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13 aprile 2023

La clessidra (Wojciech Jerzy Has, 1973)

La clessidra (Sanatorium pod klepsydrą)
di Wojciech Jerzy Has – Polonia 1973
con Jan Nowicki, Tadeusz Kondrat
**1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Un uomo, Józef (Jan Nowicki), arriva in treno in una remota clinica dove è ricoverato il padre morente, Jakub (Tadeusz Kondrat). L'edificio è cadente e sembra abbandonato. Un medico gli spiega che in quel luogo il tempo scorre in modo diverso e si comporta in maniera imprevedibile, a volte "in ritardo", a volte all'incontrario. Per questo motivo il padre, che sarebbe già morto, in realtà è ancora in vita. E lo stesso Józef incomincia a rivivere momenti ed episodi della sua esistenza passata, dall'infanzia all'adolescenza (quando il padre gestiva il negozio di tessuti di famiglia nel ghetto ebraico), oltre a sogni e visioni popolate da personaggi bizzarri ed esotici e da complesse e artificiali ricostruzioni del passato (che a volte coinvolgono manichini di cera di personaggi famosi)... Da un romanzo di Bruno Schulz (in realtà una raccolta di racconti, integrati qui da spunti provenienti da altre opere dell'autore), un film stranissimo e visionario, a suo modo affascinante, anche se a tratti davvero troppo surreale: come in una sorta di "Alice nel paese delle meraviglie", nel vagabondare di Józef nella clinica si succedono scenari, personaggi e discorsi in cui si fatica a trovare un filo logico, se non quello del tempo, dei ricordi e del passato (che sia il passato intimo e personale, quello famigliare, o quello legato alla storia delle nazioni europee e colonialiste: e non mancano ovviamente accenni all'Olocausto, essendo il protagonista ebreo e lo stesso Schulz ucciso dalla Gestapo). L'atmosfera si fa spesso metafisica, e il tutto ricorda alcune cose che faranno Tarkovskij e Gilliam. Regia (con molti piani sequenza), fotografia e scenografie hanno una qualità pittorica e teatrale, con echi delle fantasmagorie. Premio della giuria al festival di Cannes.

21 aprile 2022

La Gomera (Corneliu Porumboiu, 2019)

La Gomera - L'isola dei fischi (La Gomera)
di Corneliu Porumboiu – Romania/Fra/Ger 2019
con Vlad Ivanov, Catrinel Marlon
***

Visto in divx.

A La Gomera, isola delle Canarie, esiste una bizzarra lingua fatta solo di fischi, simili quelli degli uccelli, sviluppata dai pastori locali per comunicare a grandi distanze. Cristi (Vlad Ivanov), poliziotto corrotto della squadra narcotici di Bucarest, immanicato con Zsolt (Sabin Tambrea), imprenditore che lavora per conto di una banda di trafficanti di droga, vi si reca per impararla: gli servirà infatti per comunicare con i complici dell'uomo e organizzarne la fuga, senza farsi intercettare dai colleghi che ormai sospettano di lui. Ma intrighi e doppi giochi sono in agguato... Insolito e interessante thriller/neo-noir poliziesco, sfaccettato e complesso, con una struttura narrativa costruita su una serie di flashback e divisa in otto capitoli – ciascuno intitolato a un diverso personaggio – non in ordine cronologico. Il tema del linguaggio e della comunicazione, a partire dalla strana lingua dei fischi (il "silbo gomero", che esiste realmente), si appoggia su una vicenda caratterizzata da una ragnatela di relazioni fra i vari personaggi, tutti con una notevole dose di ambiguità e dove il bene e il male si fondono fra loro: dal protagonista stesso, poliziotto corrotto ma "buono" (e soprattutto silenzioso e impenetrabile: non abbiamo mai accesso ai suoi pensieri), alla bella Gilda (Catrinel Marlon), femme fatale amante/complice di Zsolt, di cui anche Cristi si innamora; dalla spregiudicata procuratrice Magda (Rodica Lazar), superiore di Cristi, che non esita a usare metodi discutibili pur di raggiungere i propri scopi, al boss della droga Paco (Agustí Villaronga) e al suo sottoposto Kiko (Antonio Buíl), fino all'inquietante concierge (István Teglas), appassionato di opera e proprietario di un motel al centro di diverse scene. Linguaggio, infatti, non significa solo parole, o fischi: è anche musica (fra i brani ricorrenti ci sono "Casta Diva" dalla "Norma", l'aria di Barbarina dalle "Nozze di Figaro", e la Barcarola dai "Racconti di Hoffmann" di Offenbach), e naturalmente cinema (innumerevoli le citazioni (meta)filmiche: il nome stesso di Gilda, lo spezzone di "Sentieri selvaggi" in cui viene usata un'altra lingua dei fischi!, il fatto che lo showdown finale avvenga in uno stabilimento cinematografico abbandonato, l'allusione alla scena di "Psyco" nella doccia). Citazione anche per un classico del cinema noir rumeno, "Un commissario accusa" di Sergiu Nicolaescu. Il finale forse è un po' disgiunto e trascinato. Anche se perfettamente guardabile a sé stante, il film è di fatto un sequel/spin-off del precedente "Politist, adjectiv" (2009) di Porumboiu, in cui Cristi aveva conosciuto il giovane Zsolt.

15 settembre 2021

11 minuti (Jerzy Skolimowski, 2015)

11 minuti (11 minut)
di Jerzy Skolimowski – Polonia/Irlanda 2015
con Wojciech Mecwaldowski, Paulina Chapko
*1/2

Visto in TV (RaiPlay), in originale con sottotitoli.

