L'albero dei frutti selvatici (N. B. Ceylan, 2018)
L'albero dei frutti selvatici (Ahlat Ağacı)
di Nuri Bilge Ceylan – Turchia 2018
con Aydın Doğu Demirkol, Murat Cemcir
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Visto al cinema Eliseo, con Marisa.
Appena laureato, il giovane Sinan torna nella città di provincia dove è nato, indeciso sul proprio futuro: diventare insegnante come suo padre Idris, che pure negli ultimi anni ha dilapidato denaro e reputazione scommettendo alle corse dei cavalli e riempendosi di debiti? Oppure inseguire il sogno di diventare scrittore, pubblicando (a proprie spese) un libro di "riflessioni sulla cultura locale"? O ancora, fare come molti suoi amici in un momento di crisi economica e culturale, arruolandosi nelle forze armate? Con i suoi tempi lunghi (il film dura oltre tre ore) e la consueta cura nell'analisi psicologica dei personaggi e del loro rapporto con il mondo circostante, Ceylan racconta una crisi esistenziale la cui soluzione era forse a portata di mano: il recupero del rapporto fra padre e figlio, quel padre che il protagonista tiene a distanza per troppo tempo, deluso e infastidito da lui come lo è dal resto del mondo, prima di accorgersi che in fondo i due sono molto più simili di quanto non pensasse. Il titolo originale, che poi è anche quello del libro scritto da Sinan, si riferisce a una specie di pero selvatico che cresce sulle alture della provincia di Çanakkale (vicino alle rovine dell'antica Troia): l'albero è ovviamente una metafora del rapporto fra padre e figlio, sottolineandone le similitudini (anche a livello di testardaggine e spigolosità): in fondo non si dice che il frutto non cade mai troppo lontano dal fusto che l'ha generato? E in generale la natura, con i suoi ritmi e le sue stagioni (quasi l'intero film è girato in autunno, tranne alcune brevi scene invernali nel finale), pare essere l'ancora di salvataggio per chi non riesce proprio a sentirsi in sintonia con gli uomini di un mondo ipocrita e che sembra sempre cambiare in peggio (si pensi alle lunghe scene dialogo di Sinan con lo scrittore affermato, con il capocantiere, o con i due imam, attraverso le quali mette a confronto con gli altri la propria visione dell'arte, della società e della religione). Come spesso nei film di Ceylan, il fulcro di tutto sono la famiglia e i luoghi delle proprie origini, ai quali i suoi personaggi introspettivi e irrequieti, che accettino o meno la propria sconfitta, fanno inesorabilmente ritorno. Lo stile, lucido e formalmente elegante, è qui appena un po' più sporco (con occasionali flare o sfocature), ma nell'intensità generale si concede alcuni momenti onirici che confermano il carattere sognatore e visionario dei due protagonisti (vedi anche il doppio finale: cupo e pessimista, con il sucidio del giovane, oppure lieto e ottimista, con Sinan che decide di restare al fianco del padre per aiutarlo a trovare l'acqua nel pozzo nella vecchia fattoria di famiglia, che il genitore ha rimesso in sesto per ritirarcisi a vivere come pastore dopo essere andato in pensione). Nota di colore: il cavallo di legno che si vede nel film è il modello usato per le riprese del film "Troy" con Brad Pitt.
2 commenti:
Come se Dostoevskij fosse risorto in Turchia e facesse cinema. Da brividi la sequenza con la ragazza. Film dell'anno
Uno di quei film da rivedere per apprezzarlo meglio, vista la complessità dei temi che tratta, tutti molto sentiti e forse troppo "parlati". Se la situazione di un giovane con i suoi sogni e forse anche talenti(non lo sappiamo perchè a parte il padre nessuno legge il suo libro!) è difficile in un mondo così cinico e affarista, quello della donna è ancora peggiore e l'episodio dell'incontro con l'ex compagna di liceo, a cui si riferisce Claudio, lo conferma.
Forse la scelta dell'autunno e alla fine dell'inverno stanno ad indicare l'esaurirsi e il congelamento delle speranze. Tornerà mai la primavera?
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