curato, sia nei costumi che nelle scene del combattimento fra Borondir e un trio di avversari (due orchi e un Balchoth) in mezzo ai boschi, scene che ricordano quelle che concludono "La compagnia dell'anello". Un altro piccolo tassello a testimonianza della vastità del fandom cinematografico tolkeniano sorto sull'onda lunga del successo dei film di Peter Jackson.

10 agosto 2022

Shadow of Mordor (Gorski, Pueringer, 2014)

Shadow of Mordor
di Sam Gorski, Niko Pueringer – USA 2014
con Billy Bussey, Clinton Jones
**

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Una pattuglia di orchi affronta un ramingo dai poteri "spettrali". Cortometraggio amatoriale ispirato al videogioco "Middle-earth: Shadow of Mordor" (in italiano "La Terra di Mezzo: L'ombra di Mordor"), ambientato nel mondo creato dalla fantasia di J.R.R. Tolkien. La trama è minimale, i combattimenti sono violenti e splatter, gli effetti digitali si affiancano a quelli artigianali e al trucco: ma pur nella sua brevità, il breve filmato (poco più di 7 minuti) riesce a costruire un'atmosfera e dei personaggi (gli orchi soprattutto, in particolare il pavido e inetto Krimp, vero e proprio protagonista; il loro avversario, invece, resta una figura misteriosa). Non conosco il videogioco (la WB Games ha "sponsorizzato" il corto), ma immagino che molti degli elementi più bizzarri qui presenti (gli strani poteri del ramingo, in grado di leggere il pensiero e "possedere" gli avversari) provengano da lì. Leggo che il personaggio in questione ha un nome, Talion, e che è in effetti il protagonista del gioco (che naturalmente non fa parte dell'universo "canonico" tolkeniano).

Beren & Lúthien (Franck Gimenez, 2012)

Beren & Lúthien
di Franck Gimenez – Francia 2012
con Damien Laulagnier, Chloé Martin
*1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

La storia di Beren e Lúthien, inizialmente narrata da J.R.R. Tolkien nei "Racconti perduti" e nel poema "Lai di Leithian", è una delle vicende più importanti e affascinanti fra tutte quelle contenute nel "Silmarillion", talmente cara allo stesso Tolkien che i nomi dei due personaggi sono incisi sulla tomba dello scrittore e di sua moglie nel cimitero di Wolvercote, a Oxford. Ambientata durante la Prima Era della Terra di Mezzo, nel Beleriand, narra l'amore fra un uomo e un'elfa: Beren, figlio di Barahir della casa di Bëor, e Lúthien, da lui poi chiamata Tinúviel, figlia di Thingol signore del Doriath e della maia Melian. Dalla loro unione, la prima in assoluto fra un mortale e un'immortale, discenderanno sia la razza dei Mezzelfi (come Elrond e Arwen) sia la stirpe dei re di Númenor (e quindi dei Dúnedain, fino ad Aragorn). Questo fan movie di 20 minuti, opera di un gruppo di cineasti francesi, ne narra praticamente solo il primo incontro: e come molti di questi film amatoriali, purtroppo (anche a causa della penuria di mezzi), è privo di epica fantasy, ridotta a un pugno di persone che corre o combatte in mezzo a un bosco. Assente ogni afflato mitologico, la cosa migliore che ha da offrire è il sonoro, che costruisce quasi da solo l'intera atmosfera del film.

9 agosto 2022

Born of hope (Kate Madison, 2009)

Born of Hope: The ring of Barahir
di Kate Madison – GB 2009
con Christopher Dane, Beth Aynsley
**1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli.

