31 marzo 2010

L'estate di Kikujiro (T. Kitano, 1999)

L'estate di Kikujiro (Kikujiro no natsu)
di Takeshi Kitano – Giappone 1999
con Takeshi Kitano, Yusuke Sekiguchi
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni.

Il piccolo Masao, che dopo la morte del padre vive con la nonna, si ritrova solo e senza amici (partiti tutti per le vacanze) all'inizio dell'estate. Decide così di andare in cerca della madre che lo aveva abbandonato anni prima e della quale ha scoperto per caso il nuovo indirizzo: una cittadina a centinaia di chilometri di distanza da Tokyo. Ad accompagnarlo nel suo viaggio, attraverso scorci di un Giappone di provincia sconosciuto e quasi disabitato, lontano dalle vie più trafficate o dalle zone turistiche, sarà un inaffidabile, strafottente e sbandato (ex?) yakuza, quasi un bullo di periferia poco cresciuto, compagno di un'amica di famiglia. Il suo nome – ma lo scopriremo solo alla fine del film – è quello che figura nel titolo: Kikujiro. Dapprima l'uomo affianca malvolentieri il bambino, avendo ben poche intenzioni di aiutarlo davvero e preferendo spendere alle corse tutto il denaro consegnatogli per il viaggio. Ma poi si prenderà a cuore le sue sorti (forse perché anche lui, come Masao, si sente isolato e incompreso e ha un rapporto forzatamente incompiuto con la propria madre, ricoverata in un istituto). E quando, giunti alla meta, scoprirà che la mamma di Masao si è risposata e ha ormai un'altra famiglia, per tirar su il morale al ragazzino organizzerà un campeggio sul lago coinvolgendo alcuni dei tanti bizzarri personaggi incontrati durante il viaggio: un poeta-filosofo che si sposta per il paese su un furgoncino e una coppia di teneri motociclisti metallari, al più grasso dei quali sottrarrà un pendente, il magico "angelo campanellino", da regalare a Masao come portafortuna. Più che il bambino (nonostante le ali che spuntano dal suo zainetto), gli "angeli" della vicenda sono infatti Kikujiro e gli altri personaggi-clown che gli fanno compagnia durante tutta l'estate.

Nel suo lungometraggio più leggero e accessibile, un piccolo gioiellino di poesia e umorismo nonché uno dei suoi film meno violenti (il che ha sorpreso parecchi critici che evidentemente non avevano visto pellicole precedenti come "Il silenzio sul mare"), Kitano racconta la storia di un'amicizia fra due "esclusi" che da un lato pare in debito verso "Il monello" di Chaplin (a sua volta storia di un'amicizia fra un adulto e un bambino, dove eventi tristi o drammatici venivano raccontati con ironia o spensieratezza) e dall'altra contestualizza quella voglia di giocare e di vivere al di là delle regole della società che era già presente nelle pellicole precedenti (in particolare in "Sonatine", da dove tornano i giochi infantili e fantasiosi sulla spiaggia, benché qui abbiano una valenza meno filosofica e più immediata). Il film è diviso in capitoletti, introdotti da disegni o da fotografie animate, come se si trattasse delle sezioni di un diario delle vacanze tenuto da Masao. Il mood è pertanto svagato e leggero, quasi fiabesco (un altro possibile riferimento è "Il mago di Oz"), e non mancano inserti onirici (i sogni e gli incubi del bambino, il balletto dei demoni al festival notturno) e stralunati (gli effetti digitali). Joe Hisaishi contribuisce all'ottimo risultato finale con una delle sue colonne sonore più riuscite, un vero capolavoro melodico, con un tema principale semplice ed essenziale, modulato e riproposto in mille varianti, che si imprime indelebilmente nella mente dello spettatore ed è impossibile da non fischiettare una volta terminata la visione. In Italia, quando il film uscì al cinema, venne tagliata la scena dell'incontro con il pedofilo (che pure è assai importante per la comprensione della trama: soltanto dopo quell'episodio, infatti, Kikujiro si decide ad accompagnare Masao nel suo viaggio; inoltre il personaggio dell'"uomo cattivo" ritorna in seguito in uno degli incubi del bambino), reintegrata per fortuna nel DVD. Una curiosità: nella realtà Kikujiro è il nome del padre di Kitano.

