30 marzo 2020

The kingdom (Lars von Trier, 1994)

The Kingdom - Il regno (Riget)
di Lars von Trier – Danimarca 1994
con Ernst-Hugo Järegård, Kirsten Rolffes
***1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

"Il suolo sotto l'ospedale del Regno anticamente era una palude, dove i tintori venivano a inumidire i loro grandi teli, che poi stendevano per la sbiancatura. In seguito qui fu costruito il grande ospedale, e gli sbiancatori furono sostituiti da medici e ricercatori, geni della scienza e della tecnologia, che per coronare i loro lavoro chiamarono questo luogo "il Regno". Essi erano i padroni della vita: ignoranza e superstizione non avrebbero più potuto scuotere i bastioni della scienza. Forse fu la loro spiccata arroganza che li portò a negare la spiritualità. E adesso è come se il freddo e l'umidita fossero tornati. Si cominciano a vedere piccole tracce di stanchezza negli edifici, non più così solidi e moderni. Nessun essere vivente ancora lo sa, ma la porta del Regno sta per aprirsi."

Miniserie televisiva in quattro episodi (divenuti cinque nell'edizione italiana, con un montaggio differente), ambientata nel Rigshospitalet di Copenhaghen, grande e antico complesso ospedaliero soprannominato Riget ("il Regno"), dove si verificano strani fenomeni paranormali che turbano le già complicate dinamiche interne fra i vari medici e i loro pazienti. Una geniale commistione fra horror e medical fiction, con ampie pennellate di humour nero e inquietudini sparse a piene mani da un Lars von Trier in stato di grazia, che si presenta poi di persona sui titoli di coda di ogni episodio (indossando lo smoking che appartenne a Carl Theodor Dreyer, suo mentore spirituale) per commentare ironicamente l'accaduto e salutare gli spettatori. L'ambientazione claustrofobica e circoscritta, i misteri che si dipanano, i tormentoni, le storie incrociate dei numerosi personaggi (tutte caratteristiche adattissime a una serie tv) lo distinguono nettamente da una pellicola cinematografica, ma il ritmo serrato, la regia mai banale, la fotografia sgranata e virata sul color seppia gli donano comunque una qualità superiore a a un prodotto televisivo medio. Per non parlare dell'atmosfera malsana e onirica. In ogni caso, la miniserie è stata distribuita nei paesi di lingua inglese sotto forma di un unico film (di oltre quattro ore), mentre il DVD italiano la presenta solo divisa in capitoli, nelle due versioni italiana (in 5 episodi) e danese (in 4). In un intreccio di sottotrame che pian piano convergono verso uno sconvolgente finale di stagione, assistiamo a misteriose apparizioni soprannaturali che coinvolgono, in maniera diversa, un nutrito gruppo di personaggi, tutti ottimamente caratterizzati. Nel 1997 è stata prodotta una seconda stagione, "Kingdom 2". Era in programma anche una terza, che Lars von Trier aveva già scritto e pianificato (avrebbe dovuto essere l'ultima), ma la morte di alcuni degli interpreti ha reso impossibile la sua realizzazione. Nel 2004 è stato comunque realizzato una sorta di remake in lingua inglese, la serie americana "Kingdom Hospital" sviluppata da Stephen King. Quanto alle ispirazioni, più che a serie ospedaliere quali "E.R.", LVT ha dichiarato di essersi rifatto alle atmosfere di "Twin Peaks" e della serie francese "Belfagor" degli anni sessanta (oltre che a un cult della tv danese come "Matador", serie del 1978 da cui provengono alcuni degli attori, come Hansen e Nørby).

Fra i protagonisti spicca l'arrogante Stig Helmer (Ernst-Hugo Järegård), nuovo neurochirurgo giunto dalla Svezia: scostante ed egocentrico, mal sopporta chi gli sta intorno, a partire dal primario Moesgaard (Holger Juul Hansen), che con le sue ingenuità e bizzarrie (come la ridicola operazione "Aria del mattino", un insieme di trovate e iniziative infantili per migliorare l'atmosfera e i rapporti all'interno dello staff) gli rende la vita difficile, al punto che periodicamente deve recarsi sul tetto dell'edificio per gridare al cielo la sua rabbia e la sua frustrazione, urlando a squarciagola "Maledetti danesi!" ("Danskjävlar!") e rimpiangendo la sua amata Svezia (le cui coste può osservare con un binocolo). Se l'unica che gli si mostra comprensiva è la dottoressa Rigmor (Ghita Nørby), altri crucci gli provengono dall'aiuto medico Krogshøj, detto Krogen/"Hook" (Søren Pilmark), con cui ha un rapporto fortemente antagonistico, e soprattutto dalla signora Drusse (Kirsten Rolffes), anziana paziente ipocondriaca che si ritrova sempre fra i piedi e che in realtà è una sensitiva (qui lo scontro è anche sul piano filosofico: la razionalità di Helmer contro l'apertura al soprannaturale della Drusse). È proprio lei, per prima, a rendersi conto che nell'ospedale si celano strane presenze, entrando in contatto con il fantasma di una ragazzina, Mary, morta nella clinica quasi cento anni prima. Mentre la signora Drusse, con l'aiuto del figlio Bulder (Jens Okking), che lavora al Regno come inserviente, cerca in vari modi di "esorcizzare" Mary e di farle abbandonare il modo dei vivi, e mentre Helmer è alle prese con il tentativo di nascondere le prove di un grave errore che ha commesso durante un'operazione chirurgica, si dipanano le storie anche di altri personaggi. Hook, che abita in segreto nei labirintici sotterranei dell'ospedale, da dove gestisce una sorta di mercato nero, si innamora della ricercatrice Judith (Birgitte Raaberg), la cui misteriosa gravidanza sembra procedere a velocità innaturale. Il patologo Bondo (Baard Owe), per amore della scienza, si fa trapiantare su sé stesso un fegato affetto da sarcoma. Mogge (Peter Mygind), studente di medicina poco serio, si offre come cavia nel "laboratorio del sonno" perché innamorato di Camilla (Solbjørg Højfeldt), la dottoressa che conduce gli esperimenti. E un'ambulanza fantasma si presenta ogni sera alle porte dell'edificio. Tutto culmina in un finale di stagione al cardiopalma, quando gli eventi soprannaturali precipitano proprio mentre nell'ospedale è in atto una (comicamente disastrosa) visita a sorpresa da parte del ministro della sanità. Cameo per Udo Kier nei panni del professor Aage Krüger, il malvagio padre di Mary. E da non dimenticare i due inquientanti inservienti con sindrome di Down, che lavorano nelle cucine come lavapiatti e commentano fra loro gli eventi come se fossero al corrente di tutto quello che accade, soprattutto sul piano soprannaturale.

29 marzo 2020

L'ingorgo (Luigi Comencini, 1979)

L'ingorgo - Una storia impossibile, aka Black-out in autostrada
di Luigi Comencini – Italia/Fra/Spa/Ger 1979
con Alberto Sordi, Marcello Mastroianni
***

Visto in divx.

Alle porte di Roma, un gigantesco ingorgo stradale blocca centinaia di autovetture, costringendo i proprietari a bivaccare letteralmente in macchina. E quando cala la notte, vengono fuori anche i peggiori istinti dell'uomo. Pellicola apocalittica e corale, con decine di personaggi e di storie minime e grottesche che si intersecano, con la quale Comencini (coadiuvato da un eccezionale gruppo di attori) lancia strali un po' a tutta la società italiana. C'è il ricco avvocato interpretato da Alberto Sordi, in auto con il segretario (Orazio Orlando), che disprezza il popolino nonostante si trovi nella stessa situazione; il famoso attore Marco Montefoschi (Marcello Mastroianni), con la fobia del pubblico, che viene ospitato da un ammiratore (Gianni Cavina) che vorrebbe in cambio una raccomandazione a Cinecittà, e per questo motivo sarebbe disposto a concedergli una notte con la moglie incinta (Stefania Sandrelli). Un "professore" (Ugo Tognazzi) che ha una tresca con la giovane Angela (Miou-Miou) all'insaputa del marito di lei (Gérard Depardieu). Una coppia che, fra una tenerezza e un litigio, sta festeggiando le nozze d'argento (Fernando Rey e Annie Girardot). E ancora: una numerosa famiglia napoletana, con il padre (Lino Murolo) furioso con la figlia Germana (Giovannella Grifeo) perché è rimasta incinta; un nevrotico in crisi d'astinenza da tabacco (Patrick Dewaere); un malato in ambulanza (Ciccio Ingrassia); quattro uomini armati di pistola (fra cui José María Prada e Ferdinando Murolo); una giovane hippie (Angela Molina) che fraternizza con l'autista di un camion (Harry Baer) ma che poi, durante la notte, sarà violentata da tre giovinastri. E anche in un ambiente così ristretto (l'intero film è ambientato su un tratto di pochi metri di strada, oltre che nei terreni circostanti) si affrontano quasi tutte le questioni sociali, politiche o di costume dell'italia di quegli anni: le speculazioni edilizie, i conflitti di classe, i cambiamenti del costume (l'aborto, il divorzio), la politica, le contestazioni giovanili, il calcio, l'informazione (con la tv che è costretta a sospendere le trasmissione e a interrompere i telegiornali per mancanza di personale: sono tutti imbottigliati nel traffico), oltre che vizi individuali come la violenza, il menefreghismo, l'opportunismo, l'ipocrisia. E naturalmente al centro di tutto c'è il consumismo, di cui proprio l'automobile, ormai alla portata di tutti, è il simbolo per eccellenza. Metaforica anche la sequenza del bambino (la coscienza collettiva?) che dorme sin dalla nascita. Anna Melato (sorella minore di Mariangela), che doppia Angela Molina, canta "Il treno dei bambini" su testo di Gianni Rodari, mentre Giovannella Grifeo canta la canzone dell'ingorgo ("Ingorgo, paralisi di vita...."). Nel cast anche Nando Orfei (l'autista di Mastroianni), José Sacristán (il prete comunista), Ester Carloni (la nonna) e il pilota di moto Enrico Lorenzetti (il ciclista). La sceneggiatura, ispirata a un racconto di Julio Cortázar ("L'autostrada del sud"), è firmata da Comencini insieme a Ruggero Maccari e Bernardino Zapponi. Juan Luis Buñuel è regista della seconda unità: chissà che film sarebbe venuto fuori se l'avesse diretto il suo celebre padre (in fondo l'ingorgo nasce senza un vero motivo, proprio come l'impasse de "L'angelo sterminatore")!

28 marzo 2020

Contagion (Steven Soderbergh, 2011)

Contagion (id.)
di Steven Soderbergh – USA 2011
con Matt Damon, Laurence Fishburne
***

Visto in divx.

Storia di una pandemia, che dal sud-est asiatico si diffonde rapidamente a tutto il mondo (anche se il film, con l'eccezione di alcune sequenze ambientate a Hong Kong, si concentra quasi esclusivamente sugli Stati Uniti): di impianto corale, e caratterizzata da un'insolita accuratezza scientifica per un film hollywodiano (lo sceneggiatore Scott Z. Burns, ispirato dalle allora recenti epidemie di SARS e H1N1, ha consultato medici ed esperti dell'Organizzazione Mondiale della Sanità per redigere ogni passaggio dello script), la pellicola racconta l'insorgere e la diffusione dei sintomi, le prime morti sospette, l'attivazione di medici e ricercatori competenti, le reazioni dei politici e dei media, il panico e il caos fra la popolazione, la ricerca di un vaccino, la lotta "in trincea" degli operatori sanitari, le misure e le precauzioni della gente comune, i confini chiusi e le quarantene, le fosse comuni, fino alla (temporanea?) risoluzione. A parte alcune esagerazioni (il virus MEV-1 è altamente contagioso, molto letale e dalla rapida incubazione), colpisce appunto per l'accuratezza scientifica con cui descrive un caso del genere: e vederlo in questo giorni, quando è in corso una pandemia (quella di Covid-19) anche nel mondo reale, risulta al tempo stesso inquietante e, in certo senso, tranquillizzante. La narrazione comincia dal "Giorno 2" (il racconto del "Giorno 1" – quello in cui il virus, dal pipistrello passando per il maiale, giunge in contatto per la prima volta con l'essere umano e quindi con il "paziente zero", che lo diffonderà poi nel resto della popolazione – è riservato per le ultime immagini, prima dei titoli di coda). L'ampio cast comprende Matt Damon, che si scopre immune quando invece sua moglie (Gwyneth Paltrow) è la prima a morire per la malattia (ed è lei, in effetti, ad averla portata dall'Asia fino in America); Laurence Fishburne (un medico del CDC, il centro per le prevenzione e il controllo delle malattie negli Stati Uniti); Jennifer Ehle (la ricercatrice che scopre il vaccino); Marion Cotillard (la dottoressa dell'OMS che si reca a indagare a Hong Kong); Kate Winslet (l'agente del reparto malattie infettive del CDC); Elliot Gould (il virologo che riesce a riprodurre il virus in coltura); Jude Law (il blogger "complottista"). Insieme, coprono un po' tutti i punti di vista relativi all'epidemia: quello dei medici e dei ricercatori, quello dei pazienti e della gente comune, quello degli informatori (o disseminatori di "fake news", nel caso del personaggio interpretato da Jude Law). La regia di Soderbergh si pone giustamente al servizio della storia e della sceneggiatura, così come la fotografia fredda e realistica e le scenografie. A parte poche sequenze (il caos nelle strade), il film riesce a evitare le trappole dei classici film catastrofici (d'altronde l'idea di spettacolarizzare la lotta a un nemico invisibile sarebbe stata persa in partenza) e ha ottenuto un buon successo di pubblico, con una popolarità che, visto l'argomento d'attualità, è comprensibilmente tornata a impennarsi in questi giorni.

