10 ottobre 2018

Il settimo sigillo (Ingmar Bergman, 1957)

Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet)
di Ingmar Bergman – Svezia 1957
con Max von Sydow, Gunnar Björnstrand
***1/2

Rivisto in divx, con Marisa, Giovanni e altri.

Di ritorno dalle crociate, il cavaliere Antonius Block (Max von Sydow) e il suo scudiero Jons (Gunnar Björnstrand) attraversano un paese sconvolto dalla pestilenza, dove gli uomini muoiono come mosche e tutti temono che sia giunta la fine del mondo prevista dall'Apocalisse ("Quando l'angelo aprì il settimo sigillo, nel cielo si fece silenzio e vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio e furono loro date sette trombe..."). Block, angosciato dal silenzio di Dio e tormentato dai dubbi che si aprono nella propria fede (mentre di contro lo scudiero Jons è più pragmatico e razionalista), si ritrova faccia a faccia con la Morte impersonificata (Bengt Ekerot), un'alta e tetra figura dalla pelle bianca e dal manto nero: e per prendere tempo, la sfida a una partita a scacchi (seguendo in questo un'iconografia medievale che mostrava spesso il tristo mietitore impegnato in tale attività). Man mano che la partita procede, trascinandosi di giorno in giorno, il cavaliere e lo scudiero proseguono il loro viaggio verso casa, incontrando fra gli altri una serva muta (Gunnel Lindblom) che Jons prende con sé; un fabbro di villaggio (Åke Fridell) con la moglie infedele (Inga Gill); e soprattutto una compagnia itinerante di attori e saltimbanchi, formata dal capocomico Jonas (Erik Strandmark) e dai giovani coniugi Jof (Nils Poppe) e Mia (Bibi Andersson), con il loro figlioletto Mikael. Saranno proprio questi ultimi, puri di cuore e di spirito (al punto che Jof, pur non comprendendo le proprie visioni, è in grado di percepire il trascendente e il soprannaturale), gli unici a salvarsi dalla Morte che il cavaliere, protraendo al massimo il tempo della partita a scacchi, condurrà con sé fino al proprio castello. Ambientato in un medioevo cupo ed oscuro, dove le campagne sconvolte dalla peste sono percorse da pellegrini penitenti e flagellanti (al canto del "Dies Irae") e da monaci che mettono alle fiamme le presunte streghe, forse il film più famoso di Ingmar Bergman, di certo quello che più di ogni altro è entrato nell'immaginario cinematografico e collettivo (non si contano gli omaggi, le citazioni, i riferimenti, anche in lavori del tutto diversi e che apparentemente non hanno niente in comune con le riflessioni esistenziali – prima ancora che religiose – del regista svedese: si pensi a "Last action hero" o a "Un mitico viaggio").

L'immagine del cavaliere che gioca a scacchi con la Morte è sicuramente potente, ma la pellicola offre molto di più: è il percorso di un uomo che comincia a farsi delle domande nel momento in cui si rende conto di stare ormai avvicinandosi al proprio destino finale, un percorso che non tutti fanno allo stesso modo (il contraltare del cavaliere, come detto, è lo scudiero nichilista: ma c'è anche chi proietta le proprie paure all'esterno, cercando un capro espiatorio – la ragazza accusata di essere una strega (Maud Hansson) – oppure chi semplicemente rifiuta di accettare la situazione). Tutti dobbiamo morire, ma non tutti ci avviciniamo alla morte nello stesso modo. Anche formalmente il film gioca con gli estremi: la vita e la morte sono simboleggiate dal bianco e nero (e non a caso, nella partita a scacchi, la Morte muove i pezzi neri), che la fotografia di Gunnar Fischer esalta in modo magistrale. E nella cupezza generale, risaltano la luce e la gioia di vivere della giovane famiglia di saltimbanchi: il momento in cui giocano con il bambino sul prato, in cui si gustano il latte e le fragole (un "posto delle fragole" ante litteram!) svela il reale significato della felicità: apprezzare e godersi la vita momento per momento, come lo stesso cavaliere riconosce affermando che porterà quell'istante nella propria memoria. In tutto questo, Bergman – che come Shakespeare condisce il dramma con alcune scenette comiche (quelle relative al fabbro e alla moglie che scappa con l'attore) – si ispira, oltre che alle suddette iconografie medievali (si pensi anche all'ultima scena, quella della "danza con la Morte", o ai dipinti che un artigiano sta tracciando sulle pareti di una chiesa diroccata), a un piccolo dramma teatrale, "Pittura su legno", da lui stesso scritto qualche anno prima. Insignito del premio speciale della giuria al Festival di Cannes, il film divenne un classico istantaneo e portò Bergman alla fama internazionale. La pellicola segna anche l'inizio della collaborazione con il regista svedese di due intepreti che in seguito appariranno ripetutamente nei suoi lavori: Max von Sydow (attore teatrale all'esordio assoluto nel cinema) e Bibi Andersson.

4 commenti:

Marco C. ha detto...

Magistrale. Forse il primo film d'autore che decisi di salvare in VHS. Credo che la mia collezione odierna derivi proprio da qui.

Christian ha detto...

È senza dubbio un capolavoro, anche se a livello personale di Bergman preferisco "Il posto delle fragole" e "La fontana della vergine".

Marisa ha detto...

E' veramente un film che rimane a lungo nella memoria e nell'immaginario ed è il degno contraltare di "Ordet", per la sua tematica sul "Silenzio" di Dio, tanto quanto l'altro si regge sulla "Parola". Magistrale la resa delle parole di Matteo "Beati i puri di cuore perchè vedranno Dio" incarnate nella poetica e fresca rappresentazione della famiglia dei saltimbanchi.

Christian ha detto...

Certamente stimola interessanti riflessioni sul rapporto con la morte e la religione, anche se da questo punto di vista è più programmatico e meno spirituale di "Ordet".