29 marzo 2010

Cloverfield (Matt Reeves, 2008)

Cloverfield (id.)
di Matt Reeves – USA 2008
con Michael Stahl-David, Mike Vogel
**1/2

Visto in DVD.

Dopo "The Blair Witch Project" (e "Cannibal Holocaust"), ecco un altro film che sfrutta l'idea del video amatoriale come testimonianza "dal vivo" di un evento straordinario e terrorifico. Alcuni ragazzi si riuniscono in un appartamento di Manhattan per un party, ma il grattacielo e l'intera New York vengono attaccati da una creatura mostruosa e misteriosa, forse extraterrestre oppure proveniente dalle profondità marine (come "Godzilla", al quale è probabilmente ispirata). Durante la fuga attraverso la città evacuata e semidistrutta (non mancano sequenze che ricordano le tragiche scene degli attentati dell'11 settembre), mentre l'esercito cerca inutilmente di arrestare l'avanzata del mostro, i protagonisti riprenderanno ogni cosa con la loro videocamera digitale. A giudicarlo strettamente dal punto di vista dei contenuti, "Cloverfield" sarebbe un fallimento totale: come horror non fa paura, come thriller non coinvolge né appassiona, come action fantascientifico non offre nulla di nuovo rispetto a centinaia di monster movie già visti in precedenza, e il suo presunto "realismo" non inganna nemmeno per un momento uno spettatore abbastanza smaliziato da riconoscerne la finzione (e i milioni di dollari spesi in effetti speciali). I suoi pregi sono dunque a livello puramente teorico. Gli eventi di sette ore (concentrati in settanta minuti, gli unici in cui la videocamera viene tenuta accesa) vengono mostrati "in tempo reale" e attraverso lo sguardo in soggettiva dell'apparecchio. Quello che lo spettatore vede è esattamente quello che vedono e scoprono man mano i personaggi, che sono contemporaneamente protagonisti e registi (montatori, operatori, ecc.) del film stesso, nonché gli unici a fornire un punto di vista sugli eventi: se loro muoiono, anche il film finisce. Naturalmente sembra del tutto improbabile che da un girato casuale (teoricamente privo anche di sceneggiatura), possa venir fuori una storia con un senso, completa di sviluppi e caratterizzazioni, sottotrame sentimentali, colpi di scena, assenza di tempi morti, risoluzioni drammatiche, e persino un finale: e già questo rischia di minare la credibilità dell'intera operazione. In realtà, come sempre, la sospensione dell'incredulità fa miracoli, e soprattutto il montaggio fatto "direttamente in camera" finisce col costituire il vero punto di forza del film, oltre a regalare la trovata più felice: il nastro utilizzato dai ragazzi, infatti, era già stato usato in precedenza; e a tratti, quando la registrazione viene arrestata, prima che riparta possiamo osservare i frammenti di una giornata precedente, più solare, che fanno da contraltare emotivo alle devastazioni e all'attacco del mostro, come in una sorta di flashback. Lo stile di regia, naturalmente, è confuso e con la camera a mano in perenne movimento, tanto da risultare quasi fastidioso (o noioso, a seconda dei punti di vista). Dopo i primi venti minuti, che servono soltanto a introdurre i personaggi, l'aspetto del mostro viene "bruciato" quasi subito (sarebbe stato meglio lasciarlo più a lungo nell'ombra), ma almeno la sua natura – così come quella delle altre piccole creature che lo accompagnano, quasi più spaventose di lui – rimane avvolta nel mistero, com'è giusto che sia. Fino a quando non arriverà l'inevitabile sequel, naturalmente, visto il successo riscontrato dalla pellicola. La scena in cui la statua della libertà viene decapitata dal mostro è stata ispirata dal manifesto originale di "1997 Fuga da New York". Il produttore, nonché la mente dell'intera operazione, è il furbo J. J. Abrams, quello di "Lost", un vero maestro nell'ammantare di una veste nuova (e accattivante, ammettiamolo) qualcosa che di originale ha ben poco.

