28 febbraio 2023

Un eroe (Asghar Farhadi, 2021)

Un eroe (Qahreman)
di Asghar Farhadi – Iran/Francia 2021
con Amir Jadidi, Mohsen Tanabandeh
***

Visto in TV (Now Tv).

In carcere per non aver pagato un debito, Rahim (Amir Jadidi) ha due giorni di permesso da trascorrere in famiglia, durante i quali vorrebbe vendere le monete d'oro contenute in una borsa che afferma di aver trovato per strada, accanto a una fermata d'autobus. Quando si rende conto che il ricavato non basterebbe comunque a soddisfare il suo creditore (Mohsen Tanabandeh), decide invece di restituire la borsa al legittimo proprietario, e a tal fine affigge degli annunci in strada. Una donna si presenta in effetti a reclamare la borsa. E la notizia del gesto disinteressato di Rahim si diffonde rapidamente, trasformandolo suo malgrado in un eroe e un modello di virtù e valore civico. L'uomo viene intervistato in televisione e sui giornali, e sia i responsabili del carcere sia un'associazione benefica ne approfittano per tessergli attorno una narrazione di retorica e di propaganda. Ma pian piano vengono alla luce anche sospetti e illazioni, anonime e sui social media, secondo cui Rahim si sarebbe inventato tutto... Asghar Farhadi torna a girare in Iran per raccontare una parabola ambigua (e mediatica) sull'onestà e l'ipocrisia. Cosa sia accaduto davvero non viene chiarito: Rahim afferma in seguito che la borsa non è stata trovata da lui, ma dalla sua compagna Farkhondeh (Sahar Goldoost), ma le date non coincidono; la proprietaria, dopo esserne tornata in possesso, sparisce nel nulla e non può più essere rintracciata per confermare la sua storia (anche se avrebbe i suoi validi motivi). Ma soprattutto la vicenda mette in luce gli interessi e le ipocrisie dietro ogni narrazione "popolare" di bontà e di successo, con Rahim (e suo figlio, il piccolo e balbuziente Siavash) tirati da tutte le parti per mettere in scena e far apparire nel migliore dei modi al pubblico, di volta in volta, le istituzioni e le organizzazioni carcerarie, la famiglia del debitore e quella del creditore. Parole e azioni servono per "comprare la reputazione", in una compravendita cui inizialmente partecipa lo stesso Rahim, salvo ribellarsi nel finale. Premiato a Cannes con il Grand Prix speciale della giuria, il film è ispirato a una storia vera (ci sono state controversie in proposito, fra il regista e una sua ex studentessa, su chi abbia avuto l'idea) e illustra un (altro) aspetto della società iraniana o, se vogliamo, più in generale del mondo contemporaneo: non mancano le affinità, per esempio, con "Eroe per caso" di Stephen Frears, con Dustin Hoffman.

26 febbraio 2023

Crimes of the future (D. Cronenberg, 2022)

Crimes of the future (id.)
di David Cronenberg – Canada/Grecia 2022
con Viggo Mortensen, Léa Seydoux
**1/2

Visto in TV (Now Tv).

In un futuro in cui l'umanità ha sviluppato l'insensibilità al dolore fisico e una totale resistenza alle malattie infettive, procurarsi tagli e incisioni chirurgiche sul proprio corpo è diventata una forma d'arte, al pari dei tatuaggi, o addirittura una pratica erotica ("La chirurgia è il nuovo sesso"). Saul Tenser (Viggo Mortensen, alla quarta collaborazione con Cronenberg) è appunto un "artista concettuale" di grande fama, che si esibisce in pubblico insieme alla sua partner Caprice (Léa Seydoux), la quale durante le loro performance gli asporta i numerosi organi interni, sempre nuovi e dalle funzioni misteriose, che il suo corpo produce a getto continuo. Ma Saul, sotto copertura, è anche un informatore della New Vice, l'unità del governo contro i crimini corporei, preoccupata per le possibili evoluzioni della biologia umana, che rischiano di trasformare l'uomo in qualcosa di completamente nuovo. E quando Saul viene contattato da Lang Dotrice (Scott Speedman), membro di una setta segreta di "mangiaplastica", affinché esegua in pubblico l'autopsia di suo figlio Brecken, scopre che diversi individui sono interessati a questo nuovo stadio dell'evoluzione umana: uno stadio che, rendendo il corpo umano capace di digerire la plastica e i materiali artificiali, lo porterebbe in maggiore sintonia con il mondo moderno e tecnologico. A otto anni di distanza dal suo ultimo lavoro ("Maps to the stars"), Cronenberg torna alla fantascienza e al body horror, recuperando addirittura un titolo che aveva già usato per uno dei suoi primi lungometraggi (ma non si tratta di un remake, anche se con il film del 1970 condivide diversi temi, a partire dalle mutazioni evolutive e genetiche). Colmo di concetti e immagini bizzarre (la crescita spontanea di tumori vista come una forma di creazione artistica; i mobili e i macchinari viventi, di aspetto quasi "gigeriano", come i letti, le poltrone o i tavoli per le autopsie) e di personaggi ambigui (come i due burocrati del "Registro nazionale degli organi", interpretati da Don McKellar e Kristen Stewart, o le due tecniche-sicari dell'azienda che produce i macchinari medici, Tanaya Beatty e Nadia Litz), il film non è certo avaro di spunti e, anzi, dà adito a interessanti riflessioni sulle possibili evoluzioni della biologia umana, il tutto immerso in un'atmosfera claustrofobica e malsana.

25 febbraio 2023

Marathon (Amir Naderi, 2002)

Marathon - Enigma a Manhattan (Marathon)
di Amir Naderi – USA 2002
con Sara Paul
*1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Una ragazza appassionata di cruciverba gira per New York, impegnata nella sua "maratona" annuale di parole crociate, con l'obiettivo di battere il proprio record di 77 schemi risolti in 24 ore. Il terzo dei quattro film "newyorkesi" di Naderi, dopo "Manhattan by Numbers" (1993) e "A, B, C... Manhattan" (1997), e prima di "Sound Barrier" (2005), è una pellicola underground insolita e sfuggente, girata in bianco e nero e praticamente senza dialoghi, a parte i messaggi vocali lasciati nella segreteria telefonica dalla madre della protagonista e una breve scena in cui un ragazzo (Trevor Moore, anche fonico del film) cerca di attaccare bottone con lei, salvo essere seminato. Non è ben chiaro perché la ragazza si impegni in questa maratona, se non per superare i propri limiti o per una sorta di ossessione personale (le pareti della sua casa sono tappezzate da pagine e pagine di parole crociate). E soprattutto non è chiaro perché dovrebbe interessare a noi spettatori, visto che manca ogni legame emotivo con lei e con il mondo circostante. Anche se la protagonista afferma di riuscire a risolvere i cruciverba soltanto in mezzo alla gente, dove c'è confusione (e dunque per lo più nei vagoni o nelle stazioni della metropolitana, durante l'ora di punta), in realtà non parla né interagisce mai con nessuno. Il film risulta dunque noiosetto (anzi, molto noioso), anche perché – malgrado il sottotitolo italiano – non presenta nessun "enigma" da risolvere, se non quello di chiedersi appunto quale sia il senso dell'operazione. Il profilo di un'ossessiva-compulsiva? O il ritratto fotografico (vedi il b/n "artistico") di una città – e dei suoi mezzi di trasporto – colta nei vari momenti della sua giornata? Ma è quasi un esercizio di stile fine a sé stesso (e senza l'inventiva folle, sia pur intellettuale, di operazioni analoghe come quelle, per esempio, di Peter Greenaway: basti pensare che il contenuto dei cruciverba stessi non è mai menzionato e non ha importanza). Curiosità: è stato il primo film di Naderi a essere distribuito in sala nel nostro paese (i precedenti, compresi i suoi lavori iraniani, erano passati solo in tv su "Fuori orario").

24 febbraio 2023

#IoSonoQui (Eric Lartigau, 2019)

#IoSonoQui (#Jesuislà)
di Eric Lartigau – Francia/Belgio 2019
con Alain Chabat, Bae Du-na
**

Visto in TV (Now Tv).

Stéphane (Alain Chabat), chef e proprietario di un ristorante a conduzione famigliare nella campagna basca, divorziato e in crisi di mezza età, prende per la prima volta nella sua vita una decisione d'impulso e parte in aereo per Seul per conoscere di persona una pittrice coreana (Bae Du-na) con cui era in corrispondenza via internet. La donna però non si presenterà al suo arrivo, e lui trascorrerà diversi giorni all'aeroporto ad attenderla, pubblicando nel frattempo immagini su Instagram: la sua "storia" lo trasformerà senza saperlo in una piccola celebrità e lo aiuterà a riconnettersi con sé stesso e con la famiglia, in particolare con i due figli (Jules Sagot, Ilian Bergala) che vengono a "recuperarlo". Aggiornato all'era dei social media (i messaggi e le immagini che Stéphane posta e riceve compaiono tutti sullo schermo), una sorta di "Lost in translation" franco-coreano, con un protagonista che per ritrovare sé stesso deve volare all'altro capo del mondo ed entrare in contatto con una cultura così differente dalla sua, esemplificata dal concetto del "nunchi", ovvero la capacità di comprendere i sentimenti altrui senza che questi vengano detti esplicitamente, indice di intelligenza emozionale. La parte migliore è quella centrale, ovvero quella ambientata nell'aeroporto di Incheon. Alain Chabat aveva già recitato per Lartigau nella commedia romantica "Prestami la tua mano", che (come questo) avevo scelto di vedere solo per gli interpreti.

22 febbraio 2023

Ararat (Atom Egoyan, 2002)

Ararat - Il monte dell'Arca (Ararat)
di Atom Egoyan – Canada/Francia 2002
con David Alpay, Christopher Plummer
**

Visto in divx.

Ani (Arsinée Khanjian), storica dell'arte canadese di origine armena che ha appena pubblicato un saggio sul pittore Arshile Gorky, viene ingaggiata come consulente dal celebre regista Edward Saroyan (Charles Aznavour), che intende girare un film sul genocidio degli armeni in Turchia nel 1915 e vorrebbe ispirare un personaggio proprio al pittore da bambino. L'occasione fa sì che Raffi (David Alpay), figlio di primo letto di Ani, cominci a interessarsi alla storia del proprio popolo e alla tragedia che ha vissuto, spingendolo a compiere un viaggio in quei luoghi, e in particolare attorno al monte Ararat. Di ritorno dal suo viaggio, sarà interrogato all'aeroporto di Toronto dal doganiere David (Christopher Plummer), che sospetta che stia cercando di introdurre droga nel paese, nascosta nelle scatole di pellicola cinematografica... Un film complesso, corale (ci sono molti altri personaggi: da Celia (Marie-Josée Croze), sorellastra e amante di Raffi, che incolpa Ani del suicidio del proprio padre; a Philip (Brent Carver), figlio gay di David, che deve recuperare il rapporto con lui; dal turco Ali (Elias Koteas), compagno di questi, nonché l'attore che interpreta il governatore ottomano Jevdet Bey, il "cattivo" del film; a Martin (Bruce Greenwood), l'attore che invece interpreta il "buono", Clarence Ussher, missionario americano in Turchia), e che intreccia temi molteplici e profondi. Forse mette fin troppa carne al fuoco, per di più in modo cronologicamente destrutturato (senza contare gli inserti metacinematografici, ovvero le molte scene del "film nel film"), ma nonostante un approccio difficile non manca di suscitare l'interesse dello spettatore verso una tragedia "dimenticata" o negata, che viene raccontata basandosi su fonti e documenti storici (come le memorie di Ussher, vissuto realmente). Il tema del genocidio armeno si porta appresso quello del rapporto con il proprio passato, che si tratti di un intero popolo o delle radici famigliari: tanti personaggi hanno genitori o antenati che hanno vissuto l'esodo (la madre del regista, per esempio) o ne sono stati segnati (il padre di Raffi), aspetti della vita di Gorky riecheggiano nelle esistenze dei personaggi contemporanei (il suicidio, il rapporto con la madre), la rappresentazione artistica (pittura, cinema, diario) diventa un modo di portare una testimonianza alle generazioni future. In più abbiamo riflessioni sul male, sulla natura umana (che il doganiere, con le sue indagini, cerca di comprendere), sul contrasto fra verità e bugie, e sulle relazioni fra genitori e figli. Molto, forse troppo, per un film comunque lodevole nei suoi intenti (un po' meno nei risultati), ben girato e con un buon cast. Eric Bogosian è Rouben, l'assistente del regista; Garen Boyajian e Simon Abkarian interpretano il pittore Arshile Gorky rispettivamente da ragazzino (nel film) e da adulto. Il didascalico sottotitolo italiano è senza senso, visto che dell'Arca dell'alleanza non si fa menzione (il monte Ararat è usato solo come simbolo e luogo geografico).