27 marzo 2020

Polpette (Ivan Reitman, 1979)

Polpette (Meatballs)
di Ivan Reitman – Canada 1979
con Bill Murray, Harvey Atkin
**

Visto in divx.

È tempo di vacanze al campo estivo per bambini "Stella del Nord", dove l'istrionico capo istruttore Tripper (Bill Murray, al suo primo ruolo da protagonista) gestisce le numerose attività dedicate ai piccoli ospiti, tiene a bada i suoi imbranati assistenti, amoreggia con la collega Roxanne (Kate Lynch), organizza scherzi ai danni del direttore del campeggio Morty (Harvey Atkin), e stringe una particolare amicizia con uno dei bimbi, l'introverso Rudy (Chris Makepeace), aiutandolo a uscire dal suo guscio. A metà strada fra la commedia anarchica alla Altman (è quasi una versione più infantile e innocua di "MASH"), o addirittura alla "Porky's", e un racconto di coming-of-age, il terzo film di Ivan Reitman fu il suo primo lavoro a riscuotere una qualche notorietà, tanto da dar vita a ben tre sequel (solo il terzo capitolo, però, riprende un personaggio dell'originale). Ma nonostante la trascinante presenza di Murray, al film manca un po' di tutto, da un umorismo davvero efficace (le gag sono spuntate) alla corrosività. Eppure, tutto sommato, riesce a trasmettere l'atmosfera conviviale di un campo estivo dove, tra scherzi e sfide sportive (vedi la rivalità con il vicino campo Mohawk), possono nascere amicizie e amori. Da salvare anche il rapporto – più simile a quello tra due amici che non tra un padre e un figlio – fra Tripper e il piccolo Rudy. "Polpette" è il nomignolo con cui gli istruttori si rivolgono ai bambini. Fra gli sceneggiatori spicca Harold Ramis, che già aveva lavorato con Murray a teatro ("The Second City") e in radio ("The National Lampoon Radio Hour"), e che resterà un frequente collaboratore sia dell'attore che del regista (per esempio nei successivi "Stripes" e "Ghostbusters"). L'anno precedente Reitman aveva prodotto "Animal House", co-sceneggiato da Ramis: la scena del discorso motivazionale di Tripper ricorda quella di John Belushi. La pellicola è stata girata in Ontario, sul lago Hurricane.

26 marzo 2020

Amico tra i nemici, nemico tra gli amici (N. Michalkov, 1974)

Amico tra i nemici, nemico tra gli amici
(Svoy sredi chuzhikh, chuzhoy sredi svoikh)
di Nikita Michalkov – URSS 1974
con Yuri Bogatyryov, Aleksandr Kajdanovskij
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Sullo sfondo della guerra civile russa, dopo la rivoluzione d'ottobre, l'ufficiale "rosso" Yegor Shilov (Yuri Bogatyryov) viene incaricato di scortare un prezioso carico d'oro da una regione periferica fino a Mosca. Ma il treno che lo trasporta viene assaltato dai nemici "bianchi", guidati dal capitano Lemke (Aleksandr Kajdanovskij). Accusato dai suoi stessi compagni di essere un traditore, Yegor si dà alla fuga per dimostrare la propria innocenza e recuperare l'oro, che nel frattempo è finito nelle mani di un gruppo di banditi guidati da Brylov (Nikita Michalkov). Sulle tracce dell'oro, sia Shilov che Lemke sono così costretti a infiltrarsi nella banda. Il primo lungometraggio di Michalkov come regista, anche sceneggiatore insieme a Eduard Volodarsky, è praticamente un western. Del genere infatti non manca quasi nulla: cavalli, assalti al treno, sparatorie fra le rocce, tradimenti e rese dei conti. Se personaggi e situazioni sembrano uscire da una pellicola di Sergio Leone (ci sono anche alcune scene "nostalgiche" che guardano al passato, girate in color seppia, come in "Giù la testa"), la violenta sequenza della rapina al treno, con il suo montaggio rapido, pare invece guardare a Sam Peckinpah. Certo, non mancano passaggi che contestualizzano la vicenda all'interno della storia russa, nonché alcuni inevitabili dialoghi propagandistici (come quelli in cui Shilov illustra a uno dei banditi le lezioni del marxismo, o quando rifiuta l'offerta di tenersi l'oro per sé anziché dividerlo con i suoi "fratelli"), ma nel complesso l'intera trama potrebbe essere trasposta nel Far West con pochissime modifiche. Persino la colonna sonora di Eduard Artemev fa la sua parte in questo senso. Nel cast anche Sergej Shakurov, Anatolij Solonitsyn e Aleksandr Porokhovshchikov.

25 marzo 2020

Un giorno tranquillo alla fine della guerra (N. Michalkov, 1970)

A quiet day during the end of war (Spokoynyy den v kontse voyny)
di Nikita Michalkov – URSS 1970
con Sergej Nikonenko, Natalya Arinbasarova
**1/2

Visto su YouTube.

Nel 1944, mentre il fronte della guerra si è ormai spostato verso l'Europa, un soldato rimasto nelle retrovie e ferito a una gamba si rifugia in una vecchia chiesa diroccata, in mezzo alla campagna russa. Qui protegge con ostinazione alcune casse di dipinti che i tedeschi hanno lasciato dietro di sé durante la ritirata. Per un breve momento fraternizza con una giovane soldatessa, giocando, scherzando e facendo progetti per il futuro. Ma quando alcuni soldati tedeschi si rifaranno vivi per riprendersi i quadri, si sacrificherà per evitarne la distruzione. Dopo tre primi cortometraggi realizzati durante gli studi – "La bambina e le cose", "Bella bocca e occhi miei verdi" (tratto da un racconto di J.D. Salinger), "E io torno a casa" – questo fu il saggio finale di diploma di Nikita Michalkov al corso di regia presso la prestigiosa scuola di cinema VGIK di Mosca. E nonostante la breve durata (31 minuti) è un'opera già matura, che mette in mostra le qualità espressive del futuro regista, comunque attivo già da diversi anni come attore. Coadiuvato dal soggetto di Rustam Ibragimbekov e dalla fotografia di Dmitri Korzhikhin, riesce a rendere al meglio l'atmosfera di un territorio dove "la guerra è già finita, ma la pace non è ancora arrivata", come recitano i titoli introduttivi, dove basta poco per dare l'illusione di normalità (come un bagno nel fiume) e dove soldati provenienti dagli angoli più remoti dell'URSS (Andrej è della regione di Vologda, Adalat è addirittura kazaka) condividono ricordi e speranze, anche se poi il pericolo è sempre dietro l'angolo. Non manca l'aspetto poetico: Andrej, che si autodefinisce "un po' un artista", è disposto a perdere la vita pur di difendere dei quadri di cui ignora persino il valore, ma che appesi ai muri diroccati del suo accampamento di fortuna contribuiscono a spandere un po' di bellezza. In ruoli minori si riconoscono Yuri Bogatyryov (uno dei tedeschi), che tornerà in diversi film di Michalkov, e Aleksandr Kajdanovskij (il sergente), futuro protagonista dello "Stalker" di Tarkovskij.

La bambina e le cose (Nikita Michalkov, 1967)

La bambina e le cose (Veshchi, aka Devochka i veshchi)
di Nikita Michalkov – URSS 1967
***

Visto su YouTube.

Questo corto di 8 minuti è il primo dei quattro film studenteschi realizzati da Michalkov mentre frequentava il corso di regia diretto da Mikhail Romm all'Istituto Gerasimov (VGIK), la leggendaria scuola di cinema di Mosca. Essenzialmente muto (a parte la colonna sonora e i rumori di fondo), il corto è firmato da Michalkov insieme all'operatore Igor Klebanov e mostra una bambina di cinque anni – il nome dell'attrice è sconosciuto – che curiosa, interagisce e osserva gli oggetti di una stanza elegante, probabilmente la camera dei suoi genitori (il film fu girato nell'appartamento moscovita del poeta Sergej Michalkov, padre di Nikita, nella stanza della moglie in cui i cineasti accatastarono numerosi oggetti prima delle riprese). Pur senza una trama, la pellicola è sincera e accattivante: il montaggio gioca su vari livelli sensoriali, come la visione (la bimba osserva un quadro da vari punti di vista, chiudendo gli occhi a turno per modificare la prospettiva; oppure esamina le piante con una lente di ingrandimento, od osserva sé stessa allo specchio) e il sonoro (i suoni che provengono da un magnetofono, quando viene riavvolto il nastro e quando viene poi riprodotto: dapprima della musica, poi frammenti di una conversazione fra adulti, registrati durante una festa svoltasi il giorno prima nello stesso appartamento). In un'atmosfera intima e familiare, la bimba gioca con gli oggetti (i bigodini della mamma), si rotola nel letto, osserva dentro e fuori dalle finestre (si intravede un panorama urbano innevato), fornendo uno sguardo innocente e disincantato sulla complessità del mondo che la circonda. La colonna sonora comprende il Largo dal concerto in fa minore (BWV 1056) di Bach rivisitato "a cappella" dagli Swingle Singers.

24 marzo 2020

Arcana (Giulio Questi, 1972)

Arcana
di Giulio Questi – Italia 1972
con Lucia Bosè, Maurizio Degli Esposti
**1/2

Visto in divx, per ricordare Lucia Bosè.

Nell'appartamento di un grande condominio alla periferia milanese, la signora Tarantino (Lucia Bosè), con la complicità del figlio (Maurizio Degli Esposti), si guadagna da vivere come maga, sensitiva e chiromante, attraverso sedute sia di gruppo (i cui partecipanti vanno "in trance") sia individuali. Forse è soltanto una ciarlatana. O forse ha davvero poteri arcani, come d'altronde li avevano i suoi antenati: di questo almeno è convinto il figlio, che si dedica a strani rituali personali nella propria stanza, mostra a sua volta di avere poteri di precognizione e telecinesi, e rimane ossessionato da Marisa (Tina Aumont), giovane cliente in cerca d'amore che torna ripetutamente a farsi predire il futuro... Il terzo film di Giulio Questi, scritto come sempre insieme al montatore Franco Arcalli, è una pellicola onirica, psichedelica e surreale, che perde via via la concretezza che la caratterizza all'inizio (i caseggiati con i bambini che giocano negli androni e sulle scale; le strade, ricolme di passanti curiosi; le poste e le banche, con la fila dei disabili che devono ritirare la pensione; le metropolitane, con gli operai intenti a scavare nuove gallerie, di una Milano moderna) per accogliere in sé l'ignoto, le tradizioni ancestrali delle comunità rurali e contadine, fenomeni di poltergeist, strani legami fra oggetti di uso comune... La signora Tarantino legge le mani, i tarocchi, i fondi di caffè, inventa quello che i suoi clienti vogliono sentirsi dire. Eppure sia lei che il figlio hanno anche delle premonizioni autentiche: e sogni e visioni, realtà e fantasia finiscono col mescolarsi, verso un finale misterioso e aperto. A condire il tutto non mancano sottotesti edipici e violenti, con alcune sequenze che ricordano Antonioni o Buñuel (le rane che escono dalla bocca della donna) o anticipano addirittura Lynch. Resta il dubbio se il tutto serva solo a stimolare la suggestione dello spettatore o se ci sia un messaggio di fondo, che potrebbe essere quello dell'alienazione dell'uomo contemporaneo, della mancanza di comunicazione diretta e della perdita delle proprie radici (individuali o collettive che siano), al di là della compenetrazione fra diversi piani di realtà. Come nella lettura dei tarocchi, ognuno può trovarci il significato che più si adatta a sé. D'altronde l'enigmatico cartello iniziale mette subito in guardia gli spettatori: "Questo film non è una storia. È un gioco di carte. Perciò non è credibile l'inizio né tanto meno il finale. Giocatori siete voi. Giocate bene e vincerete". La Bosè è bellissima ed elegante, il figlio (senza nome) davvero straniante, sadico e inquietante. Un film originale, bizzarro e particolare, girato con pochi mezzi e che godette di una scarsissima diffusione, tanto da essere considerato un "film maledetto": di fatto il regista, dopo di questo, si ritirò dal mondo del cinema e continuò a lavorare solo in televisione.