28 marzo 2010

Monsieur Hulot nel caos del traffico (J. Tati, 1971)

Monsieur Hulot nel caos del traffico (Trafic)
di Jacques Tati – Francia 1971
con Jacques Tati, Maria Kimberly
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Alla sua ultima apparizione, ritroviamo Hulot nei panni di un progettista di automobili, incaricato di portare il suo ultimo modello (una bizzarra "vettura da camping", ricca di mille gadget e comodità) a un'esposizione internazionale che si tiene ad Amsterdam. Il nostro eroe parte così da Parigi a bordo di un furgone che trasporta la macchina, in compagnia dell'autista e di una graziosa addetta alle pubbliche relazioni che li precede su una sportiva vetturetta gialla. Ma fra guasti, problemi e inconvenienti di ogni tipo (incidenti, soste forzate, riparazioni), arriveranno quando la fiera si è ormai conclusa. Costretto dal flop del precedente e ambiziosissimo "Play time" e dal fallimento della sua casa di produzione a lavorare con un budget decisamente ridotto, Tati prende di mira ancora una volta la società dei consumi e le stravaganze della tecnologia. Ma ormai la sua comicità è un po' stanca, il personaggio sembra aver perso la propria "purezza" (non è più l'unico baluardo contro la frenesia e l'assurdità del mondo moderno, ma ne fa parte a pieno titolo) e le gag – basate su continui tormentoni e sull'osservazione di tic, manie e comportamenti insoliti – si trascinano senza graffiare. A salvare il film rimane il ritmo rilassato e ondivago, la grande cura nella messinscena e la costruzione di un mondo fuori dal tempo, dove l'era moderna (la costante presenza degli astronauti in televisione, l'ambiente cosmopolita dell'esposizione, le autostrade trafficate) convive con scenari d'altri tempi (gli scorci di campagna, il passaggio delle chiatte sul fiume), nonostante l'invadenza del marketing e del consumismo (come l'assurda promozione della stazione di servizio dove vengono regalati finti reperti archeologici). Impagabile il personaggio di Maria Kimberly, graziosa, iperefficiente e "moderna", ma anche distratta e arrogante, che si cambia d'abito in continuazione, che guida in maniera assai disinvolta (gran parte dei problemi nascono perché l'autista del furgone non riesce a tenere il suo ritmo) e che solo nel finale arriva a sciogliersi un po'. Fondamentale come sempre il sonoro: se le gag sono prevalentemente mute, i personaggi parlano (e borbottano) fra loro in numerose lingue (francese, tedesco, inglese, olandese), riuscendo incredibilmente a capirsi.

26 marzo 2010

Estate romana (M. Garrone, 2000)

Estate romana
di Matteo Garrone – Italia 2000
con Rossella Or, Salvatore Sansone, Monica Nappo
***

Visto in DVD, con Martin.

