Minari (Lee Isaac Chung, 2020)
Minari (id.)
di Lee Isaac Chung – USA 2020
con Steven Yeun, Han Ye-ri
*1/2
Visto in TV (Now Tv), con Sabrina.
Una famiglia di immigrati coreani, negli anni ottanta, si trasferisce dalla California all'Arkansas per vivere in una casa mobile in mezzo alla campagna, dove il capofamiglia (Steven Yeun) spera di coltivare la terra, mentre lui e la moglie (Han Ye-ri) lavorano in un vicino allevamento di polli al "sessaggio" dei pulcini. Ma le difficoltà non mancano, dalla mancanza di acqua per irrigare i campi ai problemi di salute del figlio più piccolo (Alan Kim), malato di cuore, così come i disaccordi e le differenze di vedute fra i due coniugi. Che non si acquietano nemmeno quando dalla Corea giunge la madre di lei, eccentrica nonnina (Yoon Yeo-jeong) incaricata di accudire i bambini. Ma alla fine le cose si sistemeranno quasi da sole. Semi-autobiografico (il regista è nato negli Stati Uniti da genitori coreani ed è cresciuto in una fattoria), un film acclamato dalla critica (ha vinto numerosi premi ed è stato nominato a sei Oscar, conquistando con Yoon la statuetta per la miglior attrice non protagonista) e che in America è piaciuto per via della rinnovata attenzione verso le radici della loro multiculturalità, che però io ho trovato esile, noioso e semplicemente poco interessante, tanto nella storia quanto nei personaggi. Gli eventi accadono quasi random, le svolte sono telefonate, le risoluzioni non hanno peso. La cosa peggiore è la poca naturalezza di fondo: più che coreani, i personaggi sembrano americani in tutto e per tutto: per come recitano, per come parlano, per i valori che propugnano. Non a caso i dialoghi (assai didascalici, peraltro) sono stati scritti in inglese dal regista, e tradotti in coreano (da un'altra persona) soltanto in seguito. Il doppiaggio italiano appiattisce il tutto traducendo sia il coreano che l'inglese nella nostra lingua ed eliminando così l'unico elemento di interesse, quello multiculturale appunto. Anche il sessaggio dei pulcini poteva rappresentare un'ardita metafora (gli elementi "improduttivi" vengono scartati), ma poi non c'è legame con le vicende dei protagonisti o con l'ambiente circostante. Fotografia molto (troppo) desaturata, come a voler ammantare di un'aura remota e nostalgica quelli che sono ricordi dell'infanzia. Ma che siamo negli anni ottanta lo si capisce solo da una frasetta che fa riferimento a Reagan, a metà film. Il "minari" che dà il titolo alla pellicola è una sorta di prezzemolo orientale.
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