23 marzo 2020

L'ora più buia (Joe Wright, 2017)

L'ora più buia (Darkest Hour)
di Joe Wright – GB/USA 2017
con Gary Oldman, Lily James
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

L'ora più buia non è solo quella dell'Inghilterra (e dell'Europa tutta) di fronte alla minaccia nazista (il film è ambientato nel maggio 1940, durante le prime fasi del secondo conflitto mondiale), ma anche quella personale di Winston Churchill (un irriconoscibile Gary Oldman, premiato con l'Oscar), nominato primo ministro da pochi giorni e già messo sotto pressione dai membri del suo stesso partito e del gabinetto di guerra (segnatamente dall'ex premier Neville Chamberlain e soprattutto dal visconte Halifax, segretario di stato per gli affari esteri), che davanti all'inarrestabile offensiva di Hitler insistono affinché il Regno Unito accetti la proposta di mediazione italiana e intavoli colloqui di pace con il Terzo Reich. La pellicola si svolge tutta fra l'8 maggio, alla vigilia delle dimissioni di Chamberlain dalla carica di primo ministro, e il 30 dello stesso mese, quando Churchill ottiene la fiducia del parlamento e l'appoggio a continuare la guerra. In mezzo, fra le altre cose, c'è la prima grande crisi del conflitto, con i soldati britannici in suolo francese circondati dalle truppe tedesche e destinati all'annientamento: saranno salvati grazie all'Operazione Dynamo, con l'evacuazione da Dunkerque per mezzo di una flotta di imbarcazioni civili (come raccontato, di recente, nel film "Dunkirk" di Christopher Nolan). Battaglie e azioni belliche non sono però mai mostrate sullo schermo: qui la guerra è tutta vista da una prospettiva interna, attraverso gli scontri di personalità fra Churchill e i membri del suo gabinetto dalle stanze sotterranee o dal parlamento a Westminster, e mediante i timori, i dubbi e le incertezze di chi è costretto a prendere decisioni difficili e impopolari (che spesso possono costare migliaia di vite umane) ma necessarie se non si vuole capitolare davanti a un nemico spietato. Certo, il senno di poi rende facile capire chi avrà ragione e chi torto, se sia stato giusto proseguire la guerra a ogni costo e rinunciare a ogni compromesso col nemico. Non manca pertanto un pizzico di agiografia e di retorica (anche più di un pizzico in scene come quella nella metropolitana, dove Churchill interpella direttamente la gente comune). E la grande maestria registica sembra a volte nascondere uno sfoggio di stile fine a sé stesso. In ogni caso, al netto di alcune semplificazioni o concessioni alle esigenze narrative, la ricostruzione storica è ottima, così come la fotografia e il cast. Kristin Scott Thomas è la moglie Clementine, Lily James è la (nuova) segretaria Elizabeth, Stephen Dillane è Halifax, Ronald Pickup è Chamberlain, Ben Mendelsohn è re Giorgio VI (quello de "Il discorso del re"). La pellicola ebbe sei nomination agli Oscar (compreso miglior film), vincendo anche quello per il trucco. Qualche dubbio sulla qualità del doppiaggio italiano, che non rende giustizia al protagonista.

22 marzo 2020

Quattordici anni

Oggi questo blog compie quattordici anni. Non è forse il momento migliore per festeggiare, visto che scrivo da una Milano in piena emergenza per l'epidemia di coronavirus che, fra le altre cose, ha fatto chiudere anche tutti i cinema (l'ultimo film visto in una sala cinematografica risale a due mesi fa, e chissà quando potremo ricominciare ad andarci). In ogni caso, e sperando che la situazione migliori al più presto, vi propongo le consuete statistiche. Negli ultimi dodici mesi su "Tomobiki Märchenland" sono state pubblicate ben 312 recensioni (20 in più dell'anno precedente: è il record di sempre, superando le 309 recensioni del 2007/08, il secondo anno di vita del blog), divise fra 53 film visti in sala e 259 fra le pareti domestiche. Le prime visioni sono state 262, i film rivisti invece 50. Il totale dei film recensiti sale così a 3449. Quanto ai registi, il più gettonato nel corso dell'anno è stato Dario Argento con 8 pellicole, seguito da David Lynch con 7 (ma 4 erano cortometraggi) e da Ingmar Bergman, Jia Zhangke, Jason Reitman, Mark Sandrich, Andrej Tarkovskij e Valerio Zurlini con 3. Il tutto, naturalmente, se escludiamo i vari pionieri del cinema muto cui ho dedicato alcune retrospettive (altrimenti a dominare la classifica ci sarebbe Georges Méliès con 23 titoli). A proposito: adesso il blog ospita almeno un film (anzi, più di uno) per ogni anno dal 1888 a oggi!
Un saluto a tutti, e speriamo di arrivare a festeggiare i quindici anni in condizioni più normali!

21 marzo 2020

L.A. Confidential (Curtis Hanson, 1997)

L.A. Confidential (id.)
di Curtis Hanson – USA 1997
con Guy Pearce, Russell Crowe, Kevin Spacey
***1/2

Rivisto in TV.

Nella Los Angeles dei primi anni cinquanta, dove effimeri sogni di gloria hollywoodiani nascono e muoiono accanto ai traffici della criminalità organizzata, le storie di tre agenti del dipartimento di polizia si intrecciano turbinosamente. Edmund "Ed" Exley (Guy Pearce), figlio di un leggendario detective rimasto ucciso sul lavoro, è idealista, incorruttibile e ligio al dovere, aspira a fare carriera, non ammette alcuno strappo alle regole e non esita a denunciare i colleghi che "sgarrano", conquistandosi le simpatie dei superiori ma anche le antipatie degli altri poliziotti. Wendell "Bud" White (Russell Crowe), impulsivo e picchiatore, ha una particolare avversione (dovuta a trascorsi familiari) contro chi usa violenza contro le donne: il suo temperamento e l'essere disposto a eseguire anche i lavori più sporchi lo porteranno in conflitto diretto con Ed. Infine c'è Jack Vincennes (Kevin Spacey), affamato di gloria, consulente per una serie televisiva poliziesca ("Badge of Honor", modellata su "Dragnet", che glorifica l'efficienza della polizia) e ammanicato con il giornalista scandalistico Sid Hudgens (Danny DeVito), che pubblica sulla propria rivista "Hush-hush" ("Zitti, zitti") notizie relative agli scandali delle celebrità. Le vicende dei tre personaggi, che nonostante le loro differenze perseguono tutti un proprio ideale di giustizia, finiranno con l'intrecciarsi quando le loro indagini su alcuni crimini apparentemente separati (il "massacro del Nite Owl", una sparatoria in una caffetteria; un giro di prostituzione d'alto bordo con ragazze che assomigliano a celebri dive del cinema; la morte di un giovane attore omosessuale in un motel) convergeranno verso lo stesso punto. Dal romanzo neo-noir di James Ellroy, adattato da Brian Helgeland e dallo stesso regista, uno straordinario poliziesco che ha i suoi punti di forza, oltre che nel cast, proprio nella sceneggiatura, capace di tenere le fila di una storia intricata (siamo dalle parti di un moderno Raymond Chandler) e piena di personaggi, che mette lo spettatore su false tracce ma lascia che alla fine tutto torni e che anche i dettagli o le figure più marginali si rivelino fondamentali per il dipanarsi dell'intreccio. Questo perché a guidare il tutto c'è la caratterizzazione dei protagonisti, con le loro personalità contrastanti e la loro psicologia sempre evidente dietro ogni scena d'azione e ogni twist della trama. Sono i personaggi a condurre l'azione, mai il contrario. E nonostante l'alto livello della regia, ma soprattutto della fotografia naturalistica (di Dante Spinotti), delle scenografie (di Jeannine Oppewall) e della ricostruzione d'epoca, non si ha mai l'impressione di assistere a uno sterile esercizio di stile. Da notare che ai tempi Crowe e Pearce erano praticamente sconosciuti, nonostante qualche particina interessante in passato (rispettivamente in "Skinheads" e "Priscilla"): grazie a questo film diventarono volti noti, e negli anni a seguire furono protagonisti di film di grande rilievo (come "Il gladiatore" e "Memento").

La vicenda ruota intorno a un periodo particolare della storia di Los Angeles, quando l'arresto del boss del crimine Mickey Cohen lasciò un vuoto di potere che altri gruppi della malavita organizzata aspiravano a riempire, e sfiora a più riprese celebri scandali ed eventi realmente accaduti, come il famigerato "Natale di sangue" del 1951, quando alcuni agenti di polizia si resero protagonisti di un brutale pestaggio ai danni di alcuni detenuti latino-americani. La stessa rivista "Hush-hush" di Danny DeVito è modellata su un autentico giornale scandalistico di quegli anni, "Confidential". E i temi della corruzione, della sete di celebrità, della giustizia e della criminalità si fondono su più piani. Memorabile, per esempio, "Rollo Tomasi", il nome (fittizio) che Ed ha affibbiato all'uomo che uccise suo padre, simbolo di tutti i criminali che, per un motivo o per l'altro, riescono a "farla franca": proprio questo nome si rivelerà fondamentale per svelare la vera identità del cattivo che tira le fila di tutto l'intreccio. Degno di nota anche il cast di contorno, a cominciare da Kim Basinger (che vinse l'Oscar come miglior attrice non protagonista: il film rivitalizzò la sua carriera) nei panni di Lynn Bracken, la prostituta con le fattezze di Veronica Lake. Di lei si innamorerà Bud, e per lei comincerà a sentirsi stanco della brutalità e della violenza in cui sguazza. Il grande caratterista James Cromwell è il capitano della polizia Dudley Smith, figura "paterna" e di riferimento per gli agenti del dipartimento, che però nasconde lati oscuri ed ambigui. David Strathairn è il milionario Pierce Patchett, l'uomo d'affari che, fra le altre cose, si serve di Lynn e di altre ragazze per ricattare politici e magistrati. Piccoli ruoli, infine, per Ron Rifkin, Graham Beckel, Simon Baker e Paolo Seganti. Brenda Bakke è Lana Turner in una delle scene più comiche della pellicola, quella in cui Ed la scambia per una prostituta che imita appunto la Turner. Da notare che si tratta dell'unica vera celebrità che appare nel film: pur ambientato in prossimità della "fabbrica dei sogni", di loro ne sentiamo soltanto il profumo, o ne intravediamo l'immagine in alcuni spezzoni di pellicole, come "Vacanze romane" (che Bud e Lynn vanno a vedere al cinema) o "Il fuorilegge" (il film con Veronica Lake che Lynn proietta a casa sua). La musica è di Jerry Goldsmith. Nominato a nove premi Oscar (compresi quelli per il miglior film e la regia), "L.A. Confidential" ne vinse due, quelli per la miglior sceneggiatura non originale (che, incredibile a dirsi, semplifica un intreccio che nel romanzo era ancora più denso, e si distacca in molti punti dalla fonte originale: il libro, d'altra parte, era il terzo di una saga dedicata da Ellroy alla città di Los Angeles, dopo "Dalia nera" e "Il grande nulla", che già introducevano alcuni dei personaggi) e per la miglior attrice non protagonista, perché gli altri sette andarono tutti al "Titanic" di Cameron. Tanto che Hanson commentò ironicamente: "Mai fare il tuo miglior film nello stesso anno di Titanic!".