Diverse storie, con protagonisti numerosi personaggi, scorrono parallele nell'arco di 11 minuti (dalle 17.00 alle 17.11) in una grande città (il film è stato girato a Varsavia, ma in parte anche a Dublino), prima di convergere tutte in un finale... esplosivo. La principale vede Anna (Paulina Chapko), aspirante attrice, recarsi nella camera d'albergo di Richard (Richard Dormer), ambiguo produttore/regista che vuole approfittarsi di lei, mentre suo marito (Wojciech Mecwaldowski) cerca in ogni modo di fare irruzione nella stanza. Seguiamo anche, fra gli altri, un professore di liceo costretto a riciclarsi come venditore di hot dog (Andrzej Chyra), suo figlio che lavora come corriere (Dawid Ogrodnik), un giovane ladruncolo (Lukasz Sikora), un anziano pittore (Jan Nowicki), una coppia di scalatori (Piotr Głowacki e Agata Buzek), una ragazza punk con il suo cane (Ifi Ude), una dottoressa in ambulanza (Anna Maria Buczek). Il messaggio è che nel casuale brulicare della città, le esistenze di tanti sconosciuti possono collidere o influenzarsi l'un l'altra nei modi più impensati. Un incontro o un rapporto di cause ed effetto è sempre dietro l'angolo, così come elementi in comune possono legare insieme persone che conducono vite separate anche se abitano fianco a fianco. Le varie storie, come le vite delle persone, sfiorano e nascondono temi complessi, negativi (gelosia, disadattamento, droga, pornografia, pedofilia) o positivi (amore, parentele, gentilezza, arte), con alcuni elementi che condividono all'insaputa di tutti (la "macchia scura" nel cielo, che si ritrova nel disegno del pittore o nel "pixel morto" sugli schermi di sorveglianza della polizia, che a loro volta nel finale riuniscono tutte le immagini in un unico, caleidoscopico e confuso ritratto della vita). Peccato che l'insieme convinca poco: anche se la regia, variegata e multiforme, ricorre a varie tecniche di ripresa (si pensi al collage di video che apre la pellicola), sembra più di trovarsi di fronte a un esercizio di stile che a un vero film. E gran parte delle vicende rimangono senza una conclusione soddisfacente, anche se proprio questo era il punto (il caso domina le esistenze, rendendo inutile ogni pianificazione o tentativo di dar loro una svolta).

9 agosto 2021

Corpo e anima (Ildikó Enyedi, 2017)

Corpo e anima (Testről és lélekről)
di Ildikó Enyedi – Ungheria 2017
con Géza Morcsányi, Alexandra Borbély
***1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Assunta come addetta al controllo qualità in un mattatoio industriale, Mária (Alexandra Borbély) è precisa, metodica, con una memoria di ferro, ma anche sola e introversa ai limiti del patologico. Quando scopre che lei e il direttore commerciale del mattatoio, Endre (Géza Morcsányi), fanno misteriosamente ogni notte lo stesso sogno, in cui si vedono come due cervi (maschio e femmina) in una foresta ricoperta di neve, la ragazza comincia a pensare di aver trovato l'anima gemella. Ma le differenze fra i due, e in particolare le barriere sociali e protettive di lei (che non sa riconoscere o esprimere le emozioni, non ha mai avuto esperienze romantiche e ha paura di un contatto troppo ravvicinato), renderanno difficile l'avvicinamento... Il titolo “Corpo e anima”, in questa originalissima pellicola romantica, può essere letto in diversi modi, al di là dell'evidente legame fra i due aspetti nell'individuo e nella coppia di innamorati: se Endre è ferito nel corpo (ha un braccio paralizzato), Mária lo è nell'anima (è praticamente autistica, oltre che ancora ferma nello sviluppo infantile, tanto che continua a frequentare lo psichiatra pediatrico da cui andava da bambina). Il sogno in cui si incontrano sotto forma di animali, però, testimonia di un rapporto con la parte naturale, istintiva e selvatica che nessuno dei due ha abbandonato, ancora più preziosa se si considera che lavorano in un mattatoio, dove gli animali vengono uccisi e macellati (ed Endre, nel colloquio con i nuovi assunti, si preoccupa che questi non prendano la cosa con leggerezza e non dichiarino spavaldamente che questo tipo di lavoro non li turbi). Resta da compiere il passo successivo: trasferire l'armonia del sogno, in cui si vive felici e in equilibrio con sé stessi, con il partner e con la natura (anche in contesti difficili, come l'inverno che offre poco cibo agli animali), nel mondo reale, accettando i propri sentimenti e superando le barriere, psichiche o fisiche che siano. Lo stile del racconto, asciutto, rarefatto e minimalista, è sorprendentemente efficace, anche grazie a due interpreti ottimi e anticonvenzionali, entrambi all'esordio come protagonisti in un film. La regista, che non girava un lungometraggio da quasi vent'anni (il precedente, “Simon Magus”, era del 1999), ha dichiarato di aver voluto “raccontare una storia d'amore passionale e travolgente nel modo meno passionale e spettacolare possibile”. Orso d'Oro al festival di Berlino.

7 marzo 2021

Domenica alle 6 (Lucian Pintilie, 1966)

Domenica alle 6 (Duminică la ora 6)
di Lucian Pintilie – Romania 1966
con Dan Nuțu, Irina Petrescu
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

I giovani Radu (Nuțu) e Anca (Petrescu) si incontrano per caso a un ballo e si innamorano, prima di scoprire che fanno entrambi parte della stessa organizzazione clandestina e che proprio lei era la ragazza che lui doveva incontrare "domenica alle 6". La loro storia d'amore si dipana in parallelo alle vicende della resistenza che si oppone all'oppressione fascista in Romania (siamo negli anni della seconda guerra mondiale), anzi spesso ha il sopravvento... Pellicola che segna l'esordio dietro la macchina da presa per il regista teatrale Lucian Pintilie, che con i suoi film successivi (su tutti "La ricostituzione", "La bilancia" e "Terminus Paradis") racconterà la storia della Romania da inediti e intelligenti punti di vista. In questo primo film è già evidente una certa sofisticazione del linguaggio cinematografico, con notevoli influenze del cinema francese della Nouvelle Vague (Godard e Truffaut), ma anche con una sua cifra personale e originale: la regia dinamica con i primi piani ravvicinati, l'uso della camera a mano, il montaggio non lineare (numerose sequenze ripetute, come la carrellata lungo il palazzo di ringhiera, la soggettiva nel corridoio buio di un edificio diroccato o le scene alla stazione ferroviaria, anticipano momenti successivi), per non parlare dell'ottimo uso del sonoro o della direzione degli attori. L'attenzione è tutta sui personaggi e sui loro sentimenti, mentre il contesto storico non è approfondito più di tanto (la storia potrebbe benissimo svolgersi ai giorni nostri, anzi simbolicamente è proprio così: la società repressiva in cui i protagonisti si muovono riecheggia quella contemporanea del regime comunista e della Securitate; non a caso prima di ottenere l'autorizzazione a girare Pintilie dovette lottare a lungo con la censura). Nonostante la tragicità della vicenda, si respira un'aria fresca e leggera, tipica degli amori giovanili, con personaggi che riescono ad abbinare la lotta politica clandestina (anche a costo della vita) con giochi ed esplorazioni, segno del loro anelito di libertà. Graziela Albini interpreta Maria, la donna che fa da "collegamento" fra i due innamorati all'interno della resistenza.