20 febbraio 2023

È andato tutto bene (François Ozon, 2021)

È andato tutto bene (Tout s'est bien passé)
di François Ozon – Francia 2021
con Sophie Marceau, André Dussollier
***

Visto in TV (Now Tv).

L'ottantenne André Bernheim (André Dussollier), collezionista d'arte, viene colpito da un ictus ed è ricoverato in ospedale. Rimasto semi-paralizzato, chiede alla figlia Emmanuèle (Sophie Marceau) di aiutarlo a "farla finita". Ogni tentativo da parte della donna, e della sorella Pascale (Géraldine Pailhas), di fargli cambiare idea si rivela inutile: l'uomo è irremovibile e ostinato, e nonostante la sua salute lentamente migliori, soltanto l'idea della morte sembra recargli conforto. Alla fine Emmanuèle si rivolge a un'associazione svizzera che promuove il suicidio assistito. E pur sapendo di contravvenire alla legge francese, nonché combattuta fra la scelta di impedirgli di morire o quella di consentirgli di farlo (entrambe per amore), farà partire il padre per il suo ultimo viaggio. Tratto dal romanzo autobiografico di Emmanuèle Bernheim, già sceneggiatrice per Ozon di "Sotto la sabbia", "Swimming pool" e "CinquePerDue" (significativa la scena in cui André dice che la storia sarebbe un soggetto perfetto per uno dei suoi libri), un film delicato ed elegante che affronta il tema dell'eutanasia con grande misura e sensibilità, senza mai risultare retorico né ricattatorio. Il rapporto del padre con la figlia (ma anche con l'ex moglie) non è certo idilliaco, come confermano i brevi flashback o le relazioni con gli altri membri della famiglia (per non parlare di quella con "l'amico" gay), eppure tutto il dilemma – venato di sofferenza ed esitazione – di una scelta così radicale viene perfettamente alla luce. Il punto di vista è sempre quello della figlia, mai del padre, descritto come determinato, testardo e irremovibile in una scelta che ad altri può apparire assurda o insensata. E la pellicola arricchisce la vicenda con una grande attenzione al vissuto quotidiano attraverso tanti piccoli dettagli (le lenti a contatto, il panino al salmone, la musica di Brahms, gli "sfoghi" di Emmanuèle con il pugilato o i film horror). Eccellente il cast (straordinario, in particolare, Dussollier), con piccoli ruoli per Charlotte Rampling (la madre), Hanna Schygulla (la signora svizzera) e Nathalie Richard (la commissaria di polizia). Il sempre ottimo Ozon aveva già affrontato il tema della malattia e della morte, ma da tutt'altra prospettiva, ne "Il tempo che resta".

19 febbraio 2023

Il sale della terra (Wim Wenders, 2014)

Il sale della Terra (The Salt of the Earth)
di Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado – Brasile/Francia 2014
con Sebastião Salgado
**1/2

Visto in TV (Prime Video).

Documentario che ripercorre la vita e la carriera del fotografo brasiliano Sebastião Salgado, realizzato da Wenders con il contributo del figlio dello stesso Salgado come aiuto regista. Figlio di un fazendeiro del Minas Gerais e destinato a una carriera di economista, Salgado fuggì dalla dittatura militare per rifugiarsi in Francia. Qui, incoraggiato dalla moglie Lélia, scoprì la sua vera vocazione, quella di fotografo. E mosso da una forte empatia verso la condizione umana, convinto che gli esseri umani siano "il sale della Terra", nei suoi scatti ne ha ritratto di volta in volta la laboriosità (le attività delle comunità di contadini "senza terra" nel Nord-est del Brasile), le sofferenze (la fame provocata da siccità e carestie in Etiopia e in Mali), le tribolazioni (i viaggi dei migranti e dei rifugiati che fuggivano dal Rwanda o dall'ex Jugoslavia), sempre interrogandosi sul proprio ruolo di fotografo come testimone di tragedie, guerre, catastrofi umanitarie, che si trattasse di documentare gli incendi dei pozzi di petrolio in Kuwait, le miniere d'oro a cielo aperto in Brasile, o la vita di tribù che hanno vissuto isolate dal mondo moderno come gli Yali dell'Indonesia o gli Zo'é del Brasile. Infine, tornato nel paese natìo (dove, insieme alla moglie, intraprenderà un'attività di ripristino della foresta pluviale che era stata disboscata da gran parte della regione), si dedicherà a un nuovo progetto fotografico inteso come "omaggio al pianeta e alla natura", ritraendo animali, luoghi e persone che vivono come all'alba dei tempi. Con la voce narrante dello stesso Wenders e lunghi monologhi di Salgado, il documentario è interessante e presenta sullo schermo molti degli scatti del fotografo, anche se proprio questo aspetto lo rende poco "cinematografico" e quasi una carrellata di immagini fisse (fanno eccezioni alcuni documenti filmati sui suoi viaggi).

18 febbraio 2023

Un milione di anni fa (Don Chaffey, 1966)

Un milione di anni fa (One Million Years B.C.)
di Don Chaffey – GB 1966
con Raquel Welch, John Richardson
*1/2

Visto su YouTube, per ricordare Raquel Welch.

In un mondo primitivo e selvaggio, il cavernicolo Tumak (John Richardson) è scacciato dalla sua tribù (quella delle "rocce"), ma viene accolto da un'altra (quella delle "conchiglie"), dove conosce la bella Loana (Raquel Welch). Capostipite del filone "preistorico" (anche se a tutti gli effetti è un remake di una precedente pellicola americana del 1940, "Sul sentiero dei mostri"), questo film è degno di nota per due cose soltanto: i dinosauri e/o mostri giganti realizzati in stop motion da Ray Harryhausen, e la notevole presenza di Raquel Welch in bikini di pelliccia, che divenne all'istante un sex symbol e un'icona di costume degli anni sessanta (il ruolo era stato inizialmente offerto a Ursula Andress, che lo rifiutò). Per il resto, la trama è esile e fumettistica, e la ricostruzione storica è risibile e colma di anacronismi, a cominciare dall'assurdo titolo (un milione di anni?) e dalla convivenza fra uomini e dinosauri. Parlando di quest'ultimi: oltre a un allosauro, un paio di pteranodonti, un triceratopo e un ceratosauro (che lottano fra loro), ci sono anche varie creature con fattezze di animali giganti (mostri-pesci, tartarughe, serpenti, iguane, tarantole...). Da notare il contrasto fra le due tribù: quella di Tumak (con i capelli scuri) è più violenta, quella di Loana (con i capelli biondi) più civilizzata. Il film è privo di dialoghi: a parte un narratore "documentaristico" nelle scene iniziale, tutti i personaggi si esprimono solo tramite singole parole (i loro nomi, per lo più) e suoni gutturali. Gli esterni sono stati girati alle isole Canarie. Naturalmente l'eruzione vulcanica e il terremoto nel finale sono realizzati con modellini ed effetti pionieristici (che ricordano il cinema muto dei primordi). Nonostante i suoi molti difetti, la pellicola ebbe un grande successo di pubblico, divenne un fenomeno culturale e portò alla realizzazione di seguiti, imitazioni e parodie: rivista oggi, purtroppo, sembra essa stessa una parodia (nello stile di Mel Brooks).

16 febbraio 2023

Matinee (Joe Dante, 1993)

Matinee (id.)
di Joe Dante – USA 1993
con John Goodman, Cathy Moriarty
***

Rivisto su YouTube.

Nell'ottobre del 1962, mentre le paure della guerra fredda e di un conflitto nucleare prendono sempre più piede negli Stati Uniti (sono i giorni della crisi dei missili di Cuba), il produttore cinematografico Lawrence Woolsey (John Goodman), specializzato in B-movie horror e di fantascienza, giunge nella cittadina di Key West in Florida per presentare la sua ultima pellicola, "Mant!" (l'assurda storia della fusione fra un uomo e una formica, innescata – neanche a dirlo – dalla radioattività), che sarà proiettata in anteprima con straordinari "effetti speciali" realizzati direttamente in sala ("in Atomo-vision e Rombo-rama!"). Fra gli spettatori ci sono soprattutto ragazzini, appassionati di film di mostri (formiche giganti, in questo caso), come Gene Loomis (Simon Fenton), figlio di un soldato della vicina base militare, il cui padre è stato mandato in missione ad attuare il blocco navale attorno a Cuba. Le paure degli adulti fuori dal cinema (la guerra nucleare sembra ormai imminente) si riflettono così in quelle dei ragazzi al suo interno (provocate ad arte da Woolsey, con i suoi trucchi "pubblicitari"), mentre una serie di problemi tecnici mette a repentaglio la proiezione ma la rende al tempo stesso ancora più memorabile. Oltre a ritrarre sullo schermo un delicato momento della storia americana, la pellicola è dunque anche un omaggio alla magia del cinema e a quei film così ingenui ma visceralmente capaci di stimolare l'immaginario collettivo. Dopo tutto, "la paura aiuta ad apprezzare di essere vivi". Il personaggio di Lawrence Woolsey è ispirato a William Castle (anche se molti lo scambiano per Alfred Hitchcock). Cathy Moriarty interpreta la compagna di Woolsey nonché l'attrice di "Mant!". Particina per un'allora sconosciuta Naomi Watts (è l'attrice del film sul "carrello della spesa"). Dick Miller e John Sayles, frequenti collaboratori di Dante, sono i due uomini che protestano davanti al cinema.

14 febbraio 2023

L'eterna illusione (Frank Capra, 1938)

L'eterna illusione (You can't take it with you)
di Frank Capra – USA 1938
con Jean Arthur, James Stewart
**

Rivisto in divx.

Il ricco banchiere Anthony P. Kirby (Edward Arnold) sta per portare a termine un grosso affare, con l'acquisto di un intero quartiere della città di cui intende abbattere le case per costruire una grande fabbrica siderurgica. A mettergli i bastoni fra le ruote è il vecchio Martin Vanderhof (Lionel Barrymore), l'unico che non vuole vendergli la propria dimora, dove conduce uno stile di vita quantomeno eccentrico insieme alla propria famiglia, seguendo le proprie passioni in totale libertà anziché i dettami di una società basata sul guadagno, il capitalismo e la burocrazia. Kirby ignora inoltre che Alice Sycamore (Jean Arthur: il personaggio si chiama Lisa nel doppiaggio italiano), la segretaria di cui suo figlio Tony (James Stewart) è innamorato e che intende sposare, è la nipote proprio di Vanderhof. Ma la frequentazione della famiglia di lei, povera ma serena, nonché il rischio di perdere il figlio, gli faranno capire che è inutile passare il tempo ad accumulare ricchezza e potere a scapito della propria felicità, visto che il denaro "non lo si può portare con sé". Tratto dalla commedia teatrale di George S. Kaufman e Moss Hart (vincitrice del premio Pulitzer per il 1936), sceneggiata da Robert Riskin, un film ricolmo del solito populismo anni trenta di Capra, bordato di buonismo e retorica sulla felicità dei semplici (ma anche conseguenza dei traumi della Grande Depressione). La famiglia allargata di Vanderhof (di cui fanno parte non solo i parenti – la figlia, il genero, le nipoti – ma anche amici vari che, seguendo il suo insegnamento, hanno lasciato impieghi noiosi o stressanti per dedicarsi a ciò che desiderano veramente) trascorre le giornate in una gioiosa anarchia, dedicandosi all'arte o alle invenzioni (c'è chi dipinge, chi scrive, chi fa musica, chi danza, chi costruisce giocattoli o fuochi d'artificio), e vivendo tutti insieme nella grande casa (con laboratorio sotterraneo annesso) come se fosse una "comune". Vanderhof stesso, un po' per gioco ma un po' anche seriamente, afferma di non capire perché si debbano pagare le tasse, propugnando una società in cui ognuno faccia quel che desideri e segua i propri sogni senza costrizioni. La confusione comica è anarchica e generalizzata, e molti dei personaggi e delle situazioni che creano sono talmente carefree da ricordare più un cartone animato che un film (e infatti si cita più volte Walt Disney, in un caso anche menzionandolo esplicitamente). A dare un po' di spessore all'insieme c'è il tema del contrasto sociale fra ricchi (snob) e poveri (ma generosi e con tanti amici), e quello dell'incontro fra le due famiglie di origine dei promessi sposi, che lo rende quasi un capostipite del filone di "Ti presento i miei". Stewart e la Arthur sono protagonisti sono nominali: di fatto i due capofamiglia, Barrymore e Arnold, sono le figure davvero centrali della vicenda (e infatti sulla locandina i nomi dei quattro attori hanno lo stesso spazio). Il cast corale comprende anche Donald Meek (l'impiegato che si licenzia per costruire giocattoli), Mischa Auer (il maestro di ballo russo), Spring Byington, Ann Miller, Samuel S. Hinds, Dub Taylor (i famigliari di Alice) e Mary Forbes (la madre di Tony). Barrymore recita per tutto il film con le stampelle perché soffriva di artrite. La pellicola vinse il premio Oscar come miglior film (il secondo per Capra, dopo "Accadde una notte") e per la regia (il terzo in cinque anni, contando anche "È arrivata la felicità").

