I migliori anni della nostra vita (W. Wyler, 1946)
I migliori anni della nostra vita (The best years of our lives)
di William Wyler – USA 1946
con Dana Andrews, Fredric March, Harold Russell
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Visto in divx alla Fogona, con Marisa.
Alla conclusione della seconda guerra mondiale, tre soldati americani appena tornati a casa – il capitano dell'aeronautica Fred Derry (Andrews), il sergente di fanteria Al Stephenson (March) e il marinaio Homer Parrish (Russell) – cercano, non senza difficoltà, di riadattarsi alla vita civile. Fred, eroe pluridecorato in battaglia, fatica a trovare un lavoro decente e questo mette a repentaglio il suo fresco matrimonio con la bionda ed esigente soubrette Marie (Virginia Mayo). Il veterano Al, che ritrova ad attenderlo la paziente moglie Milly (Myrna Loy) e i figli Peggy e Rob, riprende a lavorare in banca, dove si occupa di concedere prestiti ad altri reduci privi di garanzie finanziarie. Homer, rimasto mutilato in guerra, teme che la sua fidanzata Wilma (Cathy O'Donnell) non voglia più stare al suo fianco ora che ha delle protesi meccaniche al posto delle mani. Stupisce pensare che già nel 1946 (la lavorazione del film iniziò solo sette mesi dopo la fine del conflitto) si portassero sullo schermo le problematiche del reinserimento dei reduci nella società, con tanto di riflessioni sulla sindrome di stress post-traumatico (Fred ha continui incubi relativi alle sue missioni e alla morte dei suoi commilitoni), sulle difficoltà nei rapporti familiari e sui problemi economici. Della guerra si parla molto (e anche dei timori sul futuro, ora che l'energia nucleare è stata liberata), ma non la si vede mai: priva di flashback, la pellicola (lunga quasi tre ore) si concentra con grande realismo sulla descrizione dell'America post-bellica (è ambientata a Boone City, fittizia città di provincia ispirata a Cincinnati), sulle relazioni umane dei personaggi, sui loro sogni e sulle loro paure. Fra le sottotrame che collegano le vicende dei tre protagonisti, spicca quella “romantica” fra Fred e la figlia di Hal, Peggy (Teresa Wright). Memorabile la scena finale, girata in un “cimitero” di aeroplani da combattimento da demolire. Russell non era un attore professionista, ma un autentico veterano di guerra (le sue protesi non sono finte). La sceneggiatura di Robert E. Sherwood è tratta da un racconto (“Glory for Me”) dell'ex corrispondente di guerra MacKinlay Kantor. Ottime le interpretazioni, la regia di Wyler e la fotografia di Gregg Toland, che aiutarono la pellicola a riscuotere un enorme successo di pubblico e critica: vinse ben sette premi Oscar – quelli per il miglior film, regista, attore protagonista (March), non protagonista (Russell), montaggio, sceneggiatura e colonna sonora – più altre due statuette onorarie (a Russell e al produttore Samuel Goldwyn). Esiste un remake televisivo del 1975, con Tom Selleck. Nessun legame, invece, con l'omonima canzone di Renato Zero e con il film del 2019 di Claude Lelouch.
2 commenti:
Sì, è assolutamente impressionante la lucidità con cui, appena conclusa la guerra e non ancora smaltita l'euforia della vittoria, i problemi dei reduci vengano messi a fuoco!
L'impianto corale aggiunge anche spessore alla vicenda, che se si fosse concentrata su un solo personaggio (anziché tre) avrebbe corso il rischio di sembrare un caso isolato e individuale. Così invece si trasmette l'idea che sono tutti i combattenti, o tutta una generazione, a dover fare i conti con il "dopoguerra".
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