Per la prima volta alla prese con un lungometraggio di durata convenzionale, Garrone mette momentaneamente da parte il mondo degli immigrati (ma non quello dei personaggi disagiati e ai margini della società) e racconta la storia di tre "anime perdute" e alla deriva in una Roma torrida, nervosa e inospitale. La fragile e stralunata Rossella, vittima di suggestioni new age, torna in città dopo un'assenza di diversi anni con l'intenzione di riallacciare vecchie amicizie, instaurare nuovi rapporti sentimentali e mettere ordine nella propria vita disastrata. Ma si rivelerà patetica e inadeguata, collezionerà soltanto rifiuti e umiliazioni e non riuscirà nemmeno a tornare alla sua passione precedente, il teatro. Nella sua casa ora abita Salvatore, un artista immaturo che si illude di guadagnare qualche soldo realizzando scenografie per uno spettacolo teatrale con l'aiuto della sua assistente Monica, di cui è silenziosamente e inutilmente innamorato. Quest'ultima, separata e con una bambina a carico, sembra più attiva ma è altrettanto sola: lavora di notte presso un chiosco-bar alla periferia della città e cerca a sua volta nuovi affetti. Nella prima parte il film fatica un po' a ingranare, forse per la narrazione frammentata o per l'inconcludenza degli stessi personaggi, schegge impazzite e prive di direzione; la sezione centrale, quella in cui i tre si recano al mare portando con sé il gigantesco mappamondo di cartapesta realizzato da Salvatore e Monica, è all'insegna dell'assurdo e della commedia esistenzialista (ricompare anche Corrado, il fotografo già visto nel precedente "Ospiti"); il finale, ammantato di tragicità, compatta infine la pellicola sui suoi temi fondamentali. Bravi e convincenti, come sempre nei film di Garrone, gli interpreti (molti dei quali provengono dall'ambiente del teatro d'avanguardia e underground degli anni settanta; e tutti hanno gli stessi nomi dei loro personaggi). Pur spingendosi ai confini della commedia drammatica (ci sono persino alcuni passaggi morettiani – d'altronde coproduce la Sacherfilm – come la scena in cui un uomo tenta inutilmente di fare colpo su una ragazza al bar: quando questa si alza per andarsene, al suo "Te ne vai? Pensavo di averti colpito..." lei risponde "Sì, infatti... In maniera molto negativa..."), la pellicola mantiene quel tono documentaristico che aveva caratterizzato i precedenti lavori del regista, attento soprattutto a descrivere un ambiente. La macchina da presa segue da vicino i personaggi, senza però diventare protagonista a sua volta, e non distoglie mai lo sguardo dalla realtà e dal malessere che li circonda (il dibattito politico, i discorsi del regista teatrale, l'invasione dei commercianti cinesi, i problemi familiari di Monica).

25 marzo 2010

Ospiti (Matteo Garrone, 1998)

Ospiti
di Matteo Garrone – Italia 1998
con Julian Sota, Llazar Sota
**1/2

Visto in DVD, con Martin.

I cugini Gherti e Gheni, giovani immigrati albanesi giunti in Italia in cerca di lavoro, vengono ospitati a casa di Corrado, fotografo timido e balbuziente, con il quale fanno amicizia. Attraverso il consueto stile realista, episodico e minimalista (col senno di poi, appare chiaro come "Gomorra" non sia nato dal nulla e fosse un film già nelle corde di Garrone: anzi, è ancora più evidente come il regista abbia piegato il libro di Saviano alle proprie esigenze e alla propria poetica, l'osservazione sincera e mai voyeuristica della realtà scomoda e multiculturale che lo circonda), la pellicola mostra diversi momenti della dura quotidianità dei suoi protagonisti senza cercare scorciatoie o facili emozioni. Privo di una vera trama, il film presenta situazioni legate solo debolmente l'una all'altra, come – nel finale – quella in cui i ragazzi aiutano l'anziano Lino nella ricerca della moglie, malata di mente, che si è smarrita. Come e più del precedente "Terra di mezzo", il film descrive un mondo di individui ai margini della società, che molti italiani non vogliono nemmeno conoscere (emblematica la scena in cui gli inquilini del palazzo dove vive Corrado si lamentano per la presenza dei due albanesi): questo cinema, che piaccia o meno, è forse l'unico vero antidoto alla demenza, alla piaggeria e ai cliché delle fiction televisive.

23 marzo 2010

Molto rumore per nulla (K. Branagh, 1993)

Molto rumore per nulla (Much Ado About Nothing)
di Kenneth Branagh – GB/USA 1993
con Kenneth Branagh, Emma Thompson
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Paola, Ilaria, Ginevra e Giuseppe.