Quando gli orchi di Sauron si spingono verso sempre più nord, in quello che una volta era il regno di Arnor, attaccando i villaggi dei Dúnedain con l'obiettivo di porre fine alla stirpe di Elendil e uccidere l'ultimo erede di Isildur, il capitano Arathorn organizza la difesa dall'insediamento di Taurdal, dove risiede suo padre Arador. Nel contempo, conosce Gilraen, figlia del guerriero Dirhael, e se ne innamora. I due si sposeranno, e il loro unico figlio Aragorn diventerà la nuova "speranza" dei Dúnedain (proprio Estel, "speranza", sarà il nome affibbiato al bambino durante la sua permanenza a Imladris, per nasconderne l'identità). Forse il più ambizioso (e tuttora il migliore) fra tutti i fan movie ispirati agli scritti di J.R.R. Tolkien (segnatamente, all'appendice A de "Il Signore degli Anelli"), realizzato con competenza, passione e grande amore per la materia trattata. L'ampio cast, le scenografie, i costumi, la lunga durata (71 minuti, dunque un vero e proprio lungometraggio), le scene di battaglia, i tanti dettagli e riferimenti tolkeniani (non buttati lì come strizzatine d'occhio, ma parte integrante del world building), e soprattutto la descrizione e la psicologia dei personaggi, anche quelli minori – come Elgarain, la giovane guerriera tragicamente innamorata (ma non ricambiata) di Arathorn, interpretata dalla stessa regista – contribuiscono a renderlo un prodotto altamente professionale e perfettamente godibile a sé stante. Buoni anche gli effetti speciali, tanto quelli "artigianali" (il trucco degli orchi) quanto quelli digitali (la breve scena con il troll). Inoltre, a differenza di altri prodotti simili (come "La caccia a Gollum", uscito lo stesso anno, il cui regista ha collaborato qui come operatore di macchina), il film appare molto meno derivativo rispetto alla trilogia di Peter Jackson e sembra avere invece una propria identità. Fra i pochi difetti, la qualità amatoriale (ma comunque accettabile) della recitazione. Parlando di dettagli tolkeniani: nel film compaiono Elladan e Elrohir, i due figli di Elrond (e fratelli di Arwen) che erano invece assenti nella trilogia jacksoniana. E Arathorn scopre che gli orchi, su ordine di Sauron, sono alla ricerca di un misterioso anello, giungendo alla conclusione che si tratti dell'anello di Barahir, indossato da Arador e tramandando da padre in figlio come simbolo dei re di Númenor. Nel film nulla smentisce questa ipotesi, ma naturalmente non si può non sospettare che Sauron fosse invece già alla ricerca dell'Unico Anello, quello che Isildur stesso gli aveva strappato via e che in quel momento era custodito da Gollum nelle caverne sotto le Montagne Nebbiose.

8 agosto 2022

La caccia a Gollum (Chris Bouchard, 2009)

La caccia a Gollum (The hunt for Gollum)
di Chris Bouchard – GB 2009
con Adrian Webster, Patrick O'Connor
**

Visto su YouTube.

Fan movie (di 39 minuti) ambientato nel mondo del "Signore degli Anelli", basato su un episodio raccontato nelle appendici del romanzo di Tolkien che si colloca nel periodo fra la festa di compleanno di Bilbo e la partenza di Frodo dalla Contea. In cerca di notizie sull'anello magico di Bilbo, Gandalf il grigio (Patrick O'Connor) incarica il ramingo Grampasso, ovvero Aragorn (Adrian Webster) di rintracciare Gollum, la creatura che l'aveva posseduto prima dell'hobbit. Aragorn si mette dunque in viaggio: e dopo aver incontrato Arithir (Arin Alldridge), un altro ramingo del Nord, e affrontato una pattuglia di orchi, trova finalmente Gollum, lo cattura e lo porta a Bosco Atro, dove è interrogato da Gandalf e infine lasciato sotto la custodia degli Elfi silvani. Il seguito lo conosciamo: Gandalf si recherà nella Contea per spingere Frodo (e Sam) a partire per Gran Burrone. Distribuito gratuitamente su YouTube, dove si trova anche una versione doppiata in italiano, e pur essendo tecnicamente un lavoro amatoriale (è stato girato in Galles e in Inghilterra da un gruppo di appassionati con un budget di sole 3000 sterline), il film colpisce per l'ammirevole qualità della produzione: l'estetica, la fotografia e la musica si rifanno indubbiamente al mood della trilogia di Jackson, così come i costumi, il trucco (gli orchi in particolare), gli effetti speciali digitali (riservati a Gollum nell'ultima inquadratura) e la scelta degli attori look-alike (ottimo Gandalf, meno convincenti Aragorn e Arwen). I toni della narrazione sono cupi, complessivamente coerenti con l'immaginario e la collocazione storico-geografica dell'episodio narrato. Peccato solo per la sceneggiatura alquanto debole, che non approfondisce più di tanto gli eventi e i personaggi, e per l'incapacità (o la mancanza di volontà) di proporre qualcosa che non sia derivativo dalla trilogia di Jackson, che fa sì che il risultato sia di interesse quasi esclusivo per gli appassionati di quest'ultima.

6 agosto 2022

Spencer (Pablo Larraín, 2021)

Spencer (id.)
di Pablo Larraín – GB/Germania 2021
con Kristen Stewart, Timothy Spall
***

Visto in TV (Prime Video).