20 marzo 2020

La morte ha fatto l'uovo (G. Questi, 1968)

La morte ha fatto l'uovo
di Giulio Questi – Italia/Francia 1968
con Jean-Louis Trintignant, Gina Lollobrigida
**

Visto in divx.

Marco (Trintignant) dirige l'allevamento di polli – interamente meccanicizzato – di proprietà della ricca moglie Anna (Lollobrigida), ha tendenze sadomasochistiche che sfoga "simulando" delitti ai danni delle prostitute di un vicino motel, e sogna di fuggire con la giovane e bionda Gabri (Ewa Aulin), cugina di Anna che vive insieme alla coppia e fa loro da segretaria. Ma ignora che questa, insieme a un giovane agente pubblicitario (Jean Sobieski), sta complottando alle sue spalle... Il secondo film della coppia Giulio Questi (regista) e Franco Arcalli (montatore), entrambi sceneggiatori, dopo il western "Se sei vivo spara", è uno stranissimo oggetto, un thriller sociologico ed esistenziale che francamente oggi appare un po' pretenzioso e datato, oltre che intellettualistico (guarda ad Antonioni e a Resnais). Ha certo i suoi pregi, su tutti l'atmosfera straniante e onirica, enfatizzata dalla colonna sonora di Bruno Maderna, ricca di dissonanti sonorità acustiche. Fra spunti sociali (il pollaio, con i suoi impianti moderni, può fare a meno dei lavoranti), di costume (l'invasione della pubblicità, le riunioni dell'associazione dei produttori di polli), morbosi (lo strano rapporto a tre fra Marco, Anna e Gabri, le feste borghesi con il gioco delle coppie rinchiuse in camera) e persino fantascientifici (il chimico industriale (Biagio Pelligra) che, trattando le colture con isotopi radioattivi, crea dei polli mostruosi senza testa né ali), la pellicola lancia i suoi sguardi a 360 gradi, per poi focalizzarsi progressivamente sulla trama gialla. Al centro, comunque, rimane il personaggio interpretato da Trintignant, sempre fuori posto e sperso nei suoi istinti, nel suo bisogno di violenza e nei suoi sogni che mal si amalgamano con la noiosa società che lo circonda.

19 marzo 2020

Se sei vivo spara (Giulio Questi, 1967)

Se sei vivo spara, aka Oro Hondo
di Giulio Questi – Italia/Spagna 1967
con Tomas Milian, Marilù Tolo
**1/2

Rivisto in divx.

Tradito dai suoi stessi complici dopo una rapina e lasciato a morire nel deserto, il messicano Hermano (Tomas Milian) viene salvato da due sciamani indiani ed esce dalla tomba per vendicarsi. Ma i banditi che insegue sono già stati uccisi tutti dagli abitanti della cittadina dove si erano rifugiati: tutti tranne il capo, Oaks (Piero Lulli), di cui fa giustizia proprio Hermano con i suoi proiettili d'oro (!). Tormentato e disilluso, il messicano decide di rimanere nel villaggio (che gli indiani chiamano "Il campo dell'angoscia"!) e si ritrova così in mezzo alle faide incrociate che scoppiano fra i suoi abitanti per entrare in possesso del bottino, "gente onesta" che di fronte all'oro si dimostra crudele e spietata, come il proprietario del saloon Tembler (Milo Quesada) e il negoziante Hagerman (Francisco Sanz). Opera prima (dopo alcuni episodi di film collettivi) di Giulio Questi e del suo co-sceneggiatore (e montatore) Franco Arcalli, con cui forma un sodalizio destinato a durare per il resto della sua (poco prolifica) carriera, è un western atipico e nichilista che gode di molta fama fra i cultori del genere per via della sua atmosfera inquietante e della sua violenza, con scene estremamente cruente e scabrose (su cui si scagliò la censura italiana): si pensi al bandito scempiato dagli abitanti del paese per recuperare le pallottole d'oro, ad alcune morti atroci, o alla sequenza in cui si lascia intendere che il giovane Evan (Raymond Lovelock) sia stato violentato dagli uomini del ranchero Sorrow (Roberto Camardiel). Per alcuni di questi episodi, il regista si sarebbe ispirato agli orrori di cui era stato testimone in guerra, quando aveva fatto parte della resistenza partigiana. Al netto di tutto ciò, però, temi e situazioni sono in fondo simili a quelli di molti altri spaghetti western (dal capostipite "Per un pugno di dollari" in poi), con il forestiero che rimane implicato nelle dinamiche di un villaggio sconvolto da tensioni sotterranee. E la pellicola, forse un po' lunga e compiaciuta, si trascina cambiando focus più volte: di certo le parti sono superiori all'insieme. Marilù Tolo e Patrizia Valturri interpretano i due unici personaggi femminili, rispettivamente l'amante di Tembler (che lo manipola come Lady Macbeth) e la moglie di Hagerman, fatta credere pazza e reclusa nella sua stanza dal marito geloso. Interessanti la fotografia di Franco Delli Colli (cugino del più celebre Tonino) e la colonna sonora di Ivan Vandor. Gianni Amelio è aiuto regista. Sequestrato pochi giorni dopo la sua uscita e poi ridistribuito con diversi tagli, il film è stato riproposto nelle sale nel 1975 con il titolo "Oro Hondo". In diversi paesi (come USA e Germania) è stato spacciato come un capitolo della saga di Django.

16 marzo 2020

Quando i mondi si scontrano (R. Maté, 1951)

Quando i mondi si scontrano (When Worlds Collide)
di Rudolph Maté – USA 1951
con Richard Derr, Barbara Rush
**1/2

Rivisto in divx.

"But when worlds collide,
said George Pal to his bride,
I'm gonna give you some terrible thrills..."

Alcuni astronomi scoprono che due corpi celesti sconosciuti, Zyra e Bellus, stanno dirigendosi ad alta velocità verso la Terra: mentre Zyra avrà solo un passaggio ravvicinato, Bellus è destinato a scontrarsi con il nostro pianeta e a distruggerlo entro otto mesi. L'annuncio della fine del mondo viene inizialmente accolto con scetticismo, ma ben presto tutti dovranno ricredersi. Nel frattempo, grazie ai finanziamenti dell'egocentrico miliardario Stanton (John Hoyt), il professor Hendron (Larry Keating) ha iniziato a costruire un veicolo spaziale che permetterà a quaranta persone di sopravvivere, abbandonando la Terra prima della catastrofe e raggiungendo la superficie di Zyra, nella speranza che sia abitabile. Oltre al pilota Randall (Richard Derr) e a Joyce (Barbara Rush), la figlia del dottore, gli altri prescelti vengono selezionati tramite un sorteggio, il che scatenerà il risentimento degli esclusi (dimostrando come la natura dell'uomo è fatta di egoismo tanto quanto di altruismo). Prodotto dal leggendario George Pal e tratto da un romanzo di Edwin Balmer e Philip Wylie (autori anche di un seguito, "After Worlds Collide"), un ingenuo ma epocale B-movie apocalittico/fantascientifico che non è altro che una versione moderna del mito dell'Arca di Noè (a bordo della navicella, oltre agli esseri umani, vengono imbarcate diverse coppie di animali), al punto che si apre con una citazione della Bibbia. Notevoli, per l'epoca, le sequenze relative agli effetti del passaggio di Zyra vicino alla Terra, con vulcani che eruttano, terremoti e maremoti (le scene di New York e delle altre città costiere inondate dalle acque valsero a Gordon Jennings l'Oscar per i migliori effetti speciali): di contro, nel finale su Zyra gli sfondi sono evidentemente dipinti. Nel cast anche Peter Hansen (il "rivale" di Randall per Joyce), Hayden Rorke e Stephen Chase. Il film potrebbe aver ispirato pellicole più moderne come "Deep impact" e "Armageddon".

15 marzo 2020

Skyline cruisers (Wilson Yip, 2000)

Skyline cruisers (San tau chi saidoi)
di Wilson Yip – Hong Kong 2000
con Leon Lai, Jordan Chan, Shu Qi
*1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Tre anni dopo un colpo andato male e in cui ha perso la sua fidanzata, il ladro iper-tecnologico Mac (Leon Lai) si è trasferito in Australia e ha messo insieme una nuova squadra, formata dall'amico Bird (Jordan Chan) e dai giovani Sam (Sam Lee) e Michelle (Michelle Saram). Tormentato dal passato e roso dai sensi di colpa, accetta l'incarico di recuperare il prototipo di un nuovo farmaco contro il cancro, sottratto dal perfido dottor Kam al suo legittimo scopritore. Ma dopo essersi introdotto nel laboratorio segreto di Kam in Malesia, anche con l'aiuto di una bella e misteriosa spia (Shu Qi) incontrata sul posto, scoprirà di essere stato ingannato... Concepito inizialmente come seguito di un film di tre anni prima, "Downtown torpedoes" di Teddy Chan, questa pellicola realizzata da Yip dopo i successi di critica "Bullets over summer" e "Juliet in love" si iscrive nel filone delle rapine sofisticate e tecnologiche di certi film hollywoodiani dell'epoca (in una delle prime scene, il direttore di una banca afferma che i loro sistemi di sicurezza "fanno impallidire quelli di Mission: Impossible I e II"). E dal punto di vista tecnico non sarebbe neanche male, pur con una regia un po' derivativa. Peccato che sia anche estremamente noiosa, senza appigli emotivi, con una trama inutilmente confusa e pretenziosa, e colpi di scena di cui non importa niente a nessuno. D'altronde, come capita spesso in questo genere di film, l'oggetto del contendere (il farmaco) è solo un MacGuffin, una scusa per inscenare lunghissime sequenze prive di tensione (ma fotografate benissimo!), all'insegna di gadget high-tech il cui funzionamento non viene nemmeno spiegato: insomma, un elaborato (e vuoto) esercizio di stile. Sprecato il cast, a partire da una Shu Qi imbrigliata in un personaggio mai approfondito. Jordan Chan e Sam Lee avevano già recitato per Yip in "Bio-zombie". Accattivante il look di Michelle Saram, con i capelli corti e arancioni.

14 marzo 2020

La polizia bussa alla porta (J.H. Lewis, 1955)

La polizia bussa alla porta (The Big Combo)
di Joseph H. Lewis – USA 1955
con Cornel Wilde, Richard Conte
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

L'ostinato tenente di polizia Leonard Diamond (Cornel Wilde) cerca in ogni modo di incastrare il sardonico Mister Brown (Richard Conte), che dietro l'eleganza e l'aspetto da stimato cittadino è a capo di una spietata organizzazione criminale. La sfida fra i due è quasi personale: e lo diventa ancora di più quando Brown, nel tentativo di eliminare Diamond, fa uccidere dai suoi scagnozzi Rita (Helene Stanton), la donna che questi frequentava. Saranno però proprio le donne a tradire il gangster: la sua tormentata "pupa" Susan (Jean Wallace), ex pianista di cui anche Diamond è ossessivamente innamorato, che pur di sfuggire alle sue grinfie tenta il suicidio; e la sua ex moglie Alicia (Helen Walker), sulla cui scomparsa il tenente si mette a indagare, scoprendo così altri crimini nel turbinoso passato del bandito. Un classico del poliziesco-noir di serie B, vale a dire a basso budget, con una trama contorta e senza nomi di richiamo nel cast (benché i piani iniziali prevedessero Spencer Tracy e Jack Palance nei due ruoli principali): ma il tutto è compensato dall'atmosfera magnetica e conturbante, dai bei dialoghi di Philip Yordan, e soprattutto dalla fotografia low key di John Alton, che avvolge i personaggi nell'oscurità ed esalta il contrasto fra luci e ombre (si pensi, per esempio, all'iconica scena finale all'aeroporto, che peraltro nella sua composizione ricorda "Casablanca"). Ottimi anche gli interpreti, in particolare i "cattivi": Conte è al meglio nel ritrarre un criminale mefistofelico e ambizioso (il suo motto è: "Il primo è il primo, il secondo è nessuno"), sempre sorridente e sicuro di sé, che non si sporca mai le mani di persona ma progetta intrighi di ogni tipo (anche ai danni dei suoi stessi uomini) dietro le quinte. Fra i suoi subalterni spiccano Brian Donlevy nei panni di McClure, bandito della vecchia guardia che Brown ha esautorato di ogni potere e umilia in continuazione (memorabile la scena in cui usa il suo apparecchio acustico per torturare Diamond), e la coppia di sgherri (con sottotesto omoerotico) formata da Lee Van Cleef e da Earl Holliman. Insolita la colonna sonora jazzata (con trombe e sassofoni) di David Raksin. Cornel Wilde e Jean Wallace nella realtà erano marito e moglie.