13 febbraio 2023

L'illusione viaggia in tranvai (Luis Buñuel, 1954)

L'illusione viaggia in tranvai (La ilusión viaja en tranvía)
di Luis Buñuel – Messico 1954
con Carlos Navarro, Lilia Prado, Fernando Soto
**1/2

Rivisto in DVD.

Ubriachi dopo la festa del quartiere, due impiegati dell'azienda dei trasporti di Città del Messico – Juanito (Carlos Navarro) e Tobías (Fernando Soto) – prendono "in prestito" un vecchio tram destinato allo smantellamento per compiere un'ultima scorribanda notturna per le strade della città. Ma il loro tentativo di riportarlo nell'officina la mattina seguente, prima di essere scoperti, sarà messo a repentaglio da numerosi intralci e disavventure... Presentata dalla voce narrante come "una delle tante storie semplici di persone umili e laboriose, che essi vivono nella speranza di realizzare un sogno, un desiderio, un'illusione", la pellicola racconta con toni da commedia leggera un episodio forse insignificante ma che contribuisce a tracciare un ritratto della vita cittadina attraverso le peripezie dei suoi abitanti, che siano ricchi o poveri, ignoranti o istruiti, occupati o nullafacenti, onesti o criminali. E un Buñuel che lentamente si sta affrancando dal cinema commerciale messicano per tornare ai propri interessi autoriali non si risparmia qualche sberleffo alla religione (la recita teatrale "popolare" sull'angelo caduto e la tentazione nell'Eden) e qualche accenno di carattere sociale (il contrasto fra i passeggeri benestanti del tram e quelli proletari) o economico (il professore che spiega l'inflazione al guardiano dell'officina). Lilia Prado è la bella Lupe, sorella di Tobías e oggetto del desiderio di Juanito; Agustín Isunza è Papá Pinillos, tranviere in pensione, zelante e impiccione, che minaccia di denunciare il furto del tram alla direzione.

11 febbraio 2023

A time to live, a time to die (Hou Hsiao-hsien, 1985)

Ricordi dell'infanzia (Tong nien wang shi)
di Hou Hsiao-hsien – Taiwan 1985
con Yu An-shun, Tien Feng, Mei Fang
***

Rivisto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Il piccolo Hsiao (chiamato da tutti "Ah-ha") cresce nella Taiwan degli anni cinquanta e sessanta, dove suo padre si è trasferito nel 1947 fuggendo dalla Cina continentale. Diviso in due parti, nelle quali il protagonista ha rispettivamente dieci e diciotto anni, il film è ispirato alle memorie di gioventù del regista stesso, e rappresenta il secondo tassello di una trilogia di "ricordi dell'infanzia" dopo il precedente "In vacanza dal nonno" (basato sulle memorie dello sceneggiatore Chu Tien-wen, collaboratore abituale di HHH) e prima del successivo "Dust in the wind" (basato su quelle dell'altro co-sceneggiatore Wu Nien-jen). La quotidianità di un microcosmo domestico e rurale, le difficoltà economiche e politiche, i lutti in famiglia (nelle due sezioni Hsiao perde rispettivamente il padre, malato di tubercolosi, e poi la madre, per un tumore alla gola), i rapporti con la nonna svampita (che progetta in continuazione di tornare "in patria", ovvero in Cina), la sorella maggiore, i tre fratelli, gli amici, le ragazze... tutto contribuisce a una narrazione delicata e avvolgente, con un ritmo naturale e mai noioso, dove l'insieme è la somma delle parti. E le ripetute inquadrature dei medesimi ambienti (la strada fuori dalla casa di famiglia, con il grande albero che la sovrasta; gli interni domestici, come la stanza con la scrivania del padre), lungo il trascorrere degli anni, donano un legame emotivo al tutto. Più che nostalgico o celebrativo, lo sguardo rivolto al passato è rievocativo, triste e malinconico (la crescita del protagonista va di pari passo con gli inevitabili cambiamenti e la dissoluzione famigliare), mai edulcorato (in particolare nella seconda parte, quando Hsiao finisce sulla "cattiva strada", fra ribellioni a scuola e risse fra bande rivali). Commovente il finale. Il titolo inglese (scritto a volte anche come "The time to live and the time to die") è ispirato a quello di un film di Douglas Sirk del 1958, noto in Italia come "Tempo di vivere".

10 febbraio 2023

Cavalcata (Frank Lloyd, 1933)

Cavalcata (Cavalcade)
di Frank Lloyd – USA 1933
con Diana Wynyard, Clive Brook
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Dal capodanno del 1900 a quello del 1933, una "cavalcata" di eventi storici, per lo più tragici (il succedersi dei momenti e il trascorrere degli anni è rappresentato dalle immagini di una fila di cavalieri medievali in continua marcia), che sconvolgono l'Impero Britannico e, nel privato, la vita di una benestante famiglia londinese. Robert Marryot (Clive Brook) parte come volontario per la guerra in Africa contro i boeri, lasciando da sola la moglie Jane (Diana Wynyard) e i due figlioletti Edward e Joe. Ma tornerà sano e salvo (e sarà fatto cavaliere dalla regina Vittoria), e con lui anche il maggiordomo Alfred Bridges (Herbert Mundin), che si "emanciperà" acquistando un pub. I due figli dei Marryot moriranno rispettivamente nella tragedia del Titanic (Edward) e nella Grande Guerra (Joe, ucciso il giorno stesso dell'armistizio, come il Paul Bäumer di "Niente di nuovo sul fronte occidentale"), mentre nel frattempo il mondo cambia, i regnanti si succedono, e nuove idee e rivoluzioni sociali e politiche sconvolgono la vita e l'ordine mondiale, ben rappresentate – con un certo pessimismo – dalla canzone "Twentieth Century Blues" cantata da Fanny (Ursula Jeans), la figlia di Alfred, in un cabaret. Dal dramma teatrale di Noël Coward, una pellicola che ebbe un grande successo all'epoca (vinse il premio Oscar per il miglior film, oltre a quelli per la regia e le scenografie) ma che, vista oggi, mostra molti suoi limiti: in particolare una regia ingessata, una recitazione forzata e antinaturalistica, e una sceneggiatura che accatasta una successione di eventi senza un vero collante, se non quello della storia che procede indefessa, schiacciando le vite degli esseri umani. Comunque un paio di sequenze meritano la visione, come quella del Titanic (con la rivelazione a sorpresa del nome della nave attraverso un salvagente, una trovata poi ripresa da Terry Gilliam ne "I banditi del tempo") e quella della prima guerra mondiale (con un montaggio sempre più cupo e drammatico di immagini di soldati che cadono in battaglia: le scene della guerra sono state realizzate da William Cameron Menzies). Ed è da apprezzare il legame con l'attualità: in effetti, agli inizi degli anni trenta (il dramma di Coward è del 1931) c'era la sensazione diffusa che il mondo stesse andando a rotoli o alla deriva, cosa che sarà purtroppo confermata negli anni successivi. Non è molto diverso da come ci sentiamo oggi, fra pandemie, nazionalismi e guerre: speriamo che gli sviluppi siano diversi... Nel cast corale, Una O'Connor è Ellen, la cameriera dei Marryot nonché madre di Fanny; Irene Browne è Margaret, amica di famiglia e madre di Edith, che diventerà la moglie di Edward; e John Warburton e Frank Lawton sono rispettivamente i due figli Edward e Joe da adulti. Un film basato su un'idea simile (la guerra e gli eventi politici visti dagli occhi di chi rimane a casa), "La signora Miniver", vincerà l'Oscar anche nove anni più tardi.

8 febbraio 2023

Gli spiriti dell'isola (Martin McDonagh, 2022)

Gli spiriti dell'isola (The Banshees of Inisherin)
di Martin McDonagh – Irlanda/GB/USA 2022
con Colin Farrell, Brendan Gleeson
***1/2

Visto al cinema Colosseo, con Marisa, in originale con sottotitoli.

Mentre in Irlanda infuria la guerra civile (siamo nel 1923), sulla piccola isola di Inisherin, al largo della terraferma, si svolge un altro tipo di guerra: quella fra Pádraic (Colin Farrell) e Colm (Brendan Gleeson), migliori amici da sempre, o almeno fino a quando il secondo – artista e musicista dilettante – ha deciso unilateralmente di non voler più avere niente a che fare con il primo – piccolo allevatore – e di rifiutarne la compagnia. Questo perché, a suo dire, l'amico è "noioso", gli fa sprecare il suo tempo e lo distrae dal tentativo di comporre qualcosa (come la canzone che dà il titolo originale al film) destinato a restare dopo la sua morte. Il semplice e gentile Pádraic ci resta male, e fa di tutto per riconnettersi con l'amico, che dal suo canto dimostra la propria ostinazione nel modo più drastico. E in una piccola isola dove tutti sanno e sparlano di tutti (memorabili i personaggi di contorno, quasi un "coro" greco: dall'oste e dagli avventori del pub, al prete, al poliziotto, alla vecchia "strega" con le sue previsioni funeree), anche altri personaggi si sentono rinchiusi nella trappola di un microcosmo angusto: la sorella di Pádraic, Siobhán (Kerry Condon), appassionata di letteratura e come tale ritenuta eccentrica dagli abitanti dell'isola; e il giovane Dominic (Barry Keoghan), lo "scemo del villaggio", figlio del poliziotto locale da cui viene maltrattato e abusato. L'isola di Inisherin, con i suoi magnifici scenari naturali (le scogliere rocciose, i campi verdi e pietrosi, le spiagge deserte), fa da sfondo perfetto a una vicenda "piccola" ma in qualche modo universale, che vede personaggi mettere a confronto diverse filosofie di vita (l'ambizione umana e artistica di "fare qualcosa di importante" per non sprecare la propria esistenza, contro il desiderio di restare gentili e compassionevoli e di cercare la felicità nell'"ora e qui"), entrambe valide, tanto che non si può dire che uno dei due punti di vista sia sbagliato o migliore dell'altro. E l'intensità della narrazione si colora occasionalmente di toni comici, grotteschi o persino soprannaturali. Eccellente il cast (sia Farrell che Gleeson avevano già recitato in coppia per McDonagh nel precedente "In Bruges"). Espressivi anche gli animali (l'asina e la puledra di Pádraic, il cane di Colm), che osservano con i loro sguardi il dipanarsi della vicenda. Premio per la miglior sceneggiatura (e coppa Volpi a Farrell come miglior attore) alla mostra del cinema di Venezia. Nove candidature agli Oscar: quelle per il miglior film, la regia, la sceneggiatura, il montaggio, la colonna sonora, e ben quattro per gli attori (Farrell, Gleeson, Keoghan e Condon).