Tre giorni della vita di Lady Diana (interpretata da un'ottima Stewart), quando la tormentata principessa del Galles, in occasione delle festività natalizie del 1991, trascorse da tutta la famiglia reale britannica nella tenuta della regina a Sandringham nel Norfolk, prese la decisione di divorziare dal principe Carlo. La ricostruzione degli eventi, naturalmente, è immaginaria (il sottotitolo del film è "Una favola tratta da una tragedia vera"), con l'attenzione del regista (e dello sceneggiatore Steven Knight) tutta proiettata sul personaggio principale, ritratto come infelice e depressa, sull'orlo del suicidio e della follia (le compare spesso davanti il fantasma di Anna Bolena, della quale sta leggendo una biografia, che la convince a tagliare i ponti con il marito e l'intera famiglia reale). Attorno a lei, un mondo fatto di formalità, di tradizioni, di controllo (ogni abito che deve indossare in ogni momento della giornata è stato già accuratamente scelto e preparato per lei), dove "non c'è futuro, e il passato e il presente sono uguali": una vera e propria prigione tanto all'interno quanto all'esterno (dove già impazzano quei fotografi e paparazzi che causeranno la sua fine, anche se non è quella la materia di questo film). Dopo "Neruda" e, soprattutto, "Jackie" (con cui ha moltissimo in comune, nel soggetto, nella forma e nei contenuti), un altro atipico biopic per il talentuoso Larraín, che sfoggia qui una regia quasi "kubrickiana" nella sua perfezione, con ampio ricorso alla steadycam, ai carrelli, alla cura di ambienti e primi piani. Il risultato è sobrio e solenne, apparentemente freddo (come la temperatura nel palazzo, reale o metaforica) ma in realtà che scava in modo tagliente e attento nella psicologia del personaggio. Anche Diana, in qualche modo, è legata al passato: a pochi passi da Sandringham si erge l'antica residenza degli Spencer, e uno spaventapasseri nei campi sfoggia il vecchio giaccone di suo padre, che la principessa scambierà con il proprio abito prima di fuggire dal palazzo insieme ai figli, in quello che sembra in tutto e per tutto il lieto fine di una favola (anche riappropriarsi del cognome "Spencer" sarà un po' un modo per ritrovare sé stessa e prendere le distanze dalla famiglia reale): per l'occasione, anche l'interessante ma angosciante colonna sonora di Jonny Greenwood, a base di musica da camera e sonorità sperimentali, lascia il posto a una canzone moderna, "All I need is a miracle" di Mike and the Mechanics. Stewart (nominata all'Oscar) è la mattatrice, ma attorno a lei si muovono attori come Timothy Spall (il maggiore Gregory, "sorvegliante" della tenuta), Sally Hawkins (Maggie, la cameriera personale di Diana), Jack Farthing (il principe Carlo) e Sean Harris (il capo cuoco).

5 agosto 2022

Frankenstein (J. Searle Dawley, 1910)

Frankenstein
di J. Searle Dawley – USA 1910
con Augustus Phillips, Charles Stanton Ogle
**

Visto su YouTube.

Frankenstein (Phillips), giovane studioso convinto di aver compreso i misteri della vita, intende creare "l'essere umano perfetto": ma il risultato del suo esperimento è un mostro (Ogle) dall'aspetto ributtante e deforme, che perseguita lui e la sua novella sposa Elizabeth (Mary Fuller). Forse il primo adattamento cinematografico del celebre romanzo di Mary Shelley, o quantomeno il più antico di cui si ha notizia. Girato completamente in interni (e in soli tre giorni!) da Dawley (anche sceneggiatore) negli studi Edison del Bronx, ne è naturalmente una versione molto edulcorata che, anche per via della breve durata (un rullo, ovvero 11-16 minuti a seconda del frame rate) e del linguaggio rudimentale (senza montaggio narrativo o primi piani, e con cartelli che preannunciano il contenuto di ciascuna scena), appare privo di sottigliezza o di qualsivoglia profondità. Assente ogni contestualizzazione geografica o storica, nel film il "male" è tale soltanto perché il mostro è brutto e deforme, non perché compia chissà quali nefandezze. Lo stesso Frankenstein non mostra particolare pentimento né crescita, salvo felicitarsi nel finale per la scomparsa spontanea del mostro (notevole però la scelta di farlo svanire mentre si rifletteva in uno specchio, lasciando così il dottore di fronte alla propria immagine riflessa). L'aspetto di Ogle, che pare un demonietto, non è iconico come sarà quello di Boris Karloff nella versione di James Whale del 1931 che fisserà definitivamente il personaggio e il suo aspetto nell'immaginario collettivo, ma resta la cosa più interessante di questa versione. Suggestiva anche la sequenza della "creazione" del mostro, che avviene chimicamente in un mastello. Per il resto, la stessa casa produttrice cercò di tranquillizzare gli spettatori affermando che l'adattamento intendeva focalizzarsi sugli elementi "mistici e psicologici" del racconto, anziché su quelli più prettamente orrorifici, eliminando cioè ogni possibile "situazione repulsiva", cosa che non evitò alcune critiche per l'eccessiva cupezza.