12 marzo 2020

Biancaneve e i sette nani (D. Hand, et al., 1937)

Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs)
di David Hand, et al. – USA 1937
animazione tradizionale
****

Rivisto in divx.

La bellezza della giovane principessa Biancaneve fa ingelosire la regina cattiva, sua matrigna, che ordina a un cacciatore di condurla nella foresta e di ucciderla. Ma l'uomo non ha il coraggio di portare a termine il compito: la fanciulla si rifugia così nel bosco, dove è accolta nella casa dei sette nani. Tramutatasi in strega grazie alla magia nera, la regina avvelena Biancaneve con una mela incantata: ma il "primo bacio d'amore" del principe azzurro la ridesterà dal sonno mortale. Fortemente voluto da Walt Disney in persona (che nel cartello introduttivo si sentì in dovere di ringraziare tutti i suoi dipendenti e collaboratori), supervisionato dal regista David Hand, con sequenze dirette da William Cottrell, Wilfred Jackson, Larry Morey, Perce Pearce e Ben Sharpsteen, "Biancaneve" è il primo lungometraggio d'animazione della Disney, che fino ad allora aveva sfornato soltanto corti: quelli dedicati a Mickey Mouse e Donald Duck, certo, ma anche la serie delle "Silly symphonies" (Sinfonie allegre), con suoni e immagini perfettamente abbinati, molti dei quali prendevano spunto da celebri fiabe e anticipavano dunque, nonostante la breve durata, i grandi capolavori che sarebbero seguiti. Non solo: "Biancaneve" è il primo lungometraggio interamente in animazione tout court (un'impresa che all'epoca molti addetti ai lavori ritenevano impossibile, convinti che l'interesse e l'attenzione degli spettatori non avrebbero mai potuto essere catturati per così tanto tempo da un film senza attori in carne e ossa), anche se bisogna precisare: stiamo parlando dell'animazione tradizionale con disegni su rodovetri, perché altrimenti il primato andrebbe a "Le avventure del principe Achmed" di Lotte Reininger, realizzato nel 1926 con la tecnica delle silhouette animate, o forse addirittura a due film (andati purtroppo perduti) dell'italo-argentino Quirino Cristiani, "El Apóstol" (1917) e "Sin dejar rastros" (1918), con ritagli di carta animati a passo uno. Di più: "Biancaneve" è il primo lungometraggio d'animazione interamente a colori, con visual spettacolari (ispirati in parte alle illustrazioni di Arthur Rackham, ma anche ai classici dell'espressionismo tedesco), eccellenti sfondi dipinti, un'animazione morbida e fluente, movimenti realistici, una credibile profondità di campo (grazie alla nuova camera multiplane) e persino occasionali effetti speciali che contribuiscono a "immergere" il pubblico nella vicenda.

Lasciando da parte i risvolti psicanalitici della fiaba originale dei fratelli Grimm, che non è il caso di affrontare in questa sede (ma che in parte sono conservati anche nel film, a differenza delle versioni edulcorate delle favole in molte pellicole disneyane successive), è da segnalare come la sceneggiatura, pur semplificando a tratti la vicenda, non glissi sui suoi elementi fondanti: si parla esplicitamente di oscurità e di morte, e sono presenti scene assai espressive e che fanno visceralmente paura (la fuga di Biancaneve nella foresta, con gli alberi che ghermiscono le sue vesti) od orrore (l'antro della strega, con il corvo e lo scheletro nella cella). La stessa regina è davvero inquietante, anche visivamente (nel suo aspetto originale è anche dotata di una notevole carica sexy che contrasta con le forme più morbide da adolescente, se non addirittura da bambina, della protagonista). E non dimentichiamo uno degli elementi "magici" più iconici e misteriosi, ovvero lo specchio che la regina consulta ogni giorno per soddisfare la propria vanità ("Specchio, servo delle mie brame: chi è la più bella del reame?"), dotato di volto parlante. Ma naturalmente ci sono anche ingredienti più leggeri, comici e romantici, in un intreccio azzeccato ed equilibrato (anche se forse la parte centrale riservata ai nani, con le sequenze del lavaggio delle mani o della danza, si trascina un po' troppo a lungo: e per fortuna che altre scene di questo tipo sono state tagliate, vedi sotto). Un mix che ha fatto la fortuna del film e ha indicato la strada sui cui proseguire e su cui si focalizzeranno i successivi lavori della casa di Burbank, a cominciare dalle spalle comiche (qui i nani, ma anche gli animaletti del bosco) e dalle canzoni (di fatto i film Disney, con poche eccezioni, saranno sempre dei musical). A intonare i brani è soprattutto Biancaneve (con canzoni celeberrime come "Impara a fischiettar" e "Il mio amore un dì verrà"), affiancata dal principe azzurro ("Oggi non ho che un canto") e ovviamente dai nani (la popolarissima marcetta "Ehi-Ho!" e la cosiddetta "Tirolese"). Nessuna canzone, invece, per la regina cattiva (nonostante in futuro proprio ai cattivi Disney saranno riservati alcuni dei brani più belli) e per il cacciatore, unici altri personaggi umani presenti nella storia. Il resto del "cast" è infatti composto solo da animali: quelli della foresta, che accompagnano Biancaneve comunicando con lei (e aiutandola nei lavori domestici!), più il cavallo bianco del principe, il corvo nero della strega, e i due avvoltoi.

La scelta di adattare una fiaba già nota anziché partire da un soggetto originale, e il successo che ne conseguirà, condizionerà non solo tutti i futuri film disneyani (dando vita nel dopoguerra, in particolare, al fortunato filone delle "principesse") ma contribuirà anche a caratterizzare lo stesso Walt Disney nell'immaginario collettivo come un moderno affabulatore e narratore di storie per grandi e (soprattutto) piccini. In fondo le fiabe, pur nella loro apparente semplicità, veicolano nella maniera più efficace le emozioni, le paure e i sentimenti primordiali, anche grazie all'ampio ricorso agli archetipi. Ecco perché il contesto storico e l'ambientazione della vicenda rimangono ambigui o generici. In che paese siamo? In che epoca? Di quale regno è principessa Biancaneve e regina Grimilde? (A proposito, il nome della regina cattiva – come d'altronde quelli del principe o del cacciatore, tutti archetipi appunto – non viene mai pronunciato nella pellicola: "Grimilde" le viene affibbiato soltanto nell'adattamento ufficiale a fumetti scritto da Merrill De Maris, disegnato da Hank Porter e Bob Grant e pubblicato sui quotidiani, e deriva probabilmente da Crimilde, versione tedesca della norrena Gudrun, un personaggio della saga dei Nibelunghi; da notare anche l'assonanza con la parola inglese "grim", ovvero "truce, torvo"). E il principe azzurro, da quale regno proviene? Il suo castello, nella scena finale, sembra trovarsi in mezzo alle nuvole: il che lascia intendere che si tratti di un luogo immaginario, e che il personaggio stesso (e l'infatuazione di Biancaneve) siano una metafora dell'amore e dell'avvento della vita sessuale adulta ("Someday my prince will come..."), con il crudele distacco dai genitori come corollario. Ops, avevo scritto che avrei lasciato da parte i risvolti psicanalitici, ma evidentemente quando si tratta di fiabe è impossibile ignorarli... Anche per questo, è pericoloso quando l'adattamento di una fiaba ne modifica gli elementi cardine (come avverrà in alcuni brutti remake moderni o nelle versioni live action che si sono viste di recente). Qui, per fortuna, le differenze con il testo originale sono poche e tendono per di più alla semplificazione: nella fiaba dei Grimm, per esempio, quello con la mela avvelenata era il terzo tentativo della regina di attentare alla vita di Biancaneve, dopo averci provato con una veste magica e un pettine stregato (che nel film non compaiono).

E parlando di differenze con la fiaba originale, veniamo ai sette nani. Eletti in tutto e per tutto a co-protagonisti della vicenda, tanto da condividere l'onore del titolo con Biancaneve, essi erano presenti anche nella versione dei fratelli Grimm, ma formavano un gruppo indistinto, senza personalità o nomi individuali. Disney sceglie invece di caratterizzarli separatamente e di dare un nome a ciascuno di loro (non fu il primo a farlo: l'idea proviene da una commedia di Broadway del 1912, trasposta poi in un film muto nel 1916 che l'allora quindicenne Walt ricorda di aver visto), contribuendo così a stagliarli indelebilmente nella memoria dello spettatore. Quelli che rimangono più impressi, anche perché protagonisti con maggiore frequenza di scene loro dedicate, sono indubbiamente Dotto (Doc), il leader del gruppo, con il suo pomposo farfugliare; Brontolo (Grumpy), sempre di cattivo umore, maldisposto verso Biancaneve perché teme le donne e le loro "arti subdole"; e Cucciolo (Dopey), il più giovane dei sette, che non parla "perché non ci ha mai provato". Completano il lotto Pisolo (Sleepy), Eolo (Sneezy), Gongolo (Happy) e il timido Mammolo (Bashful). Prima di scegliere i nomi e le relative personalità, Disney e i suoi collaboratori ne presero in considerazione più di cinquanta (siamo quasi di fronte agli antesignani dei Puffi)! Il numero sette, fra le altre cose, rimanda naturalmente ai sette vizi capitali, e in effetti le caratteristiche dei nani sembrano un distillato delle inclinazioni morali e universali dell'uomo (come l'ira o la pigrizia). Misteriose sono anche le loro età, quasi indefinibili: le lunghe barbe suggeriscono anzianità, eppure il loro comportamento è decisamente infantile (quando Biancaneve entra per la prima volta nella loro casa, pensa che sia abitata da bambini; e quando li rimprovera per avere le mani sporche, li tratta proprio come tali). Ma nella scena in cui pregano attorno alla bara di cristallo, sembrano una comunità di vecchi frati. Fa eccezione Cucciolo, caratterizzato in tutto e per tutto come un giovane monello, anche se è poi l'unico che richiede più volte a Biancaneve un bacio sulla bocca (gli altri si accontentano di essere baciati sulla "pelata" sotto il berretto). Infine, ci viene mostrato che i nani sono minatori: possiedono infatti una miniera di diamanti e altre gemme preziose, di cui però non è chiaro che cosa facciano: le pietre vengono semplicemente ammassate in un magazzino, la cui chiave è appesa fuori dalla porta alla mercé del primo che passa. Un'ultima considerazione: i nani sono figure classiche del folklore germanico e scandinavo, e oltre che nelle fiabe come quella dei Grimm sono presenti per esempio nell'Edda norrena (che, di converso, ha ispirato quelli che appaiono nelle saghe tolkeniane, per esempio ne "Lo hobbit", pubblicato nello stesso 1937). L'età avanzata, la professione di minatori e la vita isolata nei boschi ne fanno quasi una razza a parte, più simile agli gnomi che agli esseri umani.