La commedia di William Shakespeare, un brillante e ricco girotondo di inganni, amori, calunnie ed equivoci, viene messa in scena dall'istrionico Branagh in maniera accattivante e moderna, con l'aiuto di un cast stratosferico, che mescola stelle hollywoodiane (Denzel Washington, Keanu Reeves, Michael Keaton), giovani attori (Robert Sean Leonard e Kate Beckinsale) e vecchie glorie del teatro o del cinema britannico (Richard Briers, Brian Blessed, Phyllida Law, Imelda Staunton). Naturalmente la parte dei mattatori la fanno lo stesso Branagh ed Emma Thompson, all'epoca marito e moglie, che battibeccano e si stuzzicano in continuazione nei panni dei "bisbetici" Benedetto e Beatrice, qui elevati a protagonisti principali anche al di sopra dei giovani amanti Claudio ed Ero. L'amore eccessivamente idealizzato di questi ultimi, infatti, si dimostra vulnerabile ai primi sospetti e alle prime difficoltà, mentre quello temprato da innumerevoli schermaglie poggia invece su basi assai più solide. Senza rinunciare all'impostazione teatrale e ai dialoghi originali (ricordo che dopo aver visto il film per la prima volta andai a consultare il testo scespiriano, stupendomi di ritrovarci pari pari situazioni, battute e dialoghi che avrei giurato fossero stati scritti da uno sceneggiatore contemporaneo apposta per la pellicola!), il film offre anche momenti di grande cinema: basti pensare all'incipit, con l'arrivo dei soldati di Don Pedro nella tenuta di Leonato e tutti i personaggi che si lavano nei fontanili prima di presentarsi all'incontro con le controparti; al ballo notturno in maschera, evocativo e inconfondibilmente "italiano"; e ai due magnifici piani sequenza in occasione della canzone presso la fontana e soprattutto nel finale, quando vengono festeggiate le nozze.

La storia è ambientata a Messina, in Sicilia, ma Branagh ha scelto di girarla in Toscana, in una magnifica villa fra colline e vigneti: proprio questo film, insieme ad altre pellicole degli anni novanta come "Io ballo da sola" di Bernardo Bertolucci, ha contribuito a cementare l'amore fra gli inglesi e quello che ormai chiamano "Chiantishire", spingendo molti cittadini britannici (l'ex premier Tony Blair in testa) ad acquistare casolari e tenute nella regione. L'ambientazione è un elemento fondamentale per il successo del film (che non a caso si apre e si chiude sul paesaggio delle colline toscane), attraversato dall'atmosfera estiva, da un'allegria contagiosa (feste, risate, canti, balli), da un umorismo sfrenato (le smorfie di Benedetto; il linguaggio nonsense, bislacco e ricco di malapropismi del capo delle guardie, interpretato da un farsesco Michael Keaton che cita persino i Monty Python quando cammina mimando una cavalcata), ma anche da toni malinconici e finanche tragici, con i complotti del perfido Don Juan (un Keanu Reeves severo e arcigno) ai danni del fratello Don Pedro (un Denzel Washington solare e in gran forma), di cui fanno le spese Claudio ed Ero e che scatenano il dramma prima dell'immancabile lieto fine. Azzeccata anche la colonna sonora di Patrick Doyle, con un paio di canzoni assai gradevoli e orecchiabili (il testo della prima, "Sigh no more", apre il film a mo' di didascalia). La pellicola ha anche contribuito a rinnovare il popolare legame fra il grande pubblico, il cinema e Shakespeare, che lo stesso Branagh aveva riportato in auge sin dal suo "Enrico V" del 1989, mostrandone tutta l'attualità.

22 marzo 2010

Quattro anni

Tomobiki Märchenland compie oggi quattro anni!

Ringrazio tutti i lettori che seguono questo blog più o meno regolarmente, e mi accingo a presentare le consuete statistiche per la gioia di grandi e piccini. In questo quarto anno ho scritto di 293 film (il che porta il totale a 1157, superando la barriera dei mille titoli). Di questi, 208 li ho visti per la prima volta, mentre 85 li conoscevo già. Le visioni casalinghe sono state 210, quelle al cinema 83 (di cui 55 nelle rassegne di Cannes e Venezia). Il regista di cui mi sono occupato maggiormente negli ultimi dodici mesi è stato Takeshi Kitano, con 7 film. Seguono Lo Wei con 6, Werner Herzog e Sergej Paradžanov con 5, e numerosi altri con 4 o con 3: come si vede, non c'è stato un dominio assoluto come quelli di Ozu o di Wenders negli anni precedenti.