1 settembre 2020

Opera senza autore (F. Henckel von Donnersmarck, 2018)

Opera senza autore (Werk ohne Autor)
di Florian Henckel von Donnersmarck – Germania 2018
con Tom Schilling, Sebastian Koch
***

Visto in divx alla Fogona.

La vita di un giovane pittore, Kurt Barnert (Schilling), raccontata attraverso le trasformazioni della Germania nell'arco di 30 anni: dalla Dresda del 1937 durante l'ascesa nazista, alle tragedie della seconda guerra mondiale, all'avvento della DDR socialista, alla fuga nella BRD del boom economico. La sua vicenda si intreccia con quella del professor Carl Seeband (Koch), primario di ginecologia che si compromette con il regime nazista, entra nelle SS e collabora al programma di eugenetica, per poi riciclarsi durante il comunismo. Ma al centro della lunga pellicola (tre ore), ancora più degli eventi storici (che fanno solo da sfondo, fornendo il contesto – la tela – sulla quale dipingere) c'è il concetto di arte e il suo legame con l'identità, la ricerca dell'espressione artistica del proprio "io", temi che mi hanno fatto pensare a un'altra pellicola che – nonostante lo stile completamente diverso – affronta lo stesso argomento, "Achille e la tartaruga" di Takeshi Kitano. Al terzo film e dopo il passo falso di "The tourist", Henckel von Donnersmarck torna, se non ai livelli del suo lavoro d'esordio, "Le vite degli altri" (da cui riprende uno degli interpreti, Sebastian Koch), quantomeno alle stesse ambizioni e alla sua qualità nel ritrarre alcuni periodi delicati ma importanti della storia tedesca. Incoraggiato nelle proprie velleità artistiche sin da piccolo dalla giovane zia Elisabeth (che, per la sua pazzia, verrà internata e poi "soppressa" in un campo di concentramento), il protagonista si interessa all'arte moderna, considerata "degenerata" dai nazisti perché mostra un lato deforme e perturbante della realtà. "Questo sapresti farlo anche tu", dice – davanti a un Kandinsky – una guida tedesca a un Kurt ancora bambino. Le cose non migliorano sotto il comunismo, quando Kurt comincia a frequentare l'accademia di belle arti: ogni personalismo è scoraggiato e l'unico stile che è permesso seguire è il realismo socialista, una forma che celebra il popolo ma annulla l'individuo, rendendo gli artisti indistinguibili gli uni dagli altri. Sarà anche per sfuggire a quella che ritiene "pura decorazione", e alla ricerca della verità artistica, che Kurt – con la sua novella sposa Ellie (Paula Beer), figlia di Seeband – fuggirà all'ovest poco prima della costruzione del muro, nel 1961. Si stabilirà a Düsseldorf, epicentro delle correnti più innovative dell'arte moderna tedesca, ma anche qui farà fatica a trovare la propria strada. Dopo molti tentativi sempre più forzatamente originali e bizzarri, tornerà alle basi, ispirandosi a quelle fotografie amatoriali che, a loro modo, esprimono più "verità" di ogni dipinto artificioso e programmatico. E curiosamente troverà il proprio "io" in uno stile artistico in cui i critici, invece, vedono una semplice copia del mondo, la rinuncia a esprimere la personalità del pittore e il suo vissuto autobiografico, creando così "opere senza autore" (e lui glielo lascia credere, mentendo spudoratamente durante la conferenza stampa di presentazione della sua prima esposizione). Il soggetto è ispirato alla vita reale del pittore Gerhard Richter e alla sua biografia firmata da Jürgen Schreiber. Oliver Masucci interpreta l'eccentrico insegnante d'arte Antonius van Verten, a sua volta ispirato a Joseph Beuys. Ottime la regia e la confezione, anche se la fotografia di Caleb Deschanel (peraltro nominata all'Oscar) pecca forse per un eccesso di correzione digitale.

2 agosto 2020

Good bye, Lenin! (Wolfgang Becker, 2003)

Good bye, Lenin! (id.)
di Wolfgang Becker – Germania 2003
con Daniel Brühl, Katrin Sass
**1/2

Rivisto in TV, con Sabrina.

Colpita da infarto nell'ottobre del 1989, poco prima della caduta del muro di Berlino, Christiane Kerner (Katrin Sass) finisce in coma e si risveglia otto mesi più tardi, quando la sua adorata Germania Est non esiste più. Per difenderla da uno shock che potrebbe risultarle fatale, il figlio Alex (Daniel Brühl) si ingegna allora in ogni modo per farle credere che la DDR e il socialismo siano ancora più in salute che mai, conservando il vecchio arredamento della casa, confezionando falsi telegiornali (insieme all'amico Denis, aspirante cineasta), procurandosi quotidiani e confezioni di alimenti uguali a quelli di un tempo (a partire dai cetrioli tanto amati dalla madre, ormai fuori commercio)... Enorme successo di pubblico per una pellicola che gioca con il sentimento della "Ostalgie", ovvero il nostalgico ricordo per la Germania orientale prima della riunificazione, che fra le altre cose (come il commercio di memorabilia) ha generato anche una vasta produzione culturale di cui questo film è forse il titolo più emblematico. Al di là del tema del rapporto fra madre e figlio, con questi che giunge a "creare" o a plasmare un intero mondo pur di farla vivere in una "bolla protetta" (l'inverso, cioè, di quanto accade di solito nel periodo dell'infanzia), e delle riflessioni sulla verità e sulla relatività della realtà che percepiamo (in linea con la disinformazione e l'occultamento, attività tipiche dei regimi totalitari), l'aspetto più interessante è proprio la prospettiva personale di un evento storico: e come tale il film è persino più gradevole da vedere oggi che alla sua uscita, quando i fatti narrati erano ancora troppo vicini e dunque lo si poteva considerare come una semplice commedia di costume, in fondo nemmeno così divertente (ricordo che quando lo vidi per la prima volta rimasi deluso perché non si rideva più di tanto). Interessanti i molteplici riferimenti ai "miti" dell'est (a partire dal cosmonauta tedesco Sigmund Jähn, che Alex idolatrava da bambino, passando per i cartoni animati locali, le automobili Trabant, le marche e i prodotti alimentari), e divertenti i capovolgimenti di ruoli che il ragazzo è costretto a inventare per giustificare alcuni evidenti cambiamenti agli occhi della madre (la Coca-Cola che in realtà si scopre essere una "bevanda socialista", l'arrivo continuo di "profughi dall'Ovest"). Il titolo del film si riferisce alla celebre scena in cui Christiane è salutata da una gigantesca statua di Lenin portata via da un elicottero, che richiama evidentemente l'altrettanto celebre incipit de "La dolce vita" di Fellini o forse una sequenza analoga de "La doppia vita di Veronica" di Kieślowski. Numerose anche le citazioni del cinema di Kubrick (da "2001", menzionato esplicitamente da Denis, ad "Arancia meccanica" nella scena accelerata con musica di Rossini) e di Billy Wilder (l'arrivo della Coca-Cola a Berlino Est ricorda "Uno, due, tre!"). La colonna sonora è di Yann Tiersen. Nonostante il successo di questa pellicola (uno dei maggiori del cinema tedesco), il regista Wolfgang Becker è praticamente scomparso dalle scene, e da allora ha girato solo un altro lungometraggio (nel 2015).