6 febbraio 2023

Everything everywhere all at once (Daniels, 2022)

Everything everywhere all at once (id.)
di Daniel Kwan, Daniel Scheinert – USA 2022
con Michelle Yeoh, Ke Huy Quan
***

Visto al cinema Colosseo.

Evelyn Wang (Michelle Yeoh), cinese di mezza età e proprietaria di una lavanderia a gettoni negli Stati Uniti, ha parecchie cose per la testa, e tutte insieme: una relazione in crisi con il marito Waymond (Ke Huy Quan), un rapporto difficile con la figlia gay e ribelle Joy (Stephanie Hsu), l'arrivo dalla Cina del padre vecchio e malato (James Hong), una visita fiscale in corso da parte dell'ispettrice Deirdre Beaubeirdre (Jaime Lee Curtis), i preparativi per la festa del capodanno cinese che si terrà proprio nel suo negozio. E come se non bastasse, è sopraffatta dai rimpianti per le vite che non ha vissuto, lei che in gioventù sognava di volta in volta di diventare una cantante, un'attrice, una cuoca, un'esperta di arti marziali... Ma tutte queste potenzialità si sono avverate in vari universi paralleli, fra i quali acquisterà la capacità di spostarsi, muovendosi da una realtà all'altra – e acquisendo le capacità dei suoi alter ego – per salvare l'insieme di tutti i mondi ("una sovrapposizione quantistica di stati vibrazionali") dalla distruzione minacciata da un agente del caos, Jobu Tupaki (una variante "nichilista" di Joy). Il concetto di "multiverso" è diventato particolarmente popolare negli ultimi anni, grazie a film (e serie tv) come quelli della Marvel: ma questo lungometraggio – opera seconda del duo di registi e sceneggiatori Kwan e Scheinert, noti collettivamente come "i Daniels" – lo rappresenta e lo sviluppa in maniera molto più accattivante ed estesa rispetto alle pellicole di supereroi, legandolo al vissuto interiore di un personaggio, alle sue aspirazioni e ai suoi rimpianti. Visionario, surreale e onirico (e debitore a certe cose di Charlie Kaufman e Terry Gilliam), il film fonde introspezione, azione e comicità assurdista senza fermarsi davanti a nulla, che si tratti di mostrare universi sempre più improbabili (come quello in cui le persone hanno wurstel al posto delle dita, quello in cui un procione manovra uno chef come il topo di "Ratatouille", o quelli in cui gli esseri umani sono cartoni animati, pupazzi o addirittura... sassi!), o di sfruttare elementi dalla comicità demenziale intrinseca (per "saltare" da un universo all'altro occorre compiere un'azione altamente improbabile, con esiti surreali; e la distruzione di tutto il multiverso è minacciata da un... bagel, ossia una ciambella dolce). Film del genere – che procedono per accumulo di elementi random, hanno un approccio relativista e non sembrano prendere nulla sul serio: si pensi per esempio a "Mr. Nobody" di Jaco Van Dormael – di solito mi infastidiscono ("Quando ci metti di tutto, nulla ha più importanza", viene detto nella pellicola stessa): ma in questo caso la problematica è affrontata direttamente (a Evelyn, che afferma di non essere "brava a fare niente", viene spiegato che proprio per questo motivo ha a disposizione un enorme numero di potenzialità). Inoltre, nonostante il messaggio finale non sia poi così profondo (come sempre la chiave di tutto è l'amore, insieme all'accettazione e alla reciproca comprensione), il divertimento è sorretto da un'inventiva senza limiti (fra le mille trovate, anche quelle metacinematografiche, come i finti titoli di coda a metà pellicola o citazioni alterate quali "Io sono tua madre!") e, soprattutto, da un cast eccellente che comprende molti interpreti legati agli anni ottanta e novanta (la Yeoh, forse alla prova migliore della sua carriera, e la Curtis, ma anche James Hong, ossia il Lo Pan di "Grosso guaio a Chinatown"), alcuni dei quali letteralmente recuperati dall'oblio (Ke Huy Quan, celebre come attore bambino in "Indiana Jones e il tempio maledetto" e "I Goonies", non recitava più da vent'anni!). I Daniels avevano iniziato a pensare il film per Jackie Chan, prima di cambiare idea in favore di una protagonista femminile, mentre l'ottima Stephanie Hsu ha sostituito la prima scelta Awkwafina. Ruoli minori e cameo (fra gli altri) per Harry Shum Jr., Jenny Slate, Tallie Medel e Michiko Nishiwaki. Enorme il riscontro critico, con undici nomination agli Oscar (fra cui quelle per il film, la regia, la sceneggiatura originale, e ben quattro interpreti: Yeoh, Ke Quan, Curtis e Hsu).

5 febbraio 2023

Primo caso, secondo caso (A. Kiarostami, 1979)

Primo caso, secondo caso (Ghazieh-e shekl-e aval, ghazieh-e shekl-e dovom)
di Abbas Kiarostami – Iran 1979
con attori non professionisti
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Uno studente indisciplinato, seduto in fondo alla classe, disturba la lezione facendo rumore sul banco. Non riuscendo a identificare il responsabile, l'insegnante fa uscire dall'aula tutti i sette alunni dell'ultima fila, minacciando di lasciarli in punizione in corridoio per l'intera settimana, a meno che uno di loro non riveli chi era il colpevole. Dopo aver intervistato i genitori dei ragazzi, chiedendo loro come dovrebbero comportarsi (fare la spia oppure no?), Kiarostami proietta a questi e a un gruppo di educatori, intellettuali, leader politici e religiosi, due differenti "finali" della storia: nel primo caso, dopo due giorni uno degli studenti, seppure a malincuore, denuncia il compagno colpevole e viene così riammesso in classe a seguire le lezioni; nel secondo caso, tutti e sette gli alunni "resistono" per l'intera settimana senza tradirsi a vicenda. In entrambi i casi gli intervistati esprimono le proprie opinioni sull'accaduto. La maggior parte di essi elogia l'unità mostrata dagli alunni e condanna l'eventuale "traditore", in nome dei valori della solidarietà all'interno di una comunità o di un gruppo di appartenenza. Le critiche vengono invece rivolte per lo più all'insegnante, per averli messi in quella situazione, e al sistema educativo, visto come specchio di una società oppressiva, che incoraggia la delazione e il tradimento e che reprime la personalità dei suoi membri. Naturalmente, però, c'è anche chi condanna il comportamento indisciplinato di alunni che dovrebbero pensare soprattutto a studiare e a rispettare le regole. E quello che era un comune episodio di vita scolastica si colora di interpretazioni sociali e politiche. All'apparenza uno dei tanti corti e mediometraggi di ambientazione scolastica e dagli intenti pedagogici diretti da Kiarostami per conto del Kanun, l'Istituto per lo Sviluppo Intellettuale dei Bambini e degli Adolescenti (non dissimile, per esempio, dal precedente "Due soluzioni per un problema"), questo film di una cinquantina di minuti è in realtà un importante documento della transizione dell'Iran da repubblica laica a stato islamico. Proprio mentre il regista lo stava completando, infatti, la rivoluzione guidata dall'ayatollah Khomeini rovesciava la monarchia e il regime dello scià, costringendo di fatto il regista a modificare il progetto (il "secondo caso" venne aggiunto in corso d'opera) e a cambiare la struttura del film, eliminando parte dei commenti già girati e aggiungendone di altri (in particolare le interviste ad alcuni dei "nuovi" leader politici e religiosi del paese). Ciò nonostante, il film venne vietato dalla censura (forse perché mostra comunque un dibattito non allineato, caratterizzato da una grande varietà di opinioni) ed è rimasto a lungo inaccessibile. Curiosità: gli alunni in piedi nel corridoio ricordano "I soliti sospetti".

4 febbraio 2023

Soluzione (Abbas Kiarostami, 1978)

Soluzione (Rah hal-e yek)
di Abbas Kiarostami – Iran 1978
con Ali Asghar Mirzaei
**1/2

Visto su Internet Archive.

Un uomo e il suo pneumatico, su una strada di montagna, sono i protagonisti di questo cortometraggio di 11 minuti, del tutto privo di dialoghi (ci sono solo i rumori ambientali nella prima parte, quella dedicata all'attesa, e un gradevole accompagnamento musicale nella seconda, più dinamica). Il giovane è fermo sul ciglio della strada. Sta facendo l'autostop, aspettando qualcuno che gli dia un passaggio per tornare alla sua macchina con la gomma appena riparata. Ma nessuna delle auto e dei mezzi pesanti che circolano sulla strada si ferma. Allora, dopo una lunga attesa, l'uomo decide di avviarsi a piedi da solo, di corsa, facendo rotolare il pneumatico in discesa lungo la strada. È un percorso che si fa sempre più rapido e giocoso, attraverso tunnel e ponti, tornanti e scarpate, fino alla tanto agognata destinazione. Come sempre, Kiarostami sa ottenere molto con poco. E ci fa partecipare alla piccola odissea del protagonista grazie alla fusione di immagini e musica, ambiente (le montagne e le rocce circostanti, ricoperte di neve) e colori, in un film "piccolo" ma dove tutto – regia, fotografia, montaggio e sonoro – collabora alla perfezione. In un certo senso è il trionfo del cinema nella sua forma più "pura". E il protagonista è quasi una versione adulta dei tanti bambini, curiosi e intraprendenti, ritratti dal regista nei suoi corti precedenti.

2 febbraio 2023

Stop (Kim Ki-duk, 2015)

Stop (Seutop)
di Kim Ki-duk – Giappone/Corea del Sud 2015
con Natsuko Hori, Tsubasa Nakae
**

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Sabu (Tsubasa Nakae) e Miki (Natsuko Hori) abitano a pochi chilometri dalla centrale nucleare di Fukushima. Quando il reattore viene danneggiato durante il terremoto del 2011, la giovane coppia è costretta ad evacuare la propria casa e a rifugiarsi a Tokyo. Miki, che è incinta, comincia a preoccuparsi che il feto dentro di lei sia rimasto esposto alle radiazioni. Per convincerla a non abortire, Sabu si offre di tornare nella zona contaminata a fotografare gli animali lì presenti, per dimostrarle che non hanno subito conseguenze. Ma ciò cui assisterà gli farà cambiare idea, tanto che si imbarcherà in una crociata contro il consumo di elettricità, convinto che sia proprio l'enorme dipendenza energetica delle grandi città, come Tokyo, a giustificare l'uso delle centrali nucleari... Girato con un budget bassissimo e una sceneggiatura esile, questo film "giapponese" di KKD è alquanto banalotto nei temi e soffre per una caratterizzazione ondivaga dei personaggi, che passano in un istante da un comportamento sensato a un altro decisamente folle. Eppure è interessante come la paura e la diffidenza del nucleare, dopo svariati decenni, tornino a far capolino nel cinema dell'estremo oriente (si pensi a "Testimonianza di un essere vivente" o "Sogni" di Kurosawa).

31 gennaio 2023

Niente di nuovo sul fronte occidentale (E. Berger, 2022)

Niente di nuovo sul fronte occidentale (Im Westen nichts Neues)
di Edward Berger – Germania/USA 2022
con Felix Kammerer, Albrecht Schuch
**1/2

Visto in TV (Netflix).