Quest'anno, infine, non ho apportato nessuna novità dal lato grafico o tecnico, anche perché ho dedicato i miei sforzi più a lanciare "Opera Omnia" (il mio blog sulla lirica: visitatelo!) che a modificare questo. L'unica aggiunta, presente già da qualche settimana, è il link a un post random nella colonnina di sinistra, peraltro non visibile con tutti i browser.

21 marzo 2010

Kiki's delivery service (H. Miyazaki, 1989)

Kiki - Consegne a domicilio (Majo no takkyubin)
di Hayao Miyazaki – Giappone 1989
animazione tradizionale
***1/2

Rivisto in DVD, con Rachele e Ilaria.

Come tutte le streghe, all'età di tredici anni la piccola Kiki deve abbandonare la propria casa e lasciare la famiglia per stabilirsi in una lontana città con il suo "familiare" (un simpatico gatto nero) e compiere un anno di noviziato, imparando a cavarsela da sola e mettendo a frutto in qualche modo la propria magia. La bambina trova così dimora in una grande città costiera (che Miyazaki ha ideato fondendo insieme scorci di diverse metropoli europee: è possibile riconoscervi per esempio Monaco, Stoccolma, Marsiglia): e visto che l'unica cosa che sa fare è volare sulla sua scopa, decide di fornire agli abitanti un servizio di consegna di pacchi a domicilio. Ospite di una gentile fornaia, che le consente di abitare nel sottotetto in cambio di un aiuto in negozio, la bambina supererà difficoltà e incertezze, si farà degli amici (una pittrice che vive in una baita nel bosco; un ragazzino appassionato di volo; alcune simpatiche clienti) e imparerà a farsi apprezzare dall'intera comunità. Vero e proprio racconto di formazione e "coming-of-age", il quinto lungometraggio di Miyazaki (nonché quello con la gestazione più breve: è apparso un solo anno dopo il precedente, "Il mio vicino Totoro") è uno dei film più "semplicemente" deliziosi del regista giapponese. Ha un tono intimista e realistico (se si eccettua la sequenza finale, quella con il dirigibile, l'unico momento in cui l'azione psicologica si traduce in azione drammatica vera e propria) e, nonostante si parli di streghe e di magia, è probabilmente il suo lavoro maggiormente calato nel concreto e dove c'è meno spazio per i voli pindarici e di fantasia. Non che questo sia un difetto: anzi, l'approccio quotidiano, episodico e minimalista dona un particolare fascino alla pellicola, grazie anche alla consueta cura per i dettagli, allo studio dei personaggi, all'ambientazione retrò, alle magnifiche scenografie e all'animazione morbida. Piacevole anche la colonna sonora di Joe Hisaishi, ricca di sonorità mediterranee. Peccato che nell'edizione italiana (uscita solo in DVD) le due canzoni originali siano state sostituite con quelle – meno belle – della versione americana. Dagli abiti, le automobili e la tecnologia (come il dirigibile), il film parrebbe collocato negli anni cinquanta, benché Miyazaki abbia dichiarato che si tratta di un mondo alternativo in cui non sono mai scoppiate le due guerre mondiali. Il filone delle "streghette" (majokko) è molto popolare nel fumetto e nell'animazione giapponese: ma Miyazaki fugge dagli stereotipi delle serie nipponiche, preferendo rifarsi all'iconografia europea e realizzando un melange di immagini e di temi particolarmente suggestivo.

20 marzo 2010

Death and transfiguration (T. Davies, 1983)