27 luglio 2020

Curtiz (Tamás Yvan Topolánszky, 2018)

Curtiz (id.)
di Tamás Yvan Topolánszky – Ungheria 2018
con Ferenc Lengyel, Evelin Dobos
**

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Nel 1942 il regista di origini ungheresi Michael Curtiz si accinge a girare a Hollywood una pellicola che cambierà le storia del cinema e, forse, le sorti della guerra in corso in Europa: "Casablanca". Mentre lotta con la produzione, cerca di trovare un finale adeguato, tiene a bada le ingerenze del responsabile della commissione governativa, Mr. Johnson (Declan Hannigan), che si aggira sul set per assicurarsi che il film non veicoli valori anti-americani, e contemporaneamente fa ogni sforzo per far uscire la sorella dall'Ungheria in orbita nazista, Curtiz deve fare i conti con l'inatteso arrivo della figlia di primo letto Kitty (Evelin Dobos), che non vedeva da 19 anni e che si è procurata un ruolo di comparsa pur di poter incontrare il padre. Fra biopic e metacinema, un "dietro le quinte" del film più famoso di tutti i tempi: ma dei vari Bogart, Bergman e Lorre intravediamo soltanto a tratti le figure, sfocate sullo sfondo per brevi istanti o addirittura fuori inquadratura, per focalizzarci invece sulle contraddizioni intime e il carattere spigoloso di Curtiz, cinico e donnaiolo, dispotico sul set e idiosincratico verso gli attori, ma incerto e insicuro nel profondo, raccontato attraverso il suo rapporto con la figlia, che cerca inutilmente di comprenderlo, e con l'antagonistico Johnson, che dubita della sua fedeltà alla causa americana (il film che sta girando dovrebbe mandare un messaggio di speranza e stimolare i giovani a combattere, ma il regista non sembra condividere la fiducia che si possa vincere la guerra). Raffinato nella forma (la fotografia è in bianco e nero, salvo colorarsi occasionalmente con la luce rossa che indica che sul set si sta girando, o con il fascio blu del proiettore), e con una colonna sonora jazz e sincopata, il film è ingessato e pretenzioso, anche se non privo di stimoli e di retroscena sulla lavorazione di "Casablanca" (come il fatto che la sceneggiatura venisse continuamente riscritta sul momento, che la scena dell'aeroporto fu girata con un falso aereo minuscolo e dei nani vestiti da meccanici, che il finale – rappresentato come un momento di presa di coscienza sociale e civile da parte del regista – fu scelto solamente all'ultimo istante). Scott Alexander Young è il produttore Hal B. Wallis, Jozsef Gyabronka l'attore S.Z. Sakall. Da notare le frecciatine a Trump (si dice che Ronald Reagan si è arruolato perché vuole rendere l'"America great again", e si parla di "alternative facts"). In una scena si vede Lucas, il figlio di Bess (Nickolett Barabas), la seconda moglie di Curtiz, mentre disegna astronavi e personaggi di "Star Trek": anche se è improbabile che abbia ideato lui il design dei vulcaniani e dell'Enterprise, Lucas fu in effetti uno degli scrittori e dei registi che lavorarono alla serie di Roddenberry.

26 luglio 2020

Il tesoro (Corneliu Porumboiu, 2015)

Il tesoro (Comoara)
di Corneliu Porumboiu – Romania 2015
con Toma Cuzin, Adrian Purcarescu
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Quando il vicino di casa Adrian, in difficoltà economiche, gli chiede di aiutarlo ad assumere un tecnico con un metal detector per andare alla ricerca di un presunto tesoro, sepolto anni prima dal nonno nel giardino di una villa di campagna, Costi accetta senza pensarci troppo. Per lui è un modo di vivere un'avventura simile a quelle dei libri (come "Robin Hood") che legge al figlioletto ogni sera. Una pellicola dai tempi dilatati e dai dialoghi realistici che convivono con una cifra assurda e iperreale (quasi alla Kaurismäki), dove la ricerca del tesoro si trasfigura in chiave esistenzialista ma, al contempo, conserva tutta la sua minimalistica concretezza – la meticolosa scansione del terreno con il metal detector, il lungo scavo, le questioni burocratiche (ogni rinvenimento deve essere comunicato alla polizia, nel caso di trattasse di oggetti legati al "patrimonio nazionale") – sfiorando dunque temi personali, politici, economici, famigliari. Quasi ogni scena, per quanto possa sembrare semplice o insignificante – dal capo del protagonista che trova più plausibile che lui abbia una relazione extraconiugale piuttosto che vada a caccia di un tesoro, al finale in cui l'uomo soddisfa il desiderio "romantico" e adolescenziale del figlioletto di vederlo tornare con una cassetta piena di oro e gemme – possiede come chiave di lettura l'elogio della fantasia e del perseguimento dei propri sogni rispetto all'accettazione di una realtà grigia e burocratica. E proprio nella soddisfazione (o nella condivisione) di queste aspettative la pellicola stessa assume un significato profondo, che la eleva al di sopra della sua narrazione lineare e senza fronzoli.