Le vicende del giovanissimo soldato tedesco Paul Bäumer (Felix Kammerer) e dei suoi commilitoni, fra cui il più "esperto" Stanislaus 'Kat' Katczinsky (Albrecht Schuch), sul fronte francese della prima guerra mondiale (il film si svolge dalla primavera del 1917 fino al novembre del 1918, quando viene firmato l'armistizio), impegnati in una sporca "guerra di trincea", dove milioni di soldati muoiono inutilmente nel fango per conquistare pochi chilometri di terra. Terzo adattamento dell'omonimo romanzo semi-autobiografico di Erich Maria Remarque, dopo il capolavoro del 1930 ("All'ovest niente di nuovo" di Lewis Milestone, che rimane la versione migliore) e il TV movie del 1979 (di Delbert Mann). Questa volta la realizzazione è tedesca (anche se la produzione è di Netflix), opera di un regista dai trascorsi per lo più televisivi, che si concentra sugli eventi bellici, trascurando quelli legati alla società di contorno che pure erano importanti per il contesto generale. A parte una breve scena all'inizio, quando Paul e i suoi amici lasciano la scuola, mancano infatti i momenti di confronto con la società civile e in particolare è assente la sequenza del breve ritorno di Paul a casa in licenza, ma anche quelle in cui il ragazzo ritrova sotto le armi il professor Kantorek, l'insegnante che lo aveva "indottrinato". Se dunque le scene di battaglia e di combattimento mantengono la loro potenza (l'enfasi visiva ed emozionale con cui sono riprodotte sullo schermo, del tutto spogliate di eroismo, riesce a denunciare l'orrore e l'assurdità di un conflitto in cui milioni di ragazzi perdono la vita, usati come carne da cannone), i personaggi stessi risultano invece quasi privi di personalità, compreso un protagonista di cui manca la prospettiva. E le sequenze dedicate alla trattativa dell'armistizio, con il capo della delegazione tedesca Erzberger (Daniel Brühl), nonché quelle con il generale guerrafondaio Friedrichs (Devid Striesow), che si oppone alla pace e manda i suoi uomini a combattere fino all'ultimo momento anche quando la sconfitta è ormai certa, quasi distraggono dall'intento di mostrare la guerra dal punto di vista del più umile dei soldati, e dunque con un valore universale ed esistenziale, anziché da quello della ricostruzione storica, legata alle trattative geopolitiche o a un conflitto specifico. Fotografia virata quasi sempre al blu. Ottimo il riscontro critico, con ben nove nomination agli Oscar (forse troppe?), compresa quella per il miglior film.

29 gennaio 2023

Vital (Shinya Tsukamoto, 2004)

Vital - Autopsia di un amore (Vital)
di Shinya Tsukamoto – Giappone 2004
con Tadanobu Asano, Nami Tsukamoto, Kiki
**1/2

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli.

Dopo aver perso la memoria in seguito a un incidente stradale nel quale è rimasta uccisa la sua compagna Ryoko (Nami Tsukamoto), il giovane Hiroshi (Tadanobu Asano) decide di riprendere gli studi di medicina all'università. E durante le lezioni di anatomia, si ritrova sul tavolo operatorio proprio il cadavere di Ryoko, la quale comincia anche ad apparirgli in una serie di visioni: che si tratti dei ricordi del passato che stanno tornando, o soltanto di sogni bizzarri? Sceneggiato dallo stesso Tsukamoto, un film sul tema della memoria e dell'elaborazione del lutto. L'ossessione di Hiroshi per la dissezione anatomica va infatti di pari passo con il tentativo di recuperare i ricordi del suo rapporto con Ryoko, mentre la figura della donna si confonde (o si sovrappone) con quella di Ikumi (Kiki), sua compagna di corso con cui instaura una relazione alquanto morbosa (con i tentativi di auto-asfissia che riecheggiano le suggestioni di suicidio di Ryoko). Regia, recitazione, atmosfere sono fredde e "sospese", come devono essere, risultando inquietanti e cronenberghiane, ma senza sfociare nell'horror puro o tenere troppo a distanza lo spettatore, anche perché qualcosa di concreto (si parla di cadaveri, dopo tutto) mantiene sempre sulla terra i personaggi alienati. Analizzando il corpo morto di Ryoko, è come se Hiroshi volesse scavare nell'inconscio, alla ricerca dell'anima, tanto in quella della donna (che per lui è un mistero) tanto nella propria (recuperando i ricordi perduti). Dopo tutto, come gli spiega un docente all'inizio, sono proprio alcune aree del cervello a essere responsabili di personalità e memoria. Nel cast Ittoku Kishibe (il professore di anatomia), Kazuyoshi Kushida (il padre di Hiroshi) e Jun Kunimura (il padre di Ryoko).

28 gennaio 2023

Windtalkers (John Woo, 2002)

Windtalkers (id.)
di John Woo – USA 2002
con Nicolas Cage, Adam Beach
*1/2

Rivisto in TV (RaiPlay).

Negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, per evitare che i nemici decifrassero le loro trasmissioni radiofoniche, gli Stati Uniti fecero ricorso a un'insolita risorsa... interna: gli indiani Navajo, addestrati come marconisti e incoraggiati a usare la propria lingua nativa come codice per trasmettere i messaggi fra le linee. Il marine Joe Enders (Nicolas Cage), desideroso di tornare in battaglia dopo aver visto morire tutti i suoi compagni di plotone ed essere rimasto ferito a un orecchio, viene incaricato di scortare uno di questi "code talkers", il navajo Ben Yahzee (Adam Beach), assegnato a una compagnia d'assalto nel Pacifico, con il compito di evitare a tutti costi che venga fatto prigioniero dai giapponesi. Da uno spunto ispirato ad eventi reali (i "code talkers" Navajo parteciparono, fra le altre, alle battaglie di Saipan – mostrata nel film – e di Iwo Jima), forse il peggiore dei sei film girati a Hollywood da John Woo: enfatico nella regia e nella fotografia, e recitato svogliatamente (Cage a parte, ma il suo è un caso particolare: sembra sempre che esageri nell'interpretazione), ha però il suo difetto principale nella sceneggiatura ingessata, scolastica e a tratti retorica, con personaggi monodimensionali (vedi per esempio il marine razzista Chick) e una generale incapacità di sfruttare il suo stesso argomento portante. L'impressione è che il film non sappia cosa raccontare: a parte l'introduzione iniziale, il tema dei "code talkers" viene subito messo da parte, in favore di lunghe e violente (ma generiche e noiose) scene di combattimento; e anziché riflettere sul linguaggio, ci si concentra sul concetto (molto più abusato e meno interessante) dell'amicizia, in particolare quella fra Ben e Joe, che si cementa lentamente sul campo di battaglia. I vaghissimi aspetti da buddy movie e gli accenni all'incontro e all'accettazione di culture diverse colorano a malapena quello che è solo uno sfoggio di sequenze di battaglia, dispiegate lungo una serie di episodi scollegati l'uno dall'altro, fino a un finale random. Meritato flop al botteghino. Nel cast anche Christian Slater, Roger Willie, Peter Stormare, Noah Emmerich, Mark Ruffalo, Brian Van Holt, Jason Isaacs e, unico (inutile) personaggio femminile, Frances O'Connor. Cage e Slater avevano già lavorato con Woo, rispettivamente in "Face/Off" e "Broken Arrow".

26 gennaio 2023

Visages, villages (Agnès Varda, 2017)

Visages, villages
di Agnès Varda, JR – Francia 2017
con Agnès Varda, JR
***

Visto in TV (RaiPlay), in originale con sottotitoli.

Stringendo un'insolita collaborazione, la cineasta Agnès Varda (88 anni) e l'artista-fotografo JR (33 anni) girano per le campagne francesi, a bordo di un furgone adibito a laboratorio fotografico, per scattare immagini degli abitanti dei piccoli villaggi di provincia e farne giganteschi poster da incollare alle pareti esterne delle case e sui muri di mattoni degli edifici abbandonati. Lo scopo è quello di collegare, attraverso il ritratto, i volti delle persone (ma anche dettagli ingranditi dei loro corpi o antiche foto di famiglia) e i luoghi più isolati e dimenticati del paese, riportando al centro dell'attenzione la vita di un tempo e quella attuale, antichi e nuovi lavori, storie del passato e del presente, e ritraendo dunque il cambiamento cui persone e luoghi sono continuamente soggetti. Viaggiando insieme e discutendo delle rispettive forme d'arte, AV e JR attraversano così paesi dove un tempo fiorivano attività ormai abbandonate (una miniera), villaggi fantasma composti da edifici in rovina, cittadine turistiche sulla costa, regioni agricole dove le innovazioni tecnologiche permettono a un singolo contadino di occuparsi di centinaia di ettari di terreno, allevamenti di capre e altri animali (cui vengono tolte le corna per impedire che lottino fra loro e aumentare così la produttività), fabbriche di prodotti chimici, porti commerciali (come quello di Le Havre) i cui lavoratori sono in sciopero... e infine si dedicano anche a sé stessi. Man mano che si viaggia, infatti, anche l'amicizia fra i due artisti si fa più stretta (nonostante la differenza di età, che non impedisce loro di punzecchiarsi a vicenda), mentre il desiderio di conoscere di più l'uno dell'altra cresce a dismisura: entrambi lavorano con le immagini, e non a caso i rispettivi sguardi costituiscono lo strumento per conoscere il mondo circostante, uno strumento paradossalmente non privo di difetti (la vista di Agnès è in costante declino, e la regista vede ormai il mondo sfocato; JR, dal canto suo, non si separa mai dai suoi occhiali da sole, che frappone un filtro scuro fra i suoi occhi e la realtà). Ne risulta un originale e avvincente documentario on the road che fa riflettere sulla potenza delle immagini (anche quando effimere: molte delle affissioni di JR sono destinate a essere spazzate via dall'acqua o dagli elementi) e sul loro legame con la memoria (da conservare per le generazioni future) e i ricordi, che siano quelli di antichi lavori, di antenati lontani, di amicizie dimenticate (la Varda cerca di andare a visitare Jean-Luc Godard, ma questi non si fa trovare in casa). Il tutto intrecciato con il tema del viaggio, che sia reale o virtuale (le foto degli occhi e dei piedi di AV vengono affisse sui vagoni cisterna di un treno merci "che andrà in posti dove tu non andrai mai").

25 gennaio 2023

Una donna senza amore (L. Buñuel, 1952)

Una donna senza amore (Una mujer sin amor)
di Luis Buñuel – Messico 1952
con Rosario Granados, Joaquín Cordero
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Sposata con l'antiquario Carlos (Julio Villarreal), un uomo più anziano di lei e che non ama, Rosario (Rosario Granados) progetta di fuggire in Brasile insieme al giovane ingegnere Julio (Tito Junco): ma è costretta a rinunciare sia a lui che ai propri sogni d'amore per non abbandonare il marito malato e il figlioletto Carlitos. Vent'anni più tardi, dal Brasile giunge la notizia della morte di Julio, "amico di famiglia" che ha lasciato una cospicua eredità a Miguel (Xavier Loyá), il secondo figlio di Rosario. E Carlitos (Joaquín Cordero), che nel frattempo come il fratello minore è diventato un medico ed è già geloso nei suoi confronti perché è riuscito a conquistare Luisa, la compagna di studi di cui entrambi sono innamorati, comincia a sospettare che Miguel sia il frutto di una relazione clandestina della madre... Diviso in due parti ambientate appunto a vent'anni di distanza, un (melo)dramma famigliare ispirato al romanzo "Pierre e Jean" di Guy de Maupassant. Come molti dei primi lavori messicani di Don Luis, il film non ha quasi nulla di buñueliano, a parte forse alcune inquadrature e movimenti di macchina, nonché il tema del conflitto fra desideri personali ed esigenze sociali: il regista stesso non lo amava e anzi lo ha definito il suo film peggiore (ma secondo me "La figlia dell'inganno" e soprattutto "Gran casino" non sono poi molto meglio). Comunque, se non proprio avvincente, quantomeno nella seconda parte – in cui il punto di vista si sposta dalla madre al figlio primogenito – la vicenda si lascia seguire con un certo interesse.

23 gennaio 2023

Rumore bianco (Noah Baumbach, 2022)

Rumore bianco (White noise)
di Noah Baumbach – USA 2022
con Adam Driver, Greta Gerwig
**1/2

Visto in TV (Netflix).