4 agosto 2022

Rescued from an eagle's nest (J. S. Dawley, 1908)

Rescued from an eagle's nest
di J. Searle Dawley – USA 1908
con Miss Earle, D.W. Griffith
**

Visto su YouTube.

Mentre il padre tagliaboschi è al lavoro e la madre è in casa, un bambino piccolo viene rapito da un'aquila, che lo porta nel suo rifugio fra le montagne. Avvisato dalla madre, il padre si cala con una corda lungo la parete di roccia fino al nido dell'uccello, lo affronta in combattimento (!) e lo uccide, salvando il figlio. Girato negli studi Edison di New York (alternando fondali dipinti, come la capanna fra le montagne e lo spuntone di roccia, con scene in esterni, quelle del bosco in cui i taglialegna abbattono gli alberi), questo corto è degno di nota soprattutto per due elementi: l'aquila meccanica, interessante "effetto speciale artigianale", e la presenza, nei panni del protagonista, di David Wark Griffith, all'esordio come attore cinematografico, sei mesi prima di passare alla regia e di diventare uno degli innovatori più importanti dei primi decenni della settima arte. Griffith, aspirante autore teatrale, venne scritturato quasi per caso, dopo essersi presentato da Edison come sceneggiatore. Il soggetto del film non è particolarmente originale: i rapimenti di bambini erano una costante nel cinema degli esordi (si pensi al britannico "Rescued by Rover"), e lo stesso esordio come regista di Griffith, "The adventures of Dollie", avrà una trama simile. J. Searle Dawley dirige sotto la supervisione di Edwin S. Porter, all'epoca capo di produzione degli studi Edison, talvolta accreditato anche come direttore della fotografia o addirittura come co-regista.

2 agosto 2022

Terrore sul Mar Nero (N. Foster, 1943)

Terrore sul Mar Nero (Journey into fear)
di Norman Foster [e Orson Welles] – USA 1943
con Joseph Cotten, Dolores del Río
*1/2

Visto in TV (RaiPlay).

In viaggio a Istanbul con la moglie (Ruth Warrick), l'ingegnere americano Howard Graham (Joseph Cotten) scopre di essere l'obiettivo di un sicario (Jack Moss) al soldo di un nazista (Eustace Wyatt), che intende impedire che la ditta per la quale lavora fornisca armi alla Turchia. Per proteggergli la vita, il colonnello dei servizi segreti turchi Haki (Orson Welles) gli impone di viaggiare su un piccolo battello mercantile diretto al porto georgiano di Batumi, da dove si imbarcherà per gli Stati Uniti. Ma a bordo della nave, fra i variopinti passeggeri, si trovano anche l'assassino e il suo mandante... Fiacco thriller spionistico ambientato in tempo di guerra, dai toni vagamente hitchcockiani, con un Cotten (anche sceneggiatore) che sembra un po' un pesce fuor d'acqua, in balia degli avvenimenti che si svolgono intorno a lui. Il principale motivo di interesse è dato dalla presenza di Orson Welles, che inizialmente avrebbe dovuto dirigerlo: sarebbe stato il suo terzo film da regista, dopo "Quarto potere" e "L'orgoglio degli Amberson". Il protrarsi della lavorazione di quest'ultimo gli impedì di farlo, e lo stesso Welles suggerì Foster (con cui aveva lavorato nel progetto incompiuto "It's all true") come suo sostituto. Non accreditato, il buon Orson ha comunque contribuito alla sceneggiatura e allo storyboard, nonché diretto alcune sequenze, come quella di apertura che presenta il killer prima dei titoli di testa (una novità per l'epoca) e quella nel finale dello scontro sul cornicione dell'albergo, sotto la pioggia. In ogni caso, la produzione intervenne pesantemente in fase di montaggio, ottenendo scarsi risultati al botteghino. Nel 2005 è emersa una versione più fedele alla visione originale di Welles. Del tutto inutile il personaggio femminile, la ballerina interpretata da Dolores del Rio che si ritrova a sua volta sulla nave insieme a Graham. Nel cast anche Jack Durant, Agnes Moorehead, Everett Sloane, più vari membri della Mercury Productions, la società dello stesso Welles. Esiste una versione colorizzata.