23 settembre 2019

Atlantis (Valentyn Vasyanovych, 2019)

Atlantis
di Valentyn Vasyanovych – Ucraina 2019
con Andriy Rymaruk, Liudmyla Bileka
***

Visto al cinema Anteo, con Viviana, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

L'Ucraina del 2025, "un anno dopo la fine della guerra" (siamo dunque sei anni nel futuro), è un paese ormai devastato e senza speranza: la terra e l'acqua sono irrimediabilmente inquinate, le strade sono inutilizzabili perché imbottite di mine antiuomo, e ogni possibilità di tornare a una vita normale sembra preclusa. Dopo aver assistito al suicidio di un suo ex commilitone, sofferente per la sindrome da stress post-traumatico, il reduce Sergiy (Rymaruk), operaio di una fabbrica siderurgica in via di chiusura, conosce una ragazza (Bileka) che lavora come volontaria per recuperare i cadaveri dei soldati – ucraini e russi – rimasti abbandonati durante il conflitto. Un film lento, pesante, cupo e angosciante, a tratti difficile da guardare (si pensi alle sequenze delle autopsie dei cadaveri ormai putrefatti o in decomposizione), del tutto privo di colonna sonora e composto da lunghe sequenze con la macchina da presa in posizione fissa. Eppure è di rara intensità e potenza espressiva, capace di restare con lo spettatore per molto tempo dopo la visione, con un suo fascino e una sua ragion d'essere nel denunciare le (possibili) conseguenze di un conflitto fratricida dove la prima a pagare a caro prezzo è la terra stessa, ridotta a un ammasso di strade desolate e di fanghiglia grigia. Vasyanovych dirige con mano ferma e consapevole, e ogni inquadratura è accuratamente studiata, quasi un quadro (di videoarte) a sé stante, dalle riprese di una sepoltura vista attraverso una telecamera a infrarossi, a un fugace incontro amoroso in un camion rimasto fermo sotto una pioggia sferzante e battente. Il titolo fa riferimento a un'altra "terra perduta" e andata ormai distrutta (Atlantide): vogliamo che la storia si ripeta? Un'Atlantide, si badi bene, sommersa da quell'acqua che qui, onnipresente in molte scene, ha un ruolo invece protettivo e salvifico.

Estasi (Gustav Machatý, 1933)

Estasi (Extase, aka Symphonie der Liebe)
di Gustav Machatý – Cecoslovacchia 1933
con Hedy Lamarr, Aribert Mog
***

Visto al cinema Beltrade, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Trascurata dal noioso marito (Zvonimir Rogoz) sin dalla prima notte di nozze, la giovane sposa Eva chiede il divorzio. E nel frattempo ha una fugace storia d'amore con un aitante ingegnere che lavora alla costruzione di una strada. Girato nel 1933 in tre versioni (rispettivamente in ceco, in francese e in tedesco), presentato alla Mostra di Venezia nel 1934 e ora restaurato (nella versione in lingua ceca) per l'edizione del 2019, questo film è passato alla storia per quello che viene considerato il primo nudo integrale di un'attrice protagonista sul grande schermo: quello di Hedy Lamarr, che ai tempi era diciottenne e si firmava ancora col suo vero nome (Hedy Kiesler). Si dice che suo marito Fritz Mandl, spinto dalla gelosia, cercò di acquistare tutte le copie della pellicola per distruggerle, ma inutilmente. Pur sonorizzato (e musicato: la colonna sonora è pressoché ininterrotta), stilisticamente il film è praticamente un muto, visto come ricorre quasi esclusivamente alle immagini per raccontare la sua storia. E in ogni inquadratura abbondano allusioni e metafore di ogni tipo (la natura che si risveglia di pari passo ai sensi della protagonista, fra campi di grano e cavalli selvaggi, per esempio). Se l'incipit può ricordare certe commedie di ambito domestico come quelle di Lubitsch, la parte centrale è pervasa da un erotismo assai spinto e suggestivo, grazie alla bellezza della Lamarr e, naturalmente, alla celebre e succitata scena, quella in cui la ragazza, mentre fa il bagno in un fiume, rimane nuda perché il suo cavallo è scappato portandosi via i suoi vestiti, e viene soccorsa da Adam (Aribert Mog). La regia elegante, la fotografia avvolgente e la leggerezza con cui scorrono le situazioni lo rendono estremamente gradevole ancora oggi: peccato solo per il finale spurio e "sovietico", con l'esaltazione del lavoro, che c'entra poco con tutto il resto. Naturalmente il soggetto "scandaloso" suscitò tentativi di censura in diversi paesi (anche perché, contrariamente alla morale e alle consuetudini dell'epoca, l'adulterio di Eva non è punito né rappresentato come riprovevole in alcun modo: si tratta semplicemente del naturale sfogo di una ragazza rimasta senza amore), ma diede grande fama internazionale al regista (già noto per un precedente film muto su temi simili, "Erotikon" del 1929) e soprattutto alla bella (e geniale) attrice, che qualche anno più tardi si trasferirà a Hollywood in fuga dalla Germania nazista.

29 gennaio 2019

Treni strettamente sorvegliati (Jiří Menzel, 1966)

Treni strettamente sorvegliati (Ostře sledované vlaky)
di Jiří Menzel – Cecoslovacchia 1966
con Václav Neckár, Josef Somr
***

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli inglesi.

Il giovane Milos Hrma (Václav Neckár), discendente di una famiglia di “fannulloni”, comincia a lavorare come apprendista nella stazione ferroviaria di una piccola cittadina in Boemia. Siamo nel 1945, quando il paese è sotto l'occupazione tedesca: ma gli echi della seconda guerra mondiale giungono a malapena in un microcosmo dove non capita quasi niente, se non i (tragi)comici episodi di vita quotidiana che coinvolgono il protagonista e i suoi colleghi. Fra un passaggio di treno e l'altro, Milos frequenta la sua coetanea Masa, ma scopre di soffrire di eiaculazione precoce e per questo motivo tenta il suicidio. Su suggerimento di un dottore (interpretato dal regista stesso), chiede al più esperto collega (e dongiovanni) Hubicka di presentargli una donna che possa insegnargli a fare l'amore: la scelta cadrà su Viktoria Freie, partigiana che li coinvolgerà nel sabotaggio a un treno delle SS, carico di armi, di passaggio nella stazione. Fra coming-of-age e commedia, ironia ed erotismo (notevole la scena in cui Hubicka "timbra" le cosce e il sedere della giovane telegrafista), satira – apparentemente in chiave antitedesca ma in realtà diretta al regime comunista (la commissione disciplinare) – e dramma, un "piccolo" gioiellino dall'ambientazione circoscritta e dai personaggi vivaci e realistici, fra i migliori esempi della cosiddetta Nová vlna (Nouvelle vague) cecoslovacca. Bohumil Hrabal, autore del romanzo originale, collaborò all'adattamento con il regista, al primo lungometraggio dopo alcuni corti. La pellicola vinse l'Oscar per il miglior film straniero. In Italia è stata distribuita anche con i titoli "Quando l'amore va a scuola" e "Presto, datemi una donna!".