Se Biancaneve è la prima di tante eroine Disney senza un padre (le figure paterne, salvo rare eccezioni – come Geppetto –, saranno essenzialmente assenti dalle pellicole disneyane fino al "Re leone" del 1994!), la regina/matrigna è la prima dei molti fortunatissimi villain della cinematografia animata, in questo caso due cattivi in uno: altrettanto memorabile della sua algida forma da sovrana, infatti, è quella decrepita e mostruosa da strega in cui si trasforma grazie alle sue arti oscure, una vera e propria megera con mani adunche e naso bitorzoluto che ricorda l'iconografia classica della befana. È degno di nota il fatto che, pur di avvicinare Biancaneve e consegnarle la mela, la perfida regina giunga a sacrificare (momentaneamente) la cosa alla quale tiene di più, ovvero la sua bellezza. Il grido di compiacimento "E ora la più bella sono io!", che Grimilde esclama nel momento in cui la fanciulla cade a terra avvelenata e lei pregusta il trionfo, è quasi paradossale: in quel momento a guardarla è tutt'altro che bella. E se poi, come si dice, la bellezza non è quella esteriore ma quella interiore, in quel momento la regina è priva sia dell'una che dell'altra. A punirla per i suoi delitti – anche in questo ci si discosta dalla fiaba dei Grimm – saranno i nani, richiamati dagli animaletti del bosco, che inseguiranno la strega sotto la pioggia con armi e bastoni (in una delle rare scene in cui non recitano ruoli buffi ma appaiono invece decisi e minacciosi), ma anche il destino, che la farà precipitare in un burrone mentre si apprestava a smuovere un enorme masso per scagliarlo sui suoi inseguitori. A chiudere il film, infine, c'è l'iconica scena del bacio del principe che risveglia la fanciulla distesa nella sua bara di cristallo (prefigurando ciò che accadrà a un'altra eroina Disney, l'Aurora de "La bella addormentata nel bosco"). Anche la magia nera, infatti, ha le sue regole, e il veleno usato dalla strega (che rende la mela di un rosso scarlatto vivissimo e innaturale, grazie anche al Technicolor) non procurava semplicemente la morte ma solo un sonno apparente che il "primo bacio d'amore" può dissolvere. Eppure, nelle prime fasi di progettazione del film si era pensato a un approccio comico anche per gli altri personaggi (come il principe o la regina), prima di riservarlo ai soli nani. Se Disney era partito da subito con l'idea di rendere questi ultimi i veri protagonisti della pellicola, la scelta di spostare il focus sul conflitto fra Biancaneve e la matrigna costrinse gli animatori ad eliminare alcune sequenze (già completate!) con i sette nani, come quella in cui mangiano la zuppa preparata da Biancaneve (che avrebbe dovuto seguire la scena, rimasta nella pellicola, in cui si lavano prima di andare a tavola).

La lunga e difficile lavorazione richiese quasi quattro anni (dall'inizio del 1934, quando – come racconta un celebre aneddoto – Walt Disney "recitò" l'intero film a voce, mimando tutti i personaggi, davanti al suo staff, fino al dicembre 1937, quando la pellicola ormai completata venne proiettata in anteprima al Carthay Circle Theatre di Los Angeles, per poi essere finalmente distribuita nelle sale di tutto il mondo – Italia compresa – nel corso del 1938) e coinvolse gran parte degli animatori che a quei tempi lavoravano negli studi Disney (situati a Hollywood, in Hyperion Avenue, e non ancora a Burbank). Scorrendo i credits – posti a inizio film, come si usava allora, e non alla fine – si riconoscono infatti molti nomi noti o destinati a diventarlo: per esempio Samuel Armstrong fra i disegnatori dei fondali, Merrill De Maris, Earl Hurd e Ted Sears fra gli autori degli storyboard, Hamilton Luske, Fred Moore, Vladimir "Bill" Tytla e Norman Ferguson fra i supervisori dell'animazione, James Algar, Art Babbitt, Les Clark, Bill Roberts, Frank Thomas, Ward Kimball, Grim Natwick e Woolie Reitherman fra gli animatori. Dei registi ho già detto sopra, mentre i character designer sono Albert Hurter e Joe Grant, i concept artist Ferdinand Hovarth e Gustaf Tenggren, e la colonna sonora (nominata all'Oscar) è firmata da Frank Churchill (per le canzoni), Leigh Harline e Paul J. Smith. La pellicola venne distribuita dalla RKO (la Buena Vista, la casa di distribuzione della stessa Disney, non esisteva ancora). Per la sua realizzazione furono necessarie ingenti risorse e anche un notevole progresso tecnologico, evidente dalla fluidità dell'animazione e dalla maestria tecnica che rimarrà a lungo ineguagliata (persino fra i lungometraggi della stessa Disney: l'unico, di quelli immediatamente successivi, che ci si avvicina è "Pinocchio"). Per i personaggi umani (Biancaneve, il principe, la regina e il cacciatore), allo scopo di ottenere un maggior realismo, in alcune scene si scelse di ricorrere alla tecnica di animazione rotoscope, che consiste nel "ricalcare" le movenze filmate di un attore in carne e ossa. La modella per Biancaneve, in particolare, fu la ballerina quindicenne Marge Belcher (la voce originale, invece, è quella della cantante italo-americana Adriana Caselotti, allora diciannovenne, la cui carriera paradossalmente ne risentì perché lo stesso Walt Disney non volle che la sua voce venisse più utilizzata successivamente in altre produzioni "per non rovinare l'illusione di Biancaneve").

Nonostante in molti, compreso suo fratello Roy e sua moglie Lillian, spaventati dal costo del film (dieci volte superiore a quello di un normale cartone animato), avessero cercato di dissuaderlo da un'impresa che altri produttori hollywoodiani consideravano "una follia", Disney riuscì alla fine nel suo intento. E la pellicola riscosse uno strepitoso successo di pubblico (per qualche tempo fu il film con il maggior incasso di sempre, superato poi da "Via col vento" un paio d'anni più tardi) e di critica (tanto che Walt ricevette, dalle mani di Shirley Temple, un Oscar alla carriera che consisteva in una statuetta di dimensioni normali attorniata da sette statuette in miniatura). Di fatto contribuì ad aumentare il prestigio della Disney, proiettandola definitivamente al di sopra di tutte le case concorrenti che lavoravano nel campo dei cartoni animati. Amatissimo da Sergej Eisenstein (che lo definì "il più grande film mai realizzato") e da Charles Chaplin, il lungometraggio spinse la MGM a mettere in cantiere "Il mago di Oz" e i fratelli Fleischer a produrre a loro volta un film d'animazione, "I viaggi di Gulliver". E naturalmente convinse definitivamente Disney che quella dei lungometraggi era la strada giusta: grazie anche ai ricchi proventi della pellicola, che consentirono di finanziare i nuovi studios di Burbank, negli anni seguenti (dal 1940 al 1942) uscirono "Pinocchio", "Fantasia", "Dumbo" e "Bambi", che insieme a "Biancaneve" compongono il gruppo dei big five, i primi cinque "classici Disney", prima che la guerra e la crisi economica spingessero lo studio a ripiegare su più economiche compilation di corti (i lungometraggi veri e propri torneranno soltanto nel 1950 con la seconda principessa, "Cenerentola"). Rieditato e ridistribuito nelle sale cinematografiche a intervalli regolari, all'epoca della sua uscita in Italia il film godette di una localizzazione con i titoli, i cartelli e persino le scritte (come quelle sui letti dei nani) nella nostra lingua. In occasione della riedizione del 1972, il film fu interamente ridoppiato perché la versione originale del 1938 era considerata troppo datata e infarcita di dialoghi eccessivamente aulici. Fra le curiosità del ridoppiaggio: nel 1938 il cacciatore ingannava la regina portandogli il cuore di un capretto, nel 1972 quello di un cinghiale (in originale era di un maiale!). Alla sua uscita il film fece molta impressione, fra gli altri, anche sul giovane disegnatore veneziano Romano Scarpa, che nel corso della sua carriera pubblicherà poi su "Topolino" diversi sequel a fumetti in cui si immagina che la strega cattiva sia sopravvissuta alla caduta nel burrone.

11 marzo 2020

Le straordinarie avventure di Mr. West... (Lev Kuleshov, 1924)

Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi
(Neobychainye priklyucheniya mistera Vesta v strane bolshevikov)
di Lev Kuleshov – URSS 1924
con Porfiri Podobed, Vsevolod Pudovkin
**1/2

Visto su YouTube.

In viaggio in Unione Sovietica per conto della YMCA (la Young Men’s Christian Association, non ancora resa celebre per altri motivi dai Village People!), il ricco americano Mr. West (Porfiri Podobed) si porta come guardia del corpo il cowboy Jed (Boris Barnet) affinché lo protegga dai "terribili bolscevichi", che i giornali di New York dipingono come barbari assetati di sangue. Ma questo non gli impedirà di finire nelle grinfie di una banda di criminali, guidata dallo scaltro Shban (Vsevolod Pudovkin), che sfruttando la sua ingenuità lo circuirà e fomenterà le sue paure pur di spillargli dollari su dollari. A salvarlo, oltre al fido Jeddie e all'americana Elly (Vera Lopatina), saranno proprio i poliziotti russi. E quando vedrà le meraviglie del comunismo e assisterà a una parata militare dei "veri bolscevichi", cambierà finalmente idea sul loro conto (telegrafando alla moglie, rimasta in America, e chiedendole di appendere un ritratto di Lenin nello studio!). Pellicola dai toni semi-comici che ironizza sugli stereotipi con cui gli americani e l'occidente intero (il nome del protagonista, West, è significativo) guardavano alla Russia post-rivoluzionaria. A parte il finale smaccatamente propagandistico (in un'inquadratura, durante la parata, compare Trotsky!), lo stile è da commedia e parodizza con sarcasmo le paure, le diffidenze e le percezioni errate dell'ingenuo yankee e del suo cowboy, senza tralasciare gli aspetti negativi della banda di criminali russi, fra i quali, oltre a Pudovkin (allievo di Kuleshov e in procinto di diventare regista a sua volta), spicca la buffa e seducente "Contessa" interpretata da Aleksandra Khokhlova, moglie del regista, senza dimenticare il "Dandy" (Leonid Obolensky) e l'uomo con la benda sull'occhio (Sergei Komarov). Quanto a West, con gli occhiali rotondi ricorda il classico personaggio comico di Harold Lloyd. Movimentato e rocambolesco (da segnalare l'inseguimento che vede protagonista Jed, in slitta, e la polizia russa), il film ha oggi dunque un interesse storico e politico che va anche al di là dei suoi meriti cinematografici, comunque di buon livello (Kuleshov è stato un pioniere e il primo teorico della scuola sovietica del montaggio). Curiosamente, potrebbe aver ispirato la prima avventura a fumetti del Tintin di Hergé, pubblicata nel 1929 e intitolata appunto "Tintin nel paese dei soviet".

10 marzo 2020

Il volto (Ingmar Bergman, 1958)

Il volto (Ansiktet)
di Ingmar Bergman – Svezia 1958
con Max von Sydow, Ingrid Thulin
***

Rivisto in divx, per ricordare Max von Sydow.