Jack Gladney (Adam Driver), stimato professore universitario di studi hitleriani ("Insegno nazismo avanzato"), ha una grande paura della morte. Che aumenta ancora di più dopo essere rimasto esposto a una misteriosa nube tossica, liberatasi nell'aria in seguito a un incidente a una cisterna ferroviaria che trasportava strani prodotti chimici e che costringe la sua intera famiglia a una breve ma confusa evacuazione: secondo gli esperti, tale esposizione lo ha condannato a morire, anche se potrebbero volerci molti decenni (di fatto, dunque, la cosa è indifferente: aumenta solo la sua consapevolezza che prima o poi morirà!). Quando scopre che la moglie Babette (Greta Gerwig), all'apparenza aperta e solare, sta assumendo di nascosto un farmaco sperimentale (che però su di lei non sembra avere effetto) per vincere questa stessa paura, decide di indagare sulla sua provenienza... Per la prima volta Noah Baumbach, giunto al tredicesimo film, firma una pellicola di cui non ha scritto il soggetto: è tratta infatti dal romanzo omonimo di Don DeLillo (del 1985: l'ambientazione anni ottanta è stata mantenuta), surreale, post-moderno e assurdista, a lungo considerato infilmabile (ma in realtà si sposa bene con le recenti tendenze del cinema americano, che da qualche decennio ha appunto preso una deriva post-moderna). La pretenziosità, il continuo sfasamento tonale, l'accatastamento di situazioni inconsequenziali, le molte deviazioni inutili (esemplificate dalla scena in cui l'automobile guidata da Driver va nei boschi e finisce nel fiume, soltanto per rientrare poi sulla strada, senza che la deviazione in sé sia servita a nulla nell'economia del racconto) minano la fluidità e la coerenza della storia, che pure mette tantissima carne al fuoco, compresi spunti decisamente interessanti: quelli sull'ossessione umana per la morte e per le catastrofi (un collega di Jack, interpretato da Don Cheadle, mostra agli studenti immagini di incidenti stradali), le teorie del complotto (tutto il segmento centrale, che racconta l'evacuazione, è ammantato di mistero e di strani intrighi da parte di un governo che tiene i cittadini all'oscuro), l'invasione del consumismo (il supermercato come ulteriore metafora della morte), le riflessioni sulla memoria (la nube tossica provoca un senso di dejà vu, il farmaco fa confondere le parole con le cose che esse indicano), e in generale le relazioni umane (quando sono di scena molti personaggi, i dialoghi fra loro si intrecciano e si confondono, coprono argomenti disparati e scollegati, facendo perdere il filo e il senso delle cose), in particolare all'interno della famiglia ("La famiglia è la culla della disinformazione mondiale"). In questo ambiente ricco di stimoli e di confusione, il tema della morte rimane costantemente come sottofondo ("E se la morte fosse solo un suono?"), appunto un rumore bianco e onnipresente, che né la razionalità (il protagonista è, come detto, un intellettuale) né la religione (la suora infermiera, nel finale, che non crede all'aldilà) è in grado di dissipare: fa parte dell'essenza dell'uomo. Anche se gli spunti, come si vede, non mancano, e i personaggi sono ben caratterizzati (Driver, in particolare, offre un'altra prova eccellente), il film però funziona solo a tratti e la sua atmosfera surreale lascia spesso lo spettatore confuso e sperso in una sorta di mondo filosofico quasi wendersiano. Lars Eidinger è Mister Gray, il "fornitore" del farmaco; Raffey Cassidy è Denise, una dei quattro figli – da partner diversi – della coppia. Nel cast anche Barbara Sukowa (la suora), Francis Jue (il medico), Kenneth Lonergan e Jodie Turner-Smith (due colleghi di Jack). Sui titoli di coda, un balletto finale con tutti i personaggi all'interno del supermercato.

21 gennaio 2023

The outfit (Graham Moore, 2022)

The Outfit (id.)
di Graham Moore – GB/USA 2022
con Mark Rylance, Zoey Deutch
**

Visto in TV (Now Tv).

Nella Chicago degli anni cinquanta, un sarto di origine inglese (Mark Rylance) consente a una banda di gangster di usare la propria bottega come copertura per lo scambio di messaggi e informazioni. Ma quando la banda, impegnata in un regolamento di conti con un gruppo rivale, viene informata che fra di loro si nasconde una spia, le cose si complicano. E i vari banditi cominciano a sospettarsi fra di loro, mentre il sarto, umile e sottovalutato da tutti, nonché dal passato misterioso, inizia a manipolarli dietro le quinte, sfruttandone le rivalità sotterranee... Ambientato tutto in una notte e tutto all'interno del negozio del sarto (anzi, "tagliatore", come lui si definisce), il film segna l'esordio come regista di lungometraggi per Graham Moore, già sceneggiatore ("The imitation game"). Nonostante la collocazione spaziale e temporale così ridotta, i twist e i colpi di scena non mancano: ma la pellicola, pur dall'aspetto elegante, comincia ben presto ad apparire meccanica e persino prevedibile, senza vere emozioni. Non aiutano le caratterizzazioni semplicistiche e il fatto che le innumerevoli svolte e le decisioni dei personaggi non siano sempre credibili, e pure i continui riferimenti metaforici al mestiere di sartoria sembrano girare a vuoto. Alla fine l'impressione è quella di aver assistito a un "Le iene" dei poveri: ma in fondo ci si può accontentare, basta non attendersi di essere scossi da qualcosa di epocale. Zoey Deutch è la segretaria del sarto. Nel cast Dylan O'Brien (il figlio del boss), Johnny Flynn (il suo braccio destro), Simon Russell Beale (il boss irlandese), Nikki Amuka-Bird (il capo della gang rivale). Il titolo non si riferisce a un capo di vestiario, ma al nome di un'organizzazione criminale, una sorta di sindacato globale, fondata nientemeno che da Al Capone. Curiosamente, nel 1973 era uscito un altro gangster movie con il medesimo titolo (in italiano "Organizzazione crimini").

19 gennaio 2023

Pane, amore e gelosia (L. Comencini, 1954)

Pane, amore e gelosia
di Luigi Comencini – Italia 1954
con Vittorio De Sica, Gina Lollobrigida
***

Visto in TV (RaiPlay).

Proseguono le vicende del maresciallo dei carabinieri Antonio Carotenuto (De Sica), della bella "Bersagliera" Maria (Gina Lollobrigida) e degli altri abitanti di Sagliena (immaginario paese sulle montagne abruzzesi), da dove si erano interrotte nel precedente "Pane, amore e fantasia". Visto l'enorme successo di quella pellicola, infatti, l'anno successivo venne prodotto un sequel con il medesimo cast e troupe e girato negli stessi luoghi. Questo secondo capitolo racconta cosa succede dopo il "lieto fine": le due coppie formatesi nel precedente film vengono messe a rischio da inattesi conflitti e gelosie, causati in parte dal regolamento dell'arma che impedisce ai carabinieri di fidanzarsi con le ragazze locali. Pietro (Roberto Risso), trasferito in un paese vicino, si raccomanda col maresciallo affinché vigili su Maria, ma le chiacchiere delle malelingue gli fanno credere che fra i due ci sia una tresca; le voci arrivano anche ad Annarella (Marisa Merlini), che peraltro ha già dei dubbi sul matrimonio con Antonio, anche perché all'improvviso ricompare il padre (Nico Pepe) del suo figlioletto Ottavio, intenzionato a riprendersela con sé. Rispetto al film precedente, questo è meno attento al realismo e al lato "antropologico", e più ricco di gag (si pensi alla scena della lettera di dimissioni, o ai due pranzi di battesimo presso le famiglie rivali) e di attenzione ai personaggi (alla sceneggiatura ha collaborato anche Eduardo De Filippo). Ha anche momenti drammatici (la "rottura" fra le due coppie) ed è forse meno organico, ma non certo meno indovinato per atmosfere e leggerezza. Nel finale, la "Bersagliera" è tentata brevemente di dedicarsi al teatro, attratta da una compagnia itinerante e dal ruolo di "sciantosa", prima di riappacificarsi con Pietro e trasferirsi nel paese di lui, in Trentino. La Lollo sarà sostituita da Sophia Loren (e Comencini da Dino Risi) nel terzo film della serie, intitolato semplicemente "Pane, amore e...". Nel cast ritornano Tina Pica (la domestica del maresciallo), Virgilio Riento (il parroco) e Maria Pia Casilio (l'intrigante Roberta). Saro Urzì è il capocomico, Yvonne Sanson la nuova levatrice del villaggio nella scena finale.

17 gennaio 2023

Pane, amore e fantasia (L. Comencini, 1953)

Pane, amore e fantasia
di Luigi Comencini – Italia 1953
con Vittorio De Sica, Gina Lollobrigida
***

Visto in TV (RaiPlay), per ricordare Gina Lollobrigida.

Il maresciallo Antonio Carotenuto (De Sica), appena trasferito nel piccolo paese appenninico di Sagliena per dirigere la locale caserma dei carabinieri, fa la conoscenza della giovane ed esuberante Maria, detta "la Bersagliera" (Lollobrigida), una ragazza povera ma molto bella e vivace, che per questo motivo ha la fama (in un paese dove tutti sparlano di tutti) di essere di facili costumi. In realtà Maria è una ragazza onesta, segretamente innamorata di Pietro (Roberto Risso), un giovane carabiniere di stanza nel villaggio, troppo timido per dichiararsi a sua volta. Quando capirà come stanno le cose, Carotenuto favorirà la loro relazione, e nel frattempo troverà anche lui l'amore nelle braccia di Annarella (Marisa Merlini), la levatrice del villaggio. Da una sceneggiatura di Ettore Margadonna (che modellò il paese dove si svolge la vicenda sul proprio luogo natìo, ovvero Palena in Abruzzo: ma il film venne girato a Castel San Pietro Romano nel Lazio), uno dei capostipiti della commedia all'italiana, una pellicola ricca di equivoci che ebbe un eccezionale riscontro di pubblico, lanciò la Lollo nell'olimpo delle attrici più note del paese (e più tardi del mondo, visto che sbarcò a Hollywood) e diede origine a tutto un filone caratteristico (a partire da tre sequel ufficiali, "Pane, amore e gelosia" (1954) dello stesso Comencini, "Pane, amore e..." (1955) di Dino Risi, e "Pane, amore e Andalusia" (1958) di Javier Setó) che, in un certo senso, ha condotto fino a "Benvenuti al Sud". I personaggi vivono in un microcosmo (il paesino isolato sui monti) pigro e caratteristico, dove ogni evento è oggetto di chiacchiere e speculazioni, e ogni storia d'amore è conosciuta da tutti: è un paese ancora arretrato, con le ferite del dopoguerra (la case diroccate dai bombardamenti), le antiche superstizioni (il "miracolo" di Sant'Antonio), la delicata convivenza fra stato e chiesa (ma qui il prete locale, in parroco interpretato da Virgilio Riento, è alleato del protagonista, a differenza del coevo "Don Camillo") e i primi accenni di modernità (il venditore ambulante) in un ambiente ancora caratterizzato da povertà e antichi modi di vivere ("Si va a letto con le galline"). Nel cast anche Tina Pica (Caramella, la domestica del maresciallo), Maria Pia Casilio, Vittoria Crispo, Guglielmo Barnabò. Musiche popolari di Alessandro Cicognini. Il progetto iniziale (il cui titolo doveva essere semplicemente "Pane e fantasia", come ciò che uno degli abitanti del villaggio dice al maresciallo di star mangiando) prevedeva Gino Cervi come protagonista. De Sica lo sostituì dopo che il produttore Marcello Girosi, suo amico, ottenne dal corpo dei carabinieri il beneplacito per girare quella che in un primo momento poteva sembrare una pellicola lesiva dell'onore dell'arma.

16 gennaio 2023

Le avventure di Ichabod e Mr. Toad (aavv, 1949)

Le avventure di Ichabod e Mr. Toad
(The Adventures of Ichabod and Mr. Toad)
di Jack Kinney, Clyde Geronimi, James Algar – USA 1949
animazione tradizionale
**1/2

Visto in TV (Disney+).