25 gennaio 2019

Im Juli (Fatih Akin, 2000)

Im Juli (Im Juli.)
di Fatih Akin – Germania 2000
con Moritz Bleibtreu, Christiane Paul
**

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

All'inizio dell'estate Daniel (Moritz Bleibtreu), insegnante liceale di Amburgo, parte in auto per recarsi a Istanbul, dove spera di incontrare Melek (İdil Üner), una ragazza da poco conosciuta ma di cui crede di essersi innamorato. Durante il tragitto attraverso l'Europa (Austria, Ungheria, Romania, Bulgaria), ricco di disavventure e di inconvenienti, si scoprirà invece affezionato a Luglio (Christiane Paul), sua occasionale compagna di viaggio. Commedia romantica on the road, spigliata e rocambolesca, che inizia in media res (con Daniel sperduto in Bulgaria che chiede l'autostop a İsa (Mehmet Kurtuluş), un bizzarro individuo con un cadavere nel bagagliaio) per poi raccontare in flashback gli antefatti e tirare le fila del discorso nel finale. I personaggi attraversano un'Europa caricaturale e sopra le righe, per raggiungere quella Turchia che è anche la patria di origine del regista tedesco: i due paesi, e il legame fra essi, saranno al centro della maggior parte delle sue pellicole (da “La sposa turca”, la più celebre, a “Ai confini del paradiso”). Da notare la simbologia del sole, onnipresente nel film (che si apre con un'eclissi), affiancata a quella della luna. Fatih Akin stesso interpreta la guardia di confine rumena, mentre suo fratello Cem è la guardia al confine turco. Il titolo originale (che significa “A luglio”, il mese in cui si svolge la storia ma anche il nome della coprotagonista) comprende anche il punto alla fine.

23 settembre 2018

Tramonto (László Nemes, 2018)

Tramonto (Napszállta)
di László Nemes – Ungheria 2018
con Juli Jakab, Vlad Ivanov
***

Visto al cinema Palestrina, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Nel 1913, la giovane orfana Írisz giunge a Budapest con l'intenzione di farsi assumere nel prestigioso negozio di cappelli Leiter, fondato dai suoi genitori (morti in un incendio quando lei aveva solo due anni) e ora gestito dall'ambiguo signor Brill. Scoprirà di avere anche un fratello, lo sfuggente e misterioso Kálmán, bollato da tutti come un assassino e a capo di un gruppo di rivoltosi che intendono ribellarsi contro il potere austriaco, sabotando anche i festeggiamenti per l'anniversario del negozio stesso. Il secondo lungometraggio di Nemes è soltanto all'apparenza un thriller caotico e filosofico: in realtà, il piano individuale è uno specchio di quello sociale, politico e storico: e il continuo senso di smarrimento della protagonista, che non sa da che parte stare, che rimane invischiata in una ragnatela di enigmatici intrighi e che perde la propria identità (finendo per identificarsi con il fratello, anche nel ruolo di capo della rivolta), esemplifica la situazione dell'Ungheria, formalmente parte dell'impero austro-ungarico ma di fatto soggiogata ai voleri dei sovrani di Vienna (qui i regnanti e gli ufficiali di lingua tedesca fanno il bello e il cattivo tempo, e sono un concentrato della corruzione dell'etica e della moralità di fine impero). Il negozio di cappelli Leiter, espropriato e usurpato, è così una metafora della nazione magiara (sottomessa e privata delle proprie radici): per riconquistare la propria identità e la libertà sarà prima necessario spazzare via tutto con una rivolta violenta. Il continuo parallelo fra il contesto personale e quello storico arricchisce a dismisura un film già complesso di suo, ricco esteticamente e stilisticamente: c'è chi ha criticato il fatto che la regia ricalchi la trovata del lavoro precedente di Nemes, "Il figlio di Saul", che incollava la macchina da presa al protagonista (sempre in primo piano o visto di nuca, seguito con lunghi piani sequenza) e lasciava sfocati e confusi gli eventi sullo sfondo. In effetti, se lì serviva a mantenersi isolati dall'orrore, qui la scelta sembra meno giustificata, ma in realtà illustra tutta l'incertezza e lo smarrimento in un bivio epocale, il "tramonto" (come da titolo) di un mondo che dietro l'eleganza e la raffinatezza della moda e i fasti dell'impero nascondeva una tragedia pronta a scoppiare. Anzi, l'esplosivo era già piazzato, bastava soltanto accendere la miccia. Non a caso la pellicola termina mostrandoci una trincea della prima guerra mondiale, l'evento che segnerà compiutamente la fine di quel "mondo di ieri" tanto caro a Stefan Zweig: una trincea dove la stessa Írisz rivedrà forse Kálmán e si ricongiungerà finalmente con la propria parte mancante, quella parte di cui – in assenza appunto del fratello – aveva dovuto farsi carico. Forse Nemes tira troppo la corda (la lunghezza del film è un po' eccessiva), ma gli spunti, come detto, sono notevolissimi: uno su tanti, il distorcimento della fiaba di Cenerentola (il principe che sceglie la più bella delle ragazze al ballo per portarla con sé a palazzo, e le fa addirittura togliere le scarpe, anche se non certo per metterle una scarpetta di cristallo). Nella colonna sonora spicca il quartetto "La morte e la fanciulla" di Schubert.

20 luglio 2018

Al fuoco, pompieri! (Miloš Forman, 1967)

Al fuoco, pompieri! (Hoří, má panenko)
di Miloš Forman – Cecoslovacchia 1967
con Jan Vostrčil, Josef Sebánek
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

In una piccola cittadina fervono i preparativi per l'annuale ballo dei pompieri, al quale sono invitati gran parte degli abitanti del villaggio. Ma nulla va per il verso giusto: il comitato locale dei vigili del fuoco fa fatica a selezionare le ragazze per il concorso di bellezza per eleggere la reginetta del ballo, un incendio scoppia in paese distruggendo la casa dove vive un anziano, e i premi della lotteria che per solidarietà sarebbero dovuti andare a quest'ultimo vengono rubati prima dell'estrazione finale. E alla fine scompare anche il regalo che i pompieri avevano preparato per il loro capo in pensione. Il terzo lungometraggio di Forman, nonché il suo primo film a colori, pur ricordando in parte alcune sequenze dei lavori precedenti ("L'asso di picche" e "Gli amori di una bionda"), quelle appunto incentrate su balli e feste di paese, è nel complesso essenzialmente una farsa di impianto corale, ricolma di scenette e gag comiche che si prendono gioco in maniera anarchica un po' di tutto e di tutti. Forman dichiarò di aver voluto realizzare semplicemente una commedia, e che eventuali messaggi o metafore erano lasciati all'intepretazione degli spettatori. In effetti il film non piacque agli apparati statali, che vi lessero una cinica allegoria del paese (in balia di una classe politica incapace o disonesta), ma nemmeno ai veri vigili del fuoco, che lo videro letteralmente come una presa in giro dei propri reparti. Venne invece più apprezzato all'estero, forse perché la leggerezza e l'ironia, proveniendo da un paese dell'Europa dell'Est, furono salutati con piacere. Il titolo originale significa letteralmente "Fuoco, ragazza mia". Si tratta dell'ultimo film girato da Forman in patria: il regista si trovava a Parigi, in trattativa con alcuni distributori, quando i sovietici invasero Praga, e decise di rimanere in esilio.