A metà Ottocento, la "compagna medico-ipnotica" itinerante del dottor Vogler (Max von Sydow) – che comprende anche la sua moglie e assistente Manda (Ingrid Thulin), il prestigiatore Tubal (Åke Fridell) e una vecchia "strega" che vende pozioni magiche (Naima Wifstrand) – giunge in una cittadina, dove è accolta dai notabili del luogo. Il console Egerman (Erland Josephson) ha infatti deciso di ospitarli in casa propria perché ha fatto una scommessa con il medico Vergerus (Gunnar Björnstrand) sull'esistenza o meno del soprannaturale: il primo ci crede, così come sua moglie Ottilia (Gertrud Fridh), che intende chiedere a Vogler di lenire con i suoi poteri animistici e magnetici il proprio dolore per la recente scomparsa di una figlia; il secondo invece è scettico, convinto che in natura nulla sia inesplicabile. Dopo una notte movimentata in cui i membri della compagnia "fraternizzano" in vari modi con la servitù (e non solo) del palazzo, il giorno dopo lo "spettacolo magico" si tramuta in una forte umiliazione per Vogler e compagni: ma l'uomo saprà vendicarsi, fingendo di tornare dalla morte e fornendo per un attimo un'esperienza unica al medico scettico. Una pellicola misteriosa e bizzarra, tutta giocata sulla dicotomia fra verità e finzione (o "sull'illusione dell'arte e sul suo rapporto con il potere"). Manda dice all'inizio: "L'inganno è così univeralmente diffuso che dire la verità significa farsi tacciare da bugiardi". E in effetti, a prima vista, la compagnia del dottor Vogler sembra costituita solo da impostori, dediti all'inganno sia a livello di azioni che di aspetto: Vogler stesso indossa una barba finta e si trucca il volto, oltre a fingere di essere muto. Manda viaggia in abiti maschili ("per far perdere meglio le nostre tracce se siamo nei guai") e, pur ammettendo di far parte di un gruppo di ciarlatani, rimpiange la cosa: "Se solo una volta potessi dire che e vero...". Ma l'inganno domina anche gli altri personaggi, che mentono a sé stessi anche quando si impuntano nei rispettivi ruoli: Vergerus è lo scienziato razionalista e positivista, il console e sua moglie lasciano una porta aperta all'immateriale (o almeno fingono di farlo, perduti nei miti del romanticismo e negli inganni della propria relazione), memtre il capo della polizia (Toivo Pawlo), quale rappresentante dell'ordine, sembra indifferente alla questione e si preoccupa soltanto di non lasciarsi sfuggire di mano la propria autorità. Persino fra la servitù, benchè a livello più schietto e meno ipocrita, serpeggiano pose e finzioni: dalla servetta Sara (Bibi Andersson), che amoreggia con il giovane cocchiere Simson (Lars Ekborg), a sua volta fintamente spavaldo, alla capocuoca Sofia (Sif Ruud), che seduce Tubal, passando per l'attore ubriacone Johan (Bengt Ekerot: cosa c'è di più ingannevole della sua professione?) e lo stalliere Antonsson (Oscar Ljung), vittima della propria immaginazione. La fotografia espressionista di Gunnar Fischer e gli accurati primi piani della regia di Bergman indagano questi e altri personaggi con interesse quasi antropologico, mettendone in luce paure e contraddizioni: e il film non ci risparmia nemmeno alcune sequenze davvero suggestive e "magiche", come l'attraversamento iniziale del bosco, la notte di tempesta, e la scena in soffitta quando Vogler, grazie a ombre e specchi, tormenta Vergerus prima di svelarsi per quello che è nel finale. Ispirato forse a un testo teatrale di G. K. Chesterton ("Magic"), il film vinse il Leone d'argento alla Mostra di Venezia.

9 marzo 2020

The front runner (J. Reitman, 2018)

The Front Runner - Il vizio del potere (The Front Runner)
di Jason Reitman – USA 2018
con Hugh Jackman, Vera Farmiga
**

Visto in divx.

La (vera) storia dello scandalo che nel 1988 pose fine alla candidatura del senatore Gary Hart nelle primarie del partito democratico per la presidenza degli Stati Uniti, dove i sondaggi lo davano come il favorito ("the front runner", appunto). Dopo aver sfidato i giornalisti, che lo sospettavano di una tresca extraconiugale, a "seguirlo giorno e notte", alcuni di questi lo presero in parola, portando così alla luce una sua scappatella con una giovane avvocatessa di Miami. Nel giro di pochi giorni, Hart fu costretto a ritirarsi dalla corsa alla presidenza e la nomination passò a Dukakis, che perse poi contro Bush. Di impianto corale, il film racconta la vicenda da molteplici punti di vista: quello di Hart stesso (interpretato da Hugh Jackman), che però è sempre stato assai laconico sulla propria vita privata; quello della sua famiglia, in particolare la moglie Lee (Vera Farmiga), messa sotto assedio dalle attenzioni dei media; quello dei membri del suo comitato elettorale, guidato da Bill Dixon (J.K. Simmons); e quello dei tanti giornalisti che gli gravitano attorno. Più che sull'evento stesso, la pellicola intende lanciare una riflessione sul tema della privacy dei personaggi pubblici, in particolare dei politici, quando i pettegolezzi sulla loro vita privata diventano preponderanti, sui media, rispetto alle loro idee e al loro lavoro. Questo perché, come spiega uno dei giornalisti, la morbosità viene direttamente dal pubblico, che non perdona ai propri rappresentanti il minimo strappo all'immagine di integrità che essi stessi si sforzano con ogni mezzo di trasmettere. In tutto questo c'è naturalmente tanta ipocrisia, a partire dall'ossessione tutta americana (e dalla fobia puritana) per e contro il sesso, dove una presunta scappatella ha più risalto delle idee politiche e dei contenuti di una campagna elettorale (comunque imperniata sull'immagine: si commenta che già solo l'aspetto o il taglio di capelli di un candidato può fruttargli parecchi punti nei sondaggi). A suo modo, in fondo, è un film di denuncia. Peccato però che, a parte qualche scena o momento interessante (come quelli che riguardano A.J. Parker (Mamoudou Athie), il giovane giornalista idealista che pone ad Hart la domanda fatidica), nel complesso il film sia moderatamente piatto e noioso, incapace di scavare a fondo nella materia di cui tratta, anche perché la figura di Hart resta elusiva e anonima. Nel vasto cast anche Alfred Molina (che interpreta Ben Bradlee, il celebre direttore del "Washington Post"), Sara Paxton (Donna Rice), Mark O'Brien e Molly Ephraim.

8 marzo 2020

La donna è donna (J.L. Godard, 1961)

La donna è donna (Une femme est une femme)
di Jean-Luc Godard – Francia 1961
con Anna Karina, Jean-Claude Brialy
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

La giovane spogliarellista Angela (Anna Karina) vorrebbe un figlio dal ragazzo con cui convive, Émile (Jean-Claude Brialy). Al rifiuto di questi, minaccia di accettare le avances di Alfred (Jean-Paul Belmondo), l'amico che la corteggia da sempre. Il terzo lungometraggio di Godard, nonché il suo primo film a colori (a predominare sono il blu, il bianco e il rosso, ovvero i colori della bandiera francese) è solo apparentemente una commedia leggera e impertinente, piena di momenti curiosi e sopra le righe, e caratterizzata da una colonna sonora (di Michel Legrand) che sottolinea continuamente le azioni e i dialoghi dei personaggi (c'è chi l'ha definita un tributo alla commedia musicale americana: la stessa Angela sogna di fare parte di un film di questo tipo e nomina Cyd Charisse, Gene Kelly e Bob Fosse, mentre Godard ha detto: "Non è una commedia musicale in senso stretto, ma non è un film semplicemente parlato. È un rimpianto sul fatto che la vita non sia in musica"). In realtà è uno dei primi film della Nouvelle Vague a essere consapevole di far parte di un movimento, tanto che cita in continuazione le precedenti pellicole di Truffaut e dello stesso Godard: Belmondo dice che in televisione danno "Fino all'ultimo respiro", incontra in un bar Jeanne Moreau e le chiede "Come va con Jules e Jim?", mentre la Karina afferma di aver visto "Sparate sul pianista" e ascolta al juke box la musica di Charles Aznavour (in una scena bella e lunghissima, mentre guarda una foto di Émile con un'altra donna). L'aria che si respira, in effetti, è giovane e sbarazzina, ben diversa da quella delle pellicole dell'immediato dopoguerra. I personaggi si spogliano, litigano, fanno l'amore o parlano di insicurezze, verità e tradimenti con grande libertà e senza alcun moralismo, mentre la trama non sembra seguire alcun cliché di genere e si dipana invece disorganizzata e svagata come la vita vera (o come una jam session di jazz). Non manca poi lo stile, che gioca a destrutturare il linguaggio cinematografico, con i primi evidenti godardismi: gli sguardi in macchina (spesso i personaggi parlano con gli spettatori o ne cercano la complicità), le scritte sullo schermo... Fra le scene memorabili, quelle in cui Angela ed Émile, avendo litigato e non volendo più parlarsi, dialogano e si insultano attraverso i titoli dei libri che hanno in casa. "Non so se questa è una commedia o una tragedia, però è un capolavoro", commenta Brialy. Da vedere in lingua originale con sottotitoli: l'edizione italiana, oltre a non rendere il gioco di parole finale ("Tu es infâme", "Non, moi je suis une femme"), elimina alcune sequenze e altera il montaggio sonoro.

7 marzo 2020

Lo schiaccianoci (A. Konchalovsky, 2010)

Lo schiaccianoci in 3D (The Nutcracker in 3D)
di Andrei Konchalovsky – GB/Ungheria 2010
con Elle Fanning, John Turturro
*1/2

Visto in divx.

Lasciata a casa insieme al fratellino Max dai genitori che la trascurano, la sera di Natale la piccola Mary (Elle Fanning) riceve la visita dello zio Albert (Nathan Lane) che le regala una casa di bambole e uno schiaccianoci di legno a forma di burattino. Durante la notte questi si anima, le rivela di essere un principe vittima di una maledizione e la convince ad aiutarlo a riconquistare il suo regno, occupato dal perfido re dei topi (John Turturro). Un film per famiglie decisamente ambizioso e sfarzoso, ispirato alla fiaba di E.T.A. Hoffman "Lo schiaccianoci e il re dei topi" e al balletto di Pyotr Ilyich Ciajkovskij che ne è stato tratto (le cui musiche, purtroppo riadattate, punteggiano l'intera pellicola). Ma al buon livello produttivo fa da contraltare una storia confusa e sconclusionata, piena di sottotesti anche sgradevoli e di elementi messi un po' a casaccio e pescati di qua e di là (da "Mary Poppins", "Peter Pan", "La storia infinita"...): ci sono la magia, i sogni, l'elogio della fantasia, il rapporto con i genitori (e il fratellino), la teoria della relatività di Einstein (è lui lo zio Albert!), il regime nazista e l'olocausto (i topi vestono uniformi tedesche, sottomettono la popolazione e organizzano roghi di giocattoli). Le suggestioni steampunk e quelle legate alla storia europea della prima parte del ventesimo secolo (vedi la strana ambientazione: sembrerebbe la Vienna del dottor Freud, peccato che Einstein visse prima in Svizzera e poi a Berlino, non in Austria) complicano il tutto. Terribili le canzoni, nonostante le melodie rubate a Ciajkovskij. Nel cast anche Frances de la Tour (la regina dei topi), Richard E. Grant (il padre), Yulia Vysotskaya (la madre, nonché la fata della neve) e Charlie Rowe (il principe schiaccianoci in forma umana). Fortemente voluto da Konchalovsky (anche co-sceneggiatore e produttore), al cinema il film – come indica il titolo completo – è uscito in 3D, ma è stato un colossale flop di pubblico e di critica. Eppure, almeno sotto l'aspetto visivo, qualcosa forse sarebbe da salvare.

6 marzo 2020

Sui marciapiedi (Otto Preminger, 1950)

Sui marciapiedi (Where the sidewalk ends)
di Otto Preminger – USA 1950
con Dana Andrews, Gene Tierney
***

Visto in divx.

Mark Dixon (Dana Andrews) – poliziotto rude e dai modi spicci, che già è stato retrocesso di rango per via dei suoi metodi violenti contro i criminali – uccide senza volerlo un sospetto (Craig Stevens) che era andato a interrogare, e si premura di nascondere le prove. Ma quando dell'omicidio verrà accusato un innocente (Tom Tully), padre dell'ex moglie della vittima (Gene Tierney) di cui nel frattempo si è innamorato, roso dai sensi di colpa cercherà dapprima di far cadere la responsabilità su un gangster (Gary Merrill), e poi mediterà di andare incontro alla morte. Da una sceneggiatura di Ben Hecht, un poliziesco cupo e notturno, venato di sfumature ambigue: non c'è divisione netta fra il bene e il male, e il protagonista ha almeno tanti difetti quanti pregi. Man mano che la storia procede, in effetti, veniamo a conoscenza di alcuni retroscenza, come il fatto che sia figlio di un criminale e dunque che è continuamente in lotta fra gli istinti (che lo portano a volersi salvare, anche a costo di agire fuori dalla legge) e un desiderio quasi esistenziale di espiazione (delle proprie colpe, ma anche di quelle degli altri). Forse un po' macchinoso, specialmente nel finale (in parte imposto dal codice Hays), ma comunque ricco di fascino noir e soprattutto con una trama per nulla prevedibile da parte dello spettatore. I due attori protagonisti avevavo già lavorato insieme e con lo stesso regista nel fortunato "Vertigine" ("Laura"). Nel cast anche Bert Freed (Klein, il partner di Dixon), Karl Malden (il tenente Thomas) e Ruth Donnelly (la proprietaria del locale dove Dixon va con Morgan). Nella versione originale il gangster Carter si chiama Scalisi ed è italo-americano.

