12 settembre 2006

Daratt (M. Haroun, 2006)

Daratt – La stagione del perdono (Daratt)
di Mahamat-Saleh Haroun – Ciad 2006
con Ali Barkai, Youssouf Djaoro
***

Visto al cinema Excelsior, in v. orig. sottotitolata
(rassegna di Venezia)

È il film che ha vinto a Venezia il premio speciale della giuria: un'opera che descrive un odio feroce che lentamente si trasforma in amore. Quando il governo proclama un'amnistia che cancella tutti i delitti commessi durante la guerra civile che ha insanguinato il paese negli anni passati, un giovane decide di farsi giustizia da solo e parte alla ricerca dell'uomo che aveva assassinato suo padre prima che lui nascesse. Lo trova a fare il panettiere in una città vicina, ma anziché ucciderlo diventa il suo apprendista e pian piano il bastone della sua vecchiaia, conquistandone l'affetto al punto che il vecchio vorrebbe adottarlo. Un bel film, girato con uno stile secco e diretto ma anche caldo e fragrante come il pane che i due protagonisti sfornano e donano ai bambini che vengono a elemosinare ogni giorno alla loro porta. Anche se non c'entra molto, mi ha fatto pensare a "Pane e fiore" di Mohsen Makhmalbaf... anche lì una pagnotta nascondeva (e aveva la meglio) su un'arma. Ma la vera ispirazione, con ogni probabilità, è data da "Il figlio" dei fratelli Dardenne, dove un simile rapporto di apprendistato nascondeva il rancore di un precedente omicidio (in quel caso era il ragazzo ad aver causato la morte del figlio dell'uomo, ed era quest'ultimo il solo ad esserne consapevole).

2 commenti:

Giorgio ha detto...

Un ragazzo di villaggio del Ciad, il cui padre è stato ucciso nella guerra civile, dopo aver saputo che non ci sarà giustizia perchè è stata proclamata l'amnistia, viene comandato dal nonno di vendicare il padre e uccidere l'assassino. Atif si chiama il ragazzo, che vuol dire l'orfano, e va a N'Djamena e trova l'assassino, un panettiere, dal quale si fa assumere e a contatto del quale vive a lungo, senza riuscire a decidersi a sparargli: tra sentimenti alterni non trova dentro di sé la motivazione ad uccidere. Alla fine porta l'uccisore dal nonno, che, cieco, gli ordina di sparare e compiere così la vendetta, ma il ragazzo non è portato per uccidere e gli salva la vita sparando in aria i due colpi che soddisfano la sete di vendetta del nonno. Fino alla fine non si sa se in Atif prevarrà l'umanità o l'odio e la vendetta, fino alla fine si è coinvolti nei contrastanti sentimenti dei milioni di vittime delle guerre civili, privati spesso della loro umanità ancora più che dei loro parenti ed affetti. Perdono forse non c'è, perdonare forse è di più del semplice lasciar vivere, del semplice rifiutarsi di fare ad altri lo stesso male che hanno fatto a noi; insomma se la vendetta è questo, il dare ad altri lo stesso male che hanno dato a noi, astenersi da quel male non è forse un perdono, ma un rifiuto di sporcarci a nostra volta con il male. Atif invece deve assolvere al dovere che gli è stato caricato sulle spalle dal vecchio nonno, che non a caso è cieco, quasi fosse acciecato dall'odio per chi gli ha portato via il figlio. La via di uscita da un eterna vendetta reciproca non è il perdono ma la rinuncia, l'astinenza, che dai più viene chiamata vigliaccheria. Poverissimo di parole, in parte in comprensibile francese e in parte in lingua africana, e denso di sguardi e gesti – fare il pane è un lavoro di grande contenuto etico – è un eccellente film della nuova cinematografia.

Christian ha detto...

Ciao Giorgio, benvenuto e grazie per la tua recensione! ^^
Ricordo questo film con molto piacere, una di quelle pellicole che parla di temi universali attraverso un piccolo episodio particolare.