21 giugno 2018

Cold war (Paweł Pawlikowski, 2018)

Cold war (Zimna wojna)
di Paweł Pawlikowski – Polonia/F/GB 2018
con Tomasz Kot, Agata Kulesza
***1/2

Visto al cinema Colosseo, con Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Nella Polonia del dopoguerra, il musicista Wiktor (Tomasz Kot), fondatore di una compagnia di canto e ballo che recupera e porta in scena i motivi e le danze popolari del paese, si innamora – ricambiato – di Zula (Joanna Kulig), una delle ragazze della compagnia. Quando lui, di fronte alla sempre più ingombrante invadenza del regime comunista (che ne condiziona anche le scelte artistiche), sceglierà di fuggire in Occidente, comincerà un periodo di separazioni e di ricomposizioni, di allontanamenti e riavvicinamenti, prima che entrambi scoprano che la loro anima risiede in patria e che a Parigi, nonostante la maggiore libertà, la loro relazione è a rischio... Girando (come il precedente "Ida") in 4:3 e in un purissimo bianco e nero, e ispirandosi liberamente alla vita dei propri genitori (alla cui memoria dedica il film), Pawlikowski racconta una sentitissima e travagliata storia d'amore che si dipana dal 1949 al 1964 dai due lati della cortina di ferro. Ma il tema non è quello dell'ideologia o della politica. La pellicola parla soprattutto di identità: quella profonda delle radici contadine del paese, che si riflette nei canti e nei balli raccolti da Wiktor e Irena nelle campagne della Polonia, che i burocrati del partito vogliono alterare e "sporcare" con la propaganda di regime; e quella dei singoli individui, che la smarriscono quando si trovano all'estero. Per questo motivo prima Zula e poi Wiktor (che sarà arrestato come dissidente) sceglieranno di far ritorno volontariamente in Polonia. La perdita dell'anima e dell'identità può avvenire sotto diversi aspetti: da quello artistico (i canti spontanei lasciano il posto a canzonette farlocche e costruite a tavolino, il folk si contamina con il jazz e il kitsch, con il culmine che si raggiunge nell'esibizione "messicana" di Zula con tanto di parrucca) a quello spirituale (la ragazza sposa un commerciante italiano per poter espatriare, e poi un burocrate del partito per aiutare Wiktor a uscire di prigione: tutti matrimoni che per lei non hanno comunque valore, visto che non sono stati celebrati in una chiesa, a differenza di quello che i due protagonisti inscenano da soli in una cattedrale diroccata nel finale). Premiato a Cannes per la miglior regia, il film è diretto in modo magistrale ed elegante, segue i suoi personaggi lungo gli anni (attraverso occasionali dissolvenze in nero) senza sbavature o forzature, e anzi rievocando alla perfezione l'epoca in cui si svolgono le vicende e rendendo vive sia le scene ambientate in Polonia che quelle, quasi da Nouvelle Vague, in una Parigi multiculturale e sbarazzina. Magnifiche, fra le tante, la sequenze che mostrano la chiesa diroccata sotto la neve (quasi tarkovskiana) o quella che, all'improvviso, spunta dalla penombra durante un giro in battello sulla Senna; ma anche la danza forsennata e da ubriaca di Zula in un night club parigino, che contrasta con quelle, pulite e coreografate, sui palcoscenici dei festival del regime. Nel cast anche Agata Kulesza (la collega di Wiktor), Borys Szyc (il rappresentante del partito), Cédric Kahn (il discografico Michel) e Jeanne Balibar (la poetessa Juliette).

22 aprile 2018

Gli amori di una bionda (M. Forman, 1965)

Gli amori di una bionda (Lásky jedné plavovlásky)
di Miloš Forman – Cecoslovacchia 1965
con Hana Brejchová, Vladimír Pucholt
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

La giovane Andula (Brejchová) lavora come operaia in una fabbrica di scarpe in un paesino di provincia nella Cecoslovacchia. Proprio per via della fabbrica, che impiega solo personale femmninile, nel paese c'è una forte sproporzione fra il numero di ragazze e quello di ragazzi, cosa che preoccupa non poco il direttore, che si adopera per far giungere nel luogo, in occasione di una festa, un drappello di militari. Andula e due sue amiche sono corteggiate da tre di questi, ma li rifiutano perché troppo vecchi e brutti (si tratta di riservisti, non di reclute). In compenso la ragazza trascorre la notte con il giovane pianista Milda (Pucholt), giunto da Praga proprio per suonare alla festa: e la settimana successiva, illusa di iniziare una relazione con lui, fa le valigie e lo raggiunge in città, presentandosi a casa dei suoi genitori senza preavviso... Il secondo lungometraggio girato in patria da Forman prosegue il discorso iniziato con il primo ("L'asso di picche"), ovvero la confusione delle giovani generazioni che si affacciano in un mondo di cui ignorano le regole (non solo perché è quello dell'età adulta e delle interazioni sociali, ma anche perché è caratterizzato da un regime politico che si affianca alle vecchie tradizioni familiari). Rispetto al film precedente, siamo più lontani dalla commedia (anche se non mancano lunghe scenette comiche o surreali, ricche di gag, come quelle che vedono protagonisti i tre soldati o i genitori di Milda) e più vicini al (neo)realismo, con toni a tratti da Nouvelle Vague. E naturalmente il film non può non concludersi con un velo di amarezza, di delusione e di disillusione. L'ottima regia di Forman, l'attenzione psicologica ai personaggi (e la simpatia verso di loro) e la concisione narrativa (l'intero film si svolge praticamente in due serate: quella della festa in paese e quella in cui Andula si reca a Praga) lo rendono un piccolo gioiellino, candidato anche all'Oscar come miglior film straniero. Nel cast perlopiù attori non professionisti (Hana Brejchová era la sorella minore della moglie di Forman, Jana, anch'essa attrice), con qualche eccezione: Vladimír Mensík è uno dei tre riservisti, mentre Vladimír Pucholt aveva già recitato nel primo film del regista.

16 aprile 2018

L'asso di picche (Miloš Forman, 1964)

L'asso di picche (Cerny Petr)
di Miloš Forman – Cecoslovacchia 1964
con Ladislav Jakim, Pavla Martinkova
**1/2

Visto su YouTube, per ricordare Miloš Forman.