5 marzo 2020

Rachel sta per sposarsi (J. Demme, 2008)

Rachel sta per sposarsi (Rachel getting married)
di Jonathan Demme – USA 2008
con Anne Hathaway, Rosemarie DeWitt
**

Visto in divx.

Ricoverata in una struttura per la riabilitazione dalla tossicodipendenza, la giovane Kym (Anne Hathaway) ne esce in permesso temporaneo per partecipare al matrimonio (multietnico) della sorella Rachel (Rosemarie DeWitt), di cui fervono i preparativi. Ma i due giorni trascorsi in famiglia faranno tornare in superficie tutte le diffidenze, i rancori, le incomprensioni e le questioni irrisolte (legate anche a un vecchio dramma familiare). Scritta da Jenny Lumet, figlia di Sidney, una pellicola che per l'aspetto formale sembra quasi un film del Dogma 95: camera a mano (talvolta fastidiosa, in particolare quando si muove mentre i personaggi stanno fermi), assenza di musica extradiegetica, uno stile naturalistico che talvolta lascia spazio alle improvvisazioni degli attori. Se l'insieme si può anche apprezzare, per via del suddetto naturalismo e soprattutto per l'indovinato personaggio di Kym (grazie al quale la Hathaway ricevette una nomination all'Oscar), alla resa dei conti il film è solo una specie di soap opera, completa di scene madri, giusto più realistica e meglio recitata della media (ma anche più pretenziosa). E che costringe lo spettatore a "partecipare" alla cena nuziale, sorbendosi tutti i discorsi di parenti e amici, le lungaggini, l'atmosfera e la coralità: cose già noiose nella realtà, figuriamoci se non si conoscono personalmente gli sposi o gli altri invitati. La noia raggiunge il culmine nella mezz'ora finale, quando c'è la cerimonia vera e propria (e la storia personale di Kym svanisce sullo sfondo), quasi impossibile da guardare senza perdersi nei propri pensieri per autodifesa. Fra gli invitati ci sono vari musicisti (fra cui Robyn Hitchcock) che suonano o cantano "in diretta", nonché Roger Corman, storico mentore del regista.

4 marzo 2020

Seguendo la flotta (M. Sandrich, 1936)

Seguendo la flotta (Follow the fleet)
di Mark Sandrich – USA 1936
con Fred Astaire, Ginger Rogers
**1/2

Visto in divx.

Quando la nave militare su cui è di stanza fa scalo a San Francisco, il marinaio "Bake" Baker (Fred Astaire) cerca di riallacciare i rapporti con Sherry Martin (Ginger Rogers), la ballerina di cui un tempo era stato partner sulle scene, aiutandola a trovare una scrittura. Contemporaneamente il suo amico e commilitone Bilge Smith (Randolph Scott) fa colpo su Connie (Harriett Hilliard), la sorella – solo apparentemente meno vistosa – di Sherry, ma la rifugge perché refrattario al matrimonio. Le due vicende finiranno con l'incrociarsi quando Baker organizzerà un grande spettacolo di danza a bordo della nave da crociera che Connie ha comprato e restaurato con i propri risparmi, con l'intenzione di affidarne il comando a Bilge. Quinto film per la coppia Astaire/Rogers, il terzo da protagonisti, anche se dividono la scena con la sottotrama dedicata a Scott e Hilliard. Ma la vicenda, ricca dei consueti equivoci e di schermaglie amorose, è quasi un pretesto per mettere in scena i numerosi ed elaborati numeri di canto e di ballo. Musiche e canzoni, come già in "Cappello a cilindro", sono di Irving Berlin: da segnalare "Let Yourself Go" (cantata da Ginger), "I'd Rather Lead A Band" (con una lunga sequenza di tip tap da parte di Fred), "I'm Putting All My Eggs in One Basket" (con i due che fingono di danzare in maniera scomposta) e soprattutto "Let's Face the Music and Dance", l'elegante numero di ballo a due che chiude la pellicola (e che da solo la vale tutta), coreografato da Astaire insieme a Hermes Pan e girato in un unico piano sequenza con una scenografia art déco di Carroll Clark e Van Nest Polglase. Astrid Allwyn è la ricca signora Manning, "rivale" di Connie per Bilge. In piccoli ruoli ci sono anche Betty Grable e Lucille Ball.

3 marzo 2020

La vittima designata (M. Lucidi, 1971)

La vittima designata
di Maurizio Lucidi – Italia 1971
con Tomas Milian, Pierre Clémenti
**

Visto in divx.

Il fotografo pubblicitario Stefano Augenti (Tomas Milian) conosce per caso l'ambiguo conte Matteo Tiepolo (Pierre Clémenti), che gli propone un patto: il conte ucciderà la moglie di Stefano, Luisa, lasciandolo libero di vendere le quote della società intestate alla consorte (che si oppone) e di rifarsi una vita con la sua amante, la modella Fabiane (Katia Christine); in cambio lui dovrà uccidere il fratello del conte. Stefano rifiuta, ma Matteo commette comunque l'omicidio ("Ho fatto tutto ciò che tu sognavi di fare e non ne avevi il coraggio"). Sospettato dalla polizia come autore del delitto, essendo l'unico ad avere un movente, Stefano non avrà altra scelta che portare a termine la propria parte del patto (in cambio della quale il conte ha promesso di procurargli un alibi di ferro)... Ambientato a Milano, a Venezia e sul lago di Como, un thriller chiaramente ispirato al classico di Hitchcock "L'altro uomo", alias "Delitto per delitto" (ma un personaggio, all'inizio del film, sembra quasi giustificare la cosa: "Ormai si è fatto tutto... Le idee ormai non servono più. È lo stile che conta"). Pur artificioso e implausibile in alcuni sviluppi, è salvato da discrete interpretazioni (con un Milian che, oltre a cantare il brano "My shadows in the dark", si doppia anche da sé: per questo motivo si dice che il personaggio è di origine venezuelana), che danno vita a interessanti caratterizzazioni (il protagonista è il classico borghese che di fronte alle difficoltà finisce sempre con lo scendere a compromessi, il conte è una figura morbosa, ambigua e fuori dal tempo, tanto che pare quasi appartenere a un altro film) e soprattutto dalla colonna sonora baroccheggiante firmata da Luis Bacalov insieme ai New Trolls, che qui fanno le prove per il "Concerto grosso".

2 marzo 2020

Quasi nemici (Yvan Attal, 2017)

Quasi nemici - L'importante è avere ragione (Le brio)
di Yvan Attal – Francia 2017
con Camélia Jordana, Daniel Auteuil
**1/2

Visto in divx.

Neïla Salah (Jordana), giovane e impulsiva immigrata di seconda (o terza?) generazione, sogna di emanciparsi dalla banlieue in cui vive iscrivendosi alla facoltà di legge in una delle più prestigiose università di Parigi. Qui si "scontra" subito, e a più riprese, con il professor Pierre Mazard (Auteuil), docente dal carattere schietto e controverso, che non si premura di nascondere le proprie idee scioviniste, lanciando agli studenti, durante le lezioni, punzecchiamenti razzisti e battute politicamente scorrette a getto continuo. Ma i due saranno costretti a collaborare da vicino (e a comprendersi meglio a vicenda) quando a Mazard, per evitare un procedimento disciplinare, viene ordinato di preparare personalmente Neïla affinché partecipi all'annuale "concorso di retorica" riservato agli studenti del primo anno di varie università del paese. Se il primo insegnamento dell'uomo è: "Quello che conta è solo avere ragione, della verità chi se ne frega", l'ultimo sarà invece "Quando si parla bene si dimentica come dire le cose in modo semplice" (avvalorato da una frase di Mounir, l'amico d'infanzia di cui Neïla è innamorata: "Lo sai, parlo male ma almeno dico quello che penso"). E mentre la ragazza si fa sempre più raffinata nell'esprimersi e anche nel presentarsi (per esempio, nel modo di vestire), con il suo "pigmalione" (siamo infatti dalle parti di "My fair lady") che la vede trarre profitto dell'arte dell'eloquenza per farsi strada nella vita, diventando progressivamente capace di controllare le proprie emozioni anche in pubblico (come quando è costretta a recitare in metropolitana il monologo del "Giulio Cesare"), anche lei capisce che le provocazioni dell'uomo sono, in un certo senso, la messa in atto di quegli artifici di retorica (compreso l'insulto) che le insegna, spesso mirati a suscitare reazione e indignazione nell'uditorio. Costruito su una struttura di impostazione classica, alla fine il film è forse più innocuo di quanto le premesse avessero fatto intendere, ma comunque garantisce una visione piacevole. Il titolo italiano vuole riecheggiare quello di un'altra pellicola francese, il fortunato (al botteghino) "Quasi amici".

1 marzo 2020

Cities of last things (Ho Wi Ding, 2018)

Cities of last things (Xìngfu chengshì)
di Ho Wi Ding – Taiwan/Cina/Fra/USA 2018
con Jack Kao, Lee Hong-chi
**

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Il film si apre con il suicidio di un uomo, Zhang Dong-ling, che si getta giù da un palazzo. Dopo di che, una serie di tre sequenze – ambientate progressivamente a ritroso – ci raccontano il suo passato e come è giunto a quella situazione. Il meccanismo è dunque lo stesso del bellissimo film coreano "Peppermint candy" del 1999, con l'indagine sulle tragedie trascorse che rivela i motivi dell'indurimento del personaggio: da adulto è scorbutico, solitario, incattivito e deciso a vendicarsi di coloro che l'hanno ridotto così; da giovane è idealista e pieno di speranze, ma dovrà scontrarsi con la cattiveria del mondo che lo circonda; da adolescente vive un trauma che lo segnerà per sempre. E il film si chiude con una breve scena che ce lo mostra da bambino, felice e ignaro di ciò che lo aspetta. Rispetto alla pellicola coreana, questa è persino più pessimista ma non altrettanto organica: sfruttando la diversa collocazione temporale, ciascuna delle tre sequenze è quasi un episodio a sé stante, tanto che sembra di avere a che fare con tre protagonisti differenti (non mancano però rimandi fra i vari segmenti, come luoghi visitati o situazioni simili: per esempio, il giovane Zhang immagina già di uccidere la moglie e il suo amante, per poi suicidarsi, cosa che farà effettivamente da adulto). La parte iniziale, che si svolge subito prima del suicidio, ha una curiosa ambientazione fantascientifica (siamo in un futuro non troppo lontano, con interessanti tocchi di world building: la società è talmente invecchiata che le pubblicità, i servizi e i prodotti di cosmetica si rivolgono solo agli anziani, mentre la maggiore età è stata spostata ai 24 anni). Qui veniamo a conoscenza di alcuni eventi della vita del nostro protagonista, come il tradimento della moglie e il fallimento professionale e familiare, ma ne ignoriamo i dettagli. La seconda parte, la meno riuscita delle tre, si svolge trent'anni prima, nel nostro presente, ed esplicita molto di quello che la precedente aveva suggerito, mostrandoci Zhang, giovane poliziotto, subire il tradimento della moglie, l'ostracizzazione dei colleghi (per essere stato l'unico onesto in mezzo a tanti corrotti) e la tentazione di una fuga con una giovane taccheggiatrice europea (Louise Grinberg), la stessa che ritroverà nel futuro (clonata?) come prostituta in un bordello. L'ultima parte, la più breve, è forse anche la migliore: racconta l'incontro, in una stazione di polizia dove sono entrambi tratti in arresto, di uno Zhang diciassettenne con la propria madre Wang (Ding Ning), che l'aveva abbandonato da piccolo, e suggerisce che proprio il trauma del rapporto interrotto con la madre (alla cui morte è costretto ad assistere) l'abbia indirizzato sulla sua strada. Mancano però gli strascichi morali e quel senso di ineluttabilità che il film di Lee Chang-dong, superiore in tutto, si portava con sé (per non parlare di altri film basati sulla stessa idea, come "CinquePerDue" di Ozon e "Irreversible" di Noé). Il protagonista, nei vari segmenti, è interpretato da Jack Kao (adulto), Lee Hong-chi (giovane) e Hsieh Chang-ying (adolescente). Il regista, anche sceneggiatore, è di origine malese. Degna di nota la fotografia (per lo più notturna) del francese Jean Louis Vialard.