6 novembre 2010

L'illusionista (Sylvain Chomet, 2010)

L'illusionista (L'illusionniste)
di Sylvain Chomet – Francia/GB 2010
animazione tradizionale
**1/2

Visto al cinema Apollo, con Paola.

Un prestigiatore francese, che si sposta di teatro in teatro e di città in città in cerca di scritture, giunge fino in Scozia dove conosce una ragazzina che lo seguirà per qualche tempo, affascinata dalla sua capacità di trasformare la grigia realtà in qualcosa di sempre nuovo e sorprendente. Ma sullo sfondo c'è tutta la malinconia e la tristezza di un mondo che sta cambiando a grande velocità. Tratto da un soggetto e da una sceneggiatura inedita di Jacques Tati, il secondo lungometraggio di Chomet (che già nel suo primo film, "Appuntamento a Belleville", aveva reso omaggio all'arte del grande comico) sembra in molte cose un film di Monsieur Hulot, a partire dalla rinuncia al linguaggio parlato (il film non è propriamente muto, ma i dialoghi sono del tutto inessenziali). Il protagonista, modellato anche fisicamente su Tati (il cui vero nome è lo stesso del personaggio, Tatischeff), si muove con gentilezza ma fuori posto in un mondo in cui gli spettacoli di magia e di varietà non riscuotono più l'interesse del pubblico, contagiato da nuove mode (esilarante la parodia dei complessi rock che elettrizzano le folle di giovani a Londra), distratto dai venti di guerra, dal consumismo o dalle nuove tecnologie. Come l'illusionista, anche gli altri abitanti di questo microcosmo sono destinati al fallimento: si veda il clown che tenta il suicidio o il ventriloquo che, costretto a impegnare il suo pupazzo, finisce col chiedere l'elemosina (altri, come gli acrobati, si riciclano con più facilità lavorando nel campo del marketing). E anche il nostro mago, nel finale, sembra abbracciare la disillusione, rinunciando ai giochi di prestigio (esemplare quando non sostituisce la matita della bambina in treno con una più lunga) e facendo aprire gli occhi alla ragazzina con il suo ultimo messaggio: "I maghi non esistono". Alla fine, rassegnato, stringe fra le mani la foto della figlia (Sophie Tatischeff, la vera figlia di Tati, alla quale Chomet dedica il film con gratitudine per avergli dato il permesso di realizzare quello che era un suo sogno da tempo: riportare sullo schermo lo spirito un artista unico e indimenticabile). Per un breve momento, nel buio di una sala che proietta "Mio zio", il Tati disegnato e quello in carne e ossa hanno anche l'occasione di incontrarsi e di confrontarsi. Splendidi i disegni e soprattutto i fondali e le scenografie ad acquarello, che rendono giustizia agli scenari dell'Europa degli anni cinquanta (Parigi, Londra, le isole scozzesi e soprattutto Edimburgo).

4 commenti:

Marisa ha detto...

Questa volta sono io che protesto per la valutazione troppo bassa data a questo splendido cartoon, letta anche la recensione che ne fai e che mi sembra del tutto positiva.
A me è piaciuto moltissimo: bellissimi i disegni, quasi opere d'arte, grande il personaggio di Tatischeff ( più reale, se si può dello stesso Tati),che si muove con tenera goffaggine in un mondo dove non c'è più spazio per la fantasia, ma che regala all'unica ingenua ragazza che lo segue fiduciosa, la possibilità di cambiare comunque la sua vita, anche rivelandole che i maghi non esistono.

Christian ha detto...

Il film infatti mi è piaciuto (anche se forse meno di "Appuntamento a Belleville", il precedente film di Chomet), però al momento di "quantificare" il mio gradimento non sono riuscito a salire più di così. Ma non mi piace parlare di voti o giudizi: le stelline sono soltanto un mio riferimento personale, e nascono più dalle sensazioni che da un ragionamento. In ogni caso, rispetto al "vero" Tati mi è sembrato che a questa versione disegnata manchi qualcosa, forse l'ironia o forse lo sguardo stralunato di un personaggio che osserva le cose dall'esterno e che non fa veramente parte del mondo che lo circonda.

Giorgio ha detto...

Quando ero bambino negli anni Cinquanta, facevo spesso funzionare un vecchio grammofono a 78 giri, di quelli con la puntina d'acciaio e la carica a manovella, ed ascoltavo una serie di dischi di famiglia, tra i quali uno di Charles Trenet che portava su una facciata Douce France, la canzone del 1943 della Francia occupata dai nazisti, e sull'altra Que reste-t-il des nos amours, del 1942. Che cosa resta del nostro amore, che cosa resta di quei bei giorni, una foto, vecchia foto della mia giovinezza, dicono le parole di una canzone che esprime con dolcezza la nostalgia di una felicità passata e che per me esprime la nostalgia della lontana infazia. Tutto il film L'illusionista è segnato dallo stesso tipo di emozione, la nostalgia del passato, anche di un passato triste, infelice, che genera però dolci ricordi. Una dolcissima tristezza che ti accarezza nel ricordo di un grande del cinema, interprete quasi sempre muto dei suoi film, impacciato e stralunato come interprete, come autore rovinato economicamente dall'insuccesso commerciale di molte delle sue opere, geniale demolitore, ma inascoltato, della civiltà delle macchine. Il mutismo di Mr. Hulot si traduce in un film di animazione senza parole, con significativo accompagnamento musicale, e con alcune fonetizzazioni quasi di gargarismo dall'effetto goffo e strampalato. L'ambientazione all'epoca dei Beatles, primi anni Sessanta, coincide con l'epoca del massimo successo di Tati; i luoghi, particolarmente la città di Edimburgo, sono inusuali ma si prestano ad esprimere la lontananza; il disegno è morbido e direi quasi affettuoso. Tutto l'insieme è magnificamente coerente e pieno di poesia.

Christian ha detto...

Tutto giusto. Però aggiungo che in questo film la nostalgia e la dolcezza mi sembrano un po' fini a sé stesse, mentre nei "veri" film di Tati c'è, come dicevo, anche qualcosa in più.