Il lungometraggio d'esordio di Forman mette in scena, fra timidezza e sfacciataggine, le prime esperienze di vita adulta del sedicenne Petr (Jakim). Assunto come sorvegliante in un supermercato per controllare che i clienti non rubino, il ragazzo fatica a soddisfare le esigenti aspettative di un padre (Jan Vostrcil) che proietta tutte le sue speranze su di lui. E nel frattempo deve destreggiarsi nei rapporti sociali, corteggiando in maniera goffa e senza successo la coetanea Paula (Martinkova) e stringendo amicizia con un ragazzo forse ancora più imbranato di lui, il muratore Cenda (Vladimír Pucholt). Forman dirige con un approccio leggero, quasi da commedia, come suggerisce anche il commento musicale (che richiama l'incipit dello "Schiaccianoci" di Tchaikovsky, senza mai andare però oltre le prime note). Fra tante scenette semi-comiche o comunque "sbarazzine" (Petr che segue per strada un cliente del negozio che sospetta di furto, o che spia le ragazze che si spogliano nei camerini), ne risulta un ritratto generazionale di giovani dalle idee confuse, lasciati a sé stessi nella scoperta del mondo da adulti incapaci di fornire le necessarie indicazioni (i genitori o i datori di lavoro sono buoni solo a rimproverare o a fare retoriche ramanzine). Il gap fra le generazioni – tema che Forman continuerà ad esplorare nei film successivi – è mostrato sotto ogni punto di vista, dalla musica all'approccio con il sesso. Il titolo originale ("Petr il nero") è il nome di un gioco di carte, corrispondente al nostro "Uomo nero".

12 settembre 2017

The teacher (Jan Hrebejk, 2016)

The Teacher - Una lezione da non dimenticare (Ucitelka)
di Jan Hřebejk – Slovacchia/Rep. Ceca 2016
con Zuzana Mauréry, Peter Bebjak
**1/2

Visto al cinema Arlecchino, con Sabrina e Chiara.

In una scuola di Bratislava, nella (Ceco)slovacchia dei primi anni ottanta, ancora in pieno regime comunista, giunge una nuova insegnante di letteratura e di russo. Costei, vedova che vive da sola, comincia a farsi fare piccoli favori domestici dai genitori dei ragazzi cui insegna (ciascuno in base alla propria professione: lavoretti e riparazioni in casa, forniture di cibarie, e così via), in cambio di aiuti e "spintarelle" ai ragazzi. I pochi genitori che rifiutano vedono i risultati scolastici dei loro figli crollare inesorabilmente. Ma a rimetterci, paraddosalmente, non sono soltanto gli studenti da lei sfavoriti ma anche quelli avvantaggiati, la cui preparazione scolastica – che non dipende più dai loro meriti nello studio – inizia a decadere... Un piccolo film incentrato su un paradossale caso di "socialismo reale" applicato, con cui la coppia Jan Hřebejk (regista) e Petr Jarchovský (sceneggiatore), sodali da lungo tempo, vuole far riflettere sulla corruzione, l'abuso di potere e i paradossi di un sistema in cui lo scambio di favori a vicenda (qualcosa che apparentemente sembra a fin di bene) finisce col scardinare i reali valori e alterare il benessere delle persone. La struttura narrativa ricorda in parte il classico "La parola ai giurati" di Lumet (l'intera storia è ricostruita durante un'assemblea dei genitori, durante la quale i pochi che si ribellano al sistema cercano di convincere i restanti a unirsi a loro nel firmare un reclamo contro l'insegnante), ma anche il recente film del rumeno Mungiu "Un padre, una figlia" (nell'esplorare i limiti morali di quello che i genitori sono disposti a fare per ottenere vantaggi per i propri figli). Peccato che proprio la figura centrale della vicenda, l'insegnante, sia poco approfondita. È il tipico film in cui l'idea alla base, decisamente interessante, sovrasta l'esecuzione. Gradevole la colonna sonora "da camera" di Michal Novinski. Incomprensibile come l'edizione italiana di un film slovacco abbia il titolo in inglese.

6 marzo 2017

Vi presento Toni Erdmann (Maren Ade, 2016)

Vi presento Toni Erdmann (Toni Erdmann)
di Maren Ade – Germania 2016
con Sandra Hüller, Peter Simonischek
***

Visto al cinema Eliseo, con Sabrina.

Per ravvivare la vita della figlia Ines (Hüller), donna in carriera che si è trasferita a Bucarest per lavorare come consulente aziendale, l'insegnante in pensione Winfried Conradi (Simonischek), un uomo che non ha mai perduto il senso dell'umorismo e il gusto per gli scherzi, si presenta da lei e dai suoi colleghi con le sembianze dello stravagante e sedicente coach e psicologo Toni Erdmann. I suoi modi eccentrici e i suoi buffi comportamenti riusciranno a far capire alla conformista Ines che non è il caso di prendere tutto sul serio e di sacrificare ogni cosa (e in particolare la felicità) per il lavoro. Il cinema tedesco non è certo famoso per le commedie, e dunque questa (che pure, dietro le follie a volte nonsense del protagonista, cela sottotesti anche malinconici e drammatici) giunge un po' a sorpresa nelle nostre sale, dopo essere comunque stata pluripremiata in diversi festival. Nonostante la lunghezza (oltre due ore e quaranta!) e il sospetto di essere eccessivamente costruito, il film scorre senza stancare, fra momenti comicamente spiazzanti e surreali (uno su tutti, la festa nudista a casa di Ines) e altri più densi ed emotivamente pregnanti (la canzone di Whitney Houston). I temi trattati forse non sono originalissimi (il rapporto fra padre e figlia, l'aridità del mondo del lavoro, le dinamiche fra colleghi, l'importanza di trovare un piccolo spazio per sé stessi), ma la pellicola li affronta con uno sguardo aperto e un tipo di narrazione che si prende i suoi giusti tempi, senza affrettare o banalizzare l'argomento. E l'idea di mostrare il gioco e il travestimento come unico punto di contatto fra generazioni che non si parlano più, è a suo modo geniale. In più, il film suggerisce anche riflessioni su come il capitalismo e la globalizzazione stiano impattando sull'ecosistema del lavoro in Europa (la ditta per cui lavora Ines ha il compito di guidare la delocalizzazione di alcune aziende in Romania, senza che i manager vogliano assumersene personalmente la responsabilità). Ottime le interpretazioni. Hollywood starebbe già pensando a un remake (con Jack Nicholson).