Opera senza autore (F. Henckel von Donnersmarck, 2018)
Opera senza autore (Werk ohne Autor)
di Florian Henckel von Donnersmarck – Germania 2018
con Tom Schilling, Sebastian Koch
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Visto in divx alla Fogona.
La vita di un giovane pittore, Kurt Barnert (Schilling), raccontata attraverso le trasformazioni della Germania nell'arco di 30 anni: dalla Dresda del 1937 durante l'ascesa nazista, alle tragedie della seconda guerra mondiale, all'avvento della DDR socialista, alla fuga nella BRD del boom economico. La sua vicenda si intreccia con quella del professor Carl Seeband (Koch), primario di ginecologia che si compromette con il regime nazista, entra nelle SS e collabora al programma di eugenetica, per poi riciclarsi durante il comunismo. Ma al centro della lunga pellicola (tre ore), ancora più degli eventi storici (che fanno solo da sfondo, fornendo il contesto – la tela – sulla quale dipingere) c'è il concetto di arte e il suo legame con l'identità, la ricerca dell'espressione artistica del proprio "io", temi che mi hanno fatto pensare a un'altra pellicola che – nonostante lo stile completamente diverso – affronta lo stesso argomento, "Achille e la tartaruga" di Takeshi Kitano. Al terzo film e dopo il passo falso di "The tourist", Henckel von Donnersmarck torna, se non ai livelli del suo lavoro d'esordio, "Le vite degli altri" (da cui riprende uno degli interpreti, Sebastian Koch), quantomeno alle stesse ambizioni e alla sua qualità nel ritrarre alcuni periodi delicati ma importanti della storia tedesca. Incoraggiato nelle proprie velleità artistiche sin da piccolo dalla giovane zia Elisabeth (che, per la sua pazzia, verrà internata e poi "soppressa" in un campo di concentramento), il protagonista si interessa all'arte moderna, considerata "degenerata" dai nazisti perché mostra un lato deforme e perturbante della realtà. "Questo sapresti farlo anche tu", dice – davanti a un Kandinsky – una guida tedesca a un Kurt ancora bambino. Le cose non migliorano sotto il comunismo, quando Kurt comincia a frequentare l'accademia di belle arti: ogni personalismo è scoraggiato e l'unico stile che è permesso seguire è il realismo socialista, una forma che celebra il popolo ma annulla l'individuo, rendendo gli artisti indistinguibili gli uni dagli altri. Sarà anche per sfuggire a quella che ritiene "pura decorazione", e alla ricerca della verità artistica, che Kurt – con la sua novella sposa Ellie (Paula Beer), figlia di Seeband – fuggirà all'ovest poco prima della costruzione del muro, nel 1961. Si stabilirà a Düsseldorf, epicentro delle correnti più innovative dell'arte moderna tedesca, ma anche qui farà fatica a trovare la propria strada. Dopo molti tentativi sempre più forzatamente originali e bizzarri, tornerà alle basi, ispirandosi a quelle fotografie amatoriali che, a loro modo, esprimono più "verità" di ogni dipinto artificioso e programmatico. E curiosamente troverà il proprio "io" in uno stile artistico in cui i critici, invece, vedono una semplice copia del mondo, la rinuncia a esprimere la personalità del pittore e il suo vissuto autobiografico, creando così "opere senza autore" (e lui glielo lascia credere, mentendo spudoratamente durante la conferenza stampa di presentazione della sua prima esposizione). Il soggetto è ispirato alla vita reale del pittore Gerhard Richter e alla sua biografia firmata da Jürgen Schreiber. Oliver Masucci interpreta l'eccentrico insegnante d'arte Antonius van Verten, a sua volta ispirato a Joseph Beuys. Ottime la regia e la confezione, anche se la fotografia di Caleb Deschanel (peraltro nominata all'Oscar) pecca forse per un eccesso di correzione digitale.
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