L'undicesimo "classico Disney" (l'unico di due – l'altro è "Le avventure di Winnie the Pooh" del 1977 – a non essere mai stato distribuito al cinema in Italia, essendo uscito solo in home video) è anche il sesto e ultimo della serie di "film a episodi" prodotti fra il 1942 e il 1949, ovvero nel periodo in cui lo studio dovette fare a meno di gran parte del proprio personale a causa della seconda guerra mondiale. Con "Cenerentola", nel 1950, si tornerà ai lungometraggi completi. Questo invece, come il precedente "Bongo e i tre avventurieri", fonde insieme due mediometraggi, ciascuno dei quali era stato immaginato inizialmente come una pellicola a sé stante. E tutto considerato, è forse il migliore dei sei film in questione. Il primo segmento è tratto dal classico romanzo per bambini "Il vento tra i salici" di Kenneth Grahame, con protagonisti animali antropomorfi che vivono avventure di vario genere nella campagna britannica. Il title character (Taddeo Rospo, anche se il titolo del film mantiene il suo nome inglese, Mr. Toad), dal carattere giocoso ma scriteriato, è il facoltoso proprietario di Villa Rospo, che finisce nei guai quando le sue molte passioni (tutte improvvise e... di breve durata) lo portano in prigione, accusato di aver rubato un'automobile, e gli fanno perdere la sua agiata dimora. Lo aiuteranno tre amici fidati, ovvero un topo, una talpa e un tasso. Un'avventura divertente e movimentata, con personaggi simpatici, che soffre forse soltanto per un'animazione povera e piuttosto semplice se confrontata con le pellicole Disney dei primordi.

Il vero pezzo forte del film è però senza dubbio il secondo segmento, "La leggenda della valle addormentata", tratto dal racconto gotico "La leggenda di Sleepy Hollow" di Washington Irving. Il protagonista stavolta è Ichabod Crane, un bizzarro maestro di scuola che si trasferisce in un villaggio sperduto in una colonia americana. Qui corteggia la giovane e bella Katrina, figlia di un ricco proprietario terriero, suscitando la rivalità di Brom Bones, il "bullo" locale. Che per spaventarlo, essendo Ichabod fortemente superstizioso, la sera di Halloween gli racconta la leggenda del "cavaliere senza testa" che bazzica le campagne circostanti... Fascinoso per atmosfera e assai fedele al materiale di partenza (che non viene travisato né banalizzato, pur essendo la pellicola rivolta a un pubblico infantile: da confrontare invece con la versione dal vivo di Tim Burton del 1999, "Il mistero di Sleepy Hollow", che rivisita e cambia molte cose), l'episodio è senza dubbio un unicum all'intero della produzione Disney, anche per il finale aperto. Nella versione originale, i narratori delle due storie sono rispettivamente l'attore Basil Rathbone e il cantante Bing Crosby (il secondo segmento non ha dialoghi, ma solo la voce narrante e qualche canzone). In televisione i due episodi (che non hanno alcun legame fra loro, a parte il fatto di essere tratti da classici racconti della letteratura angloamericana) sono stati spesso trasmessi separatamente.

14 gennaio 2023

Stray Dog: Kerberos Panzer Cops (M. Oshii, 1991)

Stray Dog: Kerberos Panzer Cops (Kerberos: Jigoku no banken)
di Mamoru Oshii – Giappone 1991
con Yoshikatsu Fujiki, Shigeru Chiba
**

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Dopo aver trascorso tre anni in prigione per aver partecipato alla fallita rivolta dei Kerberos, unità speciale di un corpo di polizia paramilitare che si era ribellata al governo autoritario del Giappone, Inui (Yoshikatsu Fujiki) lascia il paese e parte alla ricerca di Koichi Todome (Shigeru Chiba), l'ex leader del suo squadrone che si era dato alla fuga. Grazie all'aiuto di una misteriosa ragazza, Tang Mie (Sue Eaching), lo rintraccerà a Taiwan. Ma scoprirà di essere stato usato dal misterioso Hayashi (Takashi Matsuyama) e da una sedicente organizzazione che fornisce "supporto" ai soldati fuggitivi e che intende eliminare il troppo scomodo Koichi... Secondo capitolo cinematografico della bizzarra "Kerberos saga" di Mamoru Oshii dopo "The red spectacles" del 1987, di cui è a tutti gli effetti un prequel. La saga proseguirà nel 1999 con un altro prequel, stavolta in animazione, "Jin-Roh - Uomini e lupi". Dei tre film, questo è quello più diseguale e che lascia più perplessi: soltanto nel finale, infatti, c'è una sequenza d'azione fantascientifica, con la resa dei conti fra Inui, in armatura da Kerberos, e i suoi nemici in un edificio abbandonato: in precedenza assistiamo a scene di ordinaria quotidianità, dapprima seguendo il viaggio quasi turistico di Inui e Tang Mie per le città e le campagne taiwanesi, e poi, una volta rintracciato Koichi, con la permanenza dei tre presso il mare, in una sorta di commedia punteggiata da siparietti comici e aspetti ludico-surreali non dissimili da certe cose di Takeshi Kitano ("L'estate di Kikujiro", "Sonatine"). Il personaggio di Koichi, in particolare, risulta particolarmente in contrasto con i temi distopico-bellici del resto della saga. I dialoghi, specialmente quelli fra Hayashi e Inui, si appoggiano sull'insistita metafora degli ex soldati come veri e propri "cani randagi", sperduti e spaventati ma comunque sempre alla ricerca del padrone che li ha abbandonati. Il budget è piuttosto basso, ma non inficia sul risultato. Fondamentale nell'economia del film la quasi onnipresente colonna sonora acustica e d'atmosfera di Kenji Kawai (per una volta senza i suoi soliti cori), che accompagna i piani sequenza di Oshii.

13 gennaio 2023

L'uomo dalla croce (R. Rossellini, 1943)

L'uomo dalla croce
di Roberto Rossellini – Italia 1943
con Alberto Tavazzi, Roswita Schmidt
*1/2

Visto in TV (Prime Video).

In Ucraina, nell'estate del 1942, fra le truppe italiane impegnate sul fronte russo della seconda guerra mondiale c'è anche un cappellano militare (Alberto Tavazzi) che reca conforto non solo ai propri commilitoni feriti, ma anche alla popolazione civile (aiutando una donna a partorire) e persino ai soldati nemici. La terza pellicola della cosiddetta "trilogia della guerra fascista" di Rossellini, dopo i precedenti "La nave bianca" (1941) e "Un pilota ritorna" (1942), è un film di propaganda pieno di retorica umanista e religiosa ("Il trionfo del bene contro il male", recitava la frase di lancio), prima ancora che bellica e patriottica. Certo, i soldati italiani sono ritratti come disciplinati, organizzati ed efficienti, mentre i sovietici sono malridotti, codardi e infidi. Ma il cuore della storia, più che nelle vicende della guerra, si concentra in quelle spirituali. La didascalia finale dedica il film «alla memoria dei cappellani militari caduti nella crociata contro i "senza dio"», e infatti la sceneggiatura (da un soggetto del giornalista fascista Asvero Gravelli) sottolinea a più riprese il disprezzo dei militari bolscevichi verso le "superstizioni cristiane", mentre naturalmente i poveri abitanti dei villaggi (essenzialmente donne e bambini) accolgono con favore la parola biblica portata dal protagonista. Buone, in ogni caso, le scene di battaglia, realizzate con discreto dispiego di mezzi (anche molti carri armati). Fra i pochi personaggi degni di nota di un film che, protagonista a parte (ispirato alla figura reale di padre Reginaldo Giuliani, cappellano fascista morto nel 1936 durante la guerra d'Etiopia), è perlopiù corale, ci sono il russo Sergej (Antonio Marietti) e la sua compagna Irina (Roswita Schmidt), in particolare quest'ultima, miliziana indottrinata e ostile all'occidente, ma che di fronte alla morte rivela il proprio passato tragico e accetta il conforto portatogli dal cappellano. Quanto ai soldati italiani, come nei film precedenti sono ritratti come un miscuglio di giovani di varia provenienza ed estrazione sociale, attraverso l'uso di dialetti. Gli attori sono in gran parte non professionisti. Musiche di Renzo Rossellini.

11 gennaio 2023

Scipione detto anche l'Africano (L. Magni, 1971)

Scipione detto anche l'Africano
di Luigi Magni – Italia 1971
con Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman
**1/2

Visto in TV (Prime Video).

Davanti al senato romano, Catone il Censore (Vittorio Gassman) accusa i fratelli Publio Scipione, detto l'Africano (Marcello Mastroianni), e Lucio Scipione, detto l'Asiatico (Ruggero Mastroianni), comandanti dell'esercito, di essersi "intascati" un ricco tributo di cinquecento talenti destinato dal re della Siria alla repubblica di Roma. Quando l'Africano, celebrato eroe di guerra (ha sconfitto i cartaginesi nella seconda guerra punica) nonché uomo onesto e incorruttibile, e come tale amato e idolatrato dal popolo, scopre che il responsabile è suo fratello, sarebbe anche pronto a denunciarlo. Non si rende conto però che Catone non è alla ricerca della verità, ma vuole solo impedire che un uomo come lui possa diventare troppo popolare, ingombrante e dunque "scomodo". Ispirato alle vicende reali dei "processi degli Scipioni", un peplum decisamente originale per temi, forma e confezione, a metà strada fra la ricostruzione storica e la satira politica (e umanistica) in chiave moderna. Caratterizzato da una teatralità quasi pasoliniana, con dialoghi e battute in romanesco e scenografie pauperistiche (è girato tutto in esterni, fra campagne e antiche rovine: le riprese sono state effettuate in gran parte a Pompei, ma anche a Paestum, nella Villa Adriana a Tivoli e presso la necropoli etrusca di Sovana), il film mette in scena i germi della decadenza di una Roma che dimentica il proprio passato, celebra ipocritamente eroi di cui non ha bisogno, si mostra cinica davanti ai valori morali ("Il più pulito c'ha la rogna"), dove gli schiavi non vogliono essere liberati e, quando ci si trova davanti a un uomo troppo grande, fedele e perfetto (dunque "non umano"), questi viene ripudiato e considerato fastidioso. Scipione stesso, pur di scendere dal piedistallo, sceglierà di autoaccusarsi e di distruggere la propria immagine pubblica, ma così facendo non otterrà che di esporre in piena luce le ipocrisie di tutti gli altri. Molto interessante il cast, con i due fratelli Mastroianni (Ruggero, celebre montatore, recita qui per l'unica volta in carriera) che interpretano a loro volta due fratelli. Silvana Mangano è Emilia, la moglie di Scipione. Turi Ferro è nientemeno che Giove Capitolino, con il quale Scipione ha una serie di conversazioni private. Woody Strode è Massinissa, re di Numidia e antico compagno d'armi del protagonista. Wendy D'Olive è Licia, la servetta "invisibile". Colonna sonora del flautista Severino Gazzelloni.

9 gennaio 2023

Siberia (Abel Ferrara, 2020)

Siberia (id.)
di Abel Ferrara – Italia/Germania/Messico 2020
con Willem Dafoe, Dounia Sichov
**

Visto in TV (RaiPlay).

Un uomo (Dafoe), isolatosi dal mondo per sfuggire ai fantasmi di morte del proprio passato, gestisce una baita sperduta in mezzo a un paesaggio innevato. Perseguitato da allucinazioni e visioni di vario genere, parte – con la slitta trainata dai suoi cani – per un viaggio che è soprattutto mentale, attraversando una natura impervia e ostile (che rappresenta il suo subconscio) e cercando di fare i conti con la propria vita. Incontrerà il proprio alter ego, rivedrà i genitori defunti, l'ex moglie, il figlio, passando per scenari freddi e cupi e altri insoliti e surreali (compreso un deserto africano e un pascolo primaverile). Un film bizzarro, surreale, onirico, pieno di non sequitur e salti narrativi, come la psiche del protagonista: ha però un suo strano fascino, che ne sostiene la visione fino in fondo, nonostante alcuni passaggi a vuoto nei (pochi) dialoghi (vedi quello con l'ex moglie, pieno di luoghi comuni come "L'unica mia colpa è quella di amarti troppo"). Ferrara, che ha scritto la sceneggiatura insieme al terapista Chris Zois, si sarebbe ispirato al "Libro rosso" di Carl Gustav Jung, ma è difficile capire come. Per il sempre ottimo Dafoe si tratta della sesta collaborazione con il regista italoamericano: nella versione italiana del film ha un accento molto marcato, essendosi doppiato da solo. Le riprese sono state effettuate per lo più in Alto Adige (e infatti i paesaggi di montagna non ricordano affatto la Siberia, che d'altronde è un luogo mentale più che reale).

7 gennaio 2023

Oltre la notte (Fatih Akin, 2017)

Oltre la notte (Aus dem Nichts)
di Fatih Akin – Germania 2017
con Diane Kruger, Denis Moschitto
**1/2

Visto in TV (RaiPlay).

Dopo la morte del marito (un immigrato di origine curda) e del figlioletto per l'esplosione di una bomba piazzata da due giovani neonazisti nel quartiere turco di Amburgo, Katja (Diane Kruger) confida nella giustizia in tribunale. Non ottenendola, cercherà vendetta da sola. Un soggetto che a prima vista appare poco originale, simile a quello di tanti revenge movie tutta azione, ma che si ispira alla realtà, e precisamente alle decine di attentati di questo tipo avvenuti in Germania all'inizio degli anni Duemila. Il regista lo sviluppa con grande intensità, appoggiandosi alla straordinaria interpretazione della Kruger (premiata a Cannes come miglior attrice) nei panni di una moglie e di una madre che non sa darsi pace per la perdita dei suoi cari. Niente elaborazione del lutto o commozione ricattatoria, ma solo durezza, rabbia, decisione e persino un certo distacco, almeno in superficie. La vicenda è divisa in tre "capitoli" (intitolati "La famiglia", "La giustizia" e "Il mare", e dedicati rispettivamente all'attentato stesso, al processo in tribunale e al finale in Grecia in cui Katja rintraccia i due terroristi), coinvolgenti per il loro realismo e con la donna sempre al centro di tutto. Il finale potrebbe essere la cosa che convince meno: ma a renderlo interessante è la scelta – intenzionale e voluta – di un volto così "tedesco" (bianca, bionda e con gli occhi azzurri) per una protagonista che, in cerca di vendetta e spinta dall'odio e dalla rabbia, diventa estremista quasi quanto i neonazisti che le hanno tolto i suoi cari, fino a scegliere di utilizzare – letteralmente – i loro stessi mezzi. Nell'insieme, al di là dell'apparente appartenenza a un genere ben preciso e alle riflessioni sul terrorismo, la pellicola rappresenta un altro tassello nella filmografia di un regista, Akin, che da sempre affronta nelle proprie opere il tema dei rapporti fra tedeschi e immigrati, soprattutto quelli di origine greca, turca e curda (essendo lui stesso uno di loro).

5 gennaio 2023

Bardo (Alejandro González Iñárritu, 2022)

Bardo, la cronaca falsa di alcune verità
(Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades)
di Alejandro González Iñárritu – Messico 2022
con Daniel Giménez Cacho, Griselda Siciliani
**1/2

Visto in TV (Netflix), in originale con sottotitoli.

Il giornalista e documentarista Silverio Gama (Daniel Giménez Cacho), da tempo trapiantato negli Stati Uniti, torna brevemente nel natìo Messico dove viene celebrato dagli amici per un prestigioso premio che riceverà presto a Los Angeles. È l'occasione per riflettere sulla propria vita e la propria carriera, ma soprattutto sulle proprie contraddizioni interne e ideologiche, sui propri drammi familiari e anche sul rapporto asimmetrico fra i due paesi. Forse il film più personale e ambizioso di Iñárritu (come testimonia il fatto che il regista firma anche la sceneggiatura, il montaggio e persino la colonna sonora), che fonde insieme la crisi esistenziale di un personaggio in parte autobiografico e la storia convulsa e insanguinata del Messico. E lo fa scegliendo non una narrazione lineare, ma la via del surrealismo, con una selva di immagini oniriche che ricordano, di volta in volta, il cinema di Fellini e quello di Roy Andersson, passando per Sokurov ("Arca russa"), Buñuel e Malick. Ne risulta un film decisamente complesso, ma anche pretenzioso e confuso (critica che Iñárritu, decisamente consapevole, si fa rivolgere direttamente nel film stesso, per bocca del conduttore televisivo Luis, ex amico di Silverio, che critica con queste stesse parole il suo ultimo documentario, intitolato appunto "Cronaca falsa di alcune verità"). Gli eventi della vita del protagonista (la morte del primo figlio appena nato, l'impegno civile nel lavoro da documentarista, il rigetto della televisione, le riflessioni sul passato del Messico) sono trasfigurate nella realtà da una serie di sequenze immaginarie e di fantasie oniriche ma di grande impatto. In effetti, l'aspetto visivo è stupefacente, con la fotografia (di Darius Khondji) che dona colore e spessore iperrealistico alle immagini, e la regia che dà sfoggio di tecnica a 360 gradi, fra grandangoli, soggettive, movimenti di camera e naturalmente tanti lunghi ed elaborati piani sequenza. Centrali, nella storia tanto del personaggio quanto del paese, i contrastati rapporti fra il Messico (paese di emigranti) e gli Stati Uniti (la parte dominante, in nome del dio denaro: esemplare la suggestione dell'acquisto, da parte di Amazon, dell'intera Bassa California). Stati Uniti che Silverio, dentro di sé, disprezza, ma dove ha scelto di abitare (e di chiamare "casa") e di far crescere i figli, cosa per la quale è criticato dagli amici di un tempo che mettono in luce la sua ipocrisia. A questo si aggiungono i ricordi della fanciullezza, i rapporti con i genitori scomparsi o con il figlio morto, quelli con i colleghi e in generale con un'intera nazione che si fonda sui massacri dei conquistadores (in una sequenza, Silverio "intervista" addirittura Hernán Cortés). Primo film girato in Messico da Iñárritu dai tempi del suo esordio con "Amores perros", è stato accolto con meno favore dalla critica rispetto ai suoi lavori precedenti, ma nonostante tutto va considerato un tassello importante – se non fondamentale – della sua filmografia, ricco di momenti interessanti (purtroppo diluiti da un'eccessiva lunghezza) e intelligenti, capace di riflettere sul passato senza ricorrere all'arma ormai cinematograficamente abusata del tuffo nella nostalgia e della riproposizione continua di un "passato dorato".

3 gennaio 2023

Glass Onion (Rian Johnson, 2022)

Glass Onion - Knives Out (Glass Onion: A Knives Out Mystery)
di Rian Johnson – USA 2022
con Daniel Craig, Edward Norton
***

Visto in TV (Netflix), con Sabrina.

L'eccentrico milionario e imprenditore tecnologico Miles Bron (Edward Norton: il personaggio è ovviamente modellato su Elon Musk) invita sulla sua isola privata in Grecia, dominata dall'avveniristica struttura chiamata "Glass Onion", un gruppo di amici e appartenenti alla sua "cerchia ristretta" – una candidata politica (Kathryn Hahn), uno scienziato (Leslie Odom Jr.), un'imprenditrice della moda (Kate Hudson) con la sua assistente (Jessica Henwick), un muscoloso influencer maschilista (Dave Bautista) con la sua compagna (Madelyn Cline), e persino l'ex socia che ha recentemente estromesso dalla sua azienda (Janelle Monáe) – per trascorrere un weekend all'insegna di giochi ed enigmi, con l'intenzione di mettere in scena la propria (finta) morte e lasciare che gli amici risolvano il mistero. Fra i presenti, a sorpresa, c'è anche l'investigatore Benoit Blanc (Daniel Craig), che qualcuno ha invitato all'insaputa di Bron. E sarà proprio lui a indagare quando un assassinio verrà commesso veramente... Il secondo film della serie "Knives out", dopo "Cena con delitto" (ma l'unico personaggio che ritorna è appunto il detective), prosegue nell'intento di rivisitare i meccanismi e le modalità del whodunit, il giallo per eccellenza alla Agatha Christie, di cui rispetta – almeno apparentemente – le classiche regole, ma colorandone i contenuti di satira e osservazioni su temi sociali. A questo giro si ironizza (via Musk) su una certa modalità di pensiero e di concezione del "successo", dal "pensare fuori dalla scatola" (thinking outside the box: esemplificato dalla scena in cui uno degli invitati, anziché risolvere i complessi enigmi contenuti nella scatola inviata da Bron, la demolisce a colpi di martello per estrarne poi il biglietto di invito) al ritenersi "al di sopra delle masse", tanto da che il gruppo formato da Bron e dai suoi amici si è denominato "i disgregatori", nel senso che si vantano di distruggere le regole di comportamento comune pur di superare gli altri e vincere ogni sfida. Blanc, invece, ne metterà crudelmente in luce i limiti, dimostrando che tutto ciò che sembrava estrosa genialità nasconde soltanto stupidità e superficialità. Strutturalmente la pellicola è divisa in tre parti: la prima è quella introduttiva, che presenta i personaggi, l'ambientazione e mette le carte in tavola; la seconda torna indietro, mostrandoci il dietro le quinte e rivelandoci che non tutto era come sembrava; la terza, quella risolutiva, conduce a un finale distruttivo e insolito per un giallo (ma lo stesso meccanismo del whodunit aveva già riservato alcune sorprese, a partire dalla vittima, che non era quella prevista). Un finale che rende il film più esagerato, grottesco e postmoderno del precedente: ciò nonostante la visione non è fastidiosa, anzi tutt'altro, perché Johnson sa misurarsi e usare questi elementi (di cui il cinema americano moderno, da Tarantino in poi, abusa allo sfinimento) in maniera sempre sensata, intelligente e coerente. E dunque poco importano l'assurdità e l'irrealtà di alcuni passaggi, situazioni o conseguenze (la Gioconda distrutta!?), visto che – come nel primo film – la trama gialla è solo un pretesto per una serie di riflessioni socio-politiche sulle distorsioni del mondo attuale (si parla anche di ambiente, crisi energetica e, visto che la pellicola è ambientata nel 2020, della pandemia di Covid: naturalmente Bron ha sviluppato, solo per sé e i suoi amici, un vaccino/cura efficace). Craig e Norton sono in forma, ma il resto del cast è meno brillante rispetto a quello del film precedente (con la Monáe che prende il posto, narrativamente parlando, che era di Ana de Armas). Del tutto inutile il personaggio di Noah Segan (lo slacker che bivacca sull'isola). Minuscole parti per Hugh Grant ed Ethan Hawke, cameo (nei panni di sé stessi) per "celebrità" come Stephen Sondheim, Angela Lansbury, Kareem Abdul-Jabbar, Yo-Yo Ma e Serena Williams.

2 gennaio 2023

Daguerréotypes (Agnès Varda, 1976)

Daguerréotypes
di Agnès Varda – Francia 1976
con attori non professionisti
**

Visto in TV (RaiPlay), in originale con sottotitoli.

In questo documentario, Agnès Varda (che lo narra in prima persona) passa in rassegna i piccoli negozi di quartiere che popolano la rue Daguerre, vicino a Montparnasse, nella cui zona la regista abitava. I commercianti, i commessi, gli artigiani vengono mostrati nella loro quotidianità, nel lavoro di tutti i giorni, nei rapporti con i clienti: che si tratti di drogherie, panifici, botteghe di oggetti vari o di riparazioni, parrucchieri, macellai, autoscuole, i loro proprietari sono intervistati e raccontano dei loro trascorsi, della loro vita privata, dei loro sogni. C'è persino spazio per l'esibizione di un illusionista. Ne risulta il ritratto di un quartiere, anzi una serie di ritratti o appunto di "dagherrotipi", le fotografie dei primordi, inventate proprio da colui da cui la strada prende il nome. Un documentario "umano", sincero, silenzioso, che come un diario non esita a trasfigurare la realtà (una realtà che oggi non esiste più, visto che tutti quei negozi e quelle botteghe antiche, a conduzione famigliare, probabilmente sono scomparsi) con i colori dell'immaginazione e della psicoanalisi. E che la stessa Varda, che si firma "Agnès, la daguerréotypesse", definisce "un ritratto collettivo e quasi stereotipato" di uomini e donne della via Daguerre che, tutti insieme, "formano... un reportage? un omaggio? un saggio? un rimpianto? un rimprovero? un approccio?..."