Death and Transfiguration
di Terence Davies – Gran Bretagna 1983
con Wilfrid Brambell, Terry O'Sullivan
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Il terzo film della trilogia autobiografica di Davies mostra il suo alter ego ormai anziano, malato e ricoverato in un ospedale in attesa della morte. Come a sottolineare i temi dello scorrere del tempo e soprattutto del ricordo, le immagini della vecchiaia vengono alternate con quelle della sua infanzia, quando Robert frequentava da bambino una scuola cattolica (e il parallelo fra l'istituto e l'ospedale è evidente), e quelle dell'età adulta, con il protagonista messo di fronte alla morte della madre (il film si apre proprio con le immagini del funerale della donna, che scorrono sulle note di "It all depends on you", cantata da Doris Day). Il continuo passaggio fra le sofferenze del presente e i ricordi del passato è accompagnato da preghiere, rituali, canti di bambini e la continua presenza di donne più o meno amorevoli (la madre, le suore nella scuola, le infermiere nell'ospedale). Anche se rispetto ai film precedenti questa volta Davies si trova a rappresentare sullo schermo un momento che non ha ancora vissuto (la propria morte), e che dunque può soltanto immaginare, l'intensità emotiva e il rigore formale non mancano e si esplicano nell'interlacciamento fra i momenti che corrispondono alle tre età dell'uomo e nel lungo, disperato rantolo finale che conclude un'intera esistenza.

Madonna and child (T. Davies, 1980)

Madonna and Child
di Terence Davies – Gran Bretagna 1980
con Terry O'Sullivan, Sheila Raynor
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Come a collegarsi direttamente con il precedente, il secondo cortometraggio della trilogia di Davies si apre con un canto religioso di bambini sulle immagini del porto di Liverpool. Robert Tucker lavora adesso come impiegato in un piccolo ufficio, un'occupazione monotona e noiosa, e abita con l'anziana madre che accudisce amorevolmente. Tutti i giorni prende silenziosamente il traghetto per recarsi al lavoro: nel suo tempo libero, però, vaga alla ricerca di incontri gay clandestini e soprattutto sperimenta tutta la contraddizione della sua natura omossessuale con una pratica religiosa claustrofobica e coercitiva, come dimostra la scena chiave del film, quella della confessione durante la quale Robert elenca minuziosamente tutti i peccati commessi ma non ha il coraggio di menzionare le sue pulsioni omosessuali, delle quali comunque si sente colpevole: il sogno finale, dove si vede adagiato in una bara in chiesa, è inequivocabile. Ancora con uno stile semidocumentaristico, che fa ampio uso di long take e lenti movimenti di macchina, Davies riesce a trasmettere in maniera efficace i turbamenti di un personaggio solitario, introverso e prigioniero in un'atmosfera opprimente (la scelta del bianco e nero, a questo proposito, è perfetta), fra sensi di colpa, sogni impossibili (le fantasie sul tatuatore) e inquietudini esistenziali.

Children (Terence Davies, 1976)

Children
di Terence Davies – Gran Bretagna 1976
con Phillip Mawdsley, Robin Hooper
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Realizzato a soli 21 anni, con un budget ridottissimo e grazie al sostegno del British Film Institute, "Children" è il cortometraggio d'esordio del filmmaker indipendente Terence Davies: con i successivi "Madonna and child" e "Death and transfiguration" forma una specie di trilogia autobiografica, incentrata sui temi del tempo e sulla memoria, che anticipa in qualche modo il suo film più noto, "Voci lontane, sempre presenti". Qui vediamo alcuni momenti dell'infanzia del protagonista Robert Tucker, alter ego di Davies, alle prese con la rigida educazione scolastica e soprattutto con la morte del padre, un genitore violento verso il quale il ragazzo prova sentimenti contrastanti di amore e odio. Il disagio fisico (le punizioni degli insegnanti, i soprusi e i maltrattamenti da parte dei ragazzi più grandi, la scoperta del proprio corpo – con la vista medica – e di quello altrui – con la bella scena della doccia in piscina, dove osserva un ragazzo adulto e particolarmente attraente) va di pari passo con quello emotivo (il rapporto con la madre e soprattutto con il padre, il turbamento nel vederlo malato e poi morto). Girato con grande rigore formale, in un morbido bianco e nero dove predominano i toni di grigio, e ambientato in spazi freddi e inospitali in cui i personaggi si aggirano sperduti e irrequieti, il film mostra tutto il malessere dell'esistenza attraverso gli occhi di un bambino. In alcune scene, comunque, il personaggio compare anche da adulto, in preda alla depressione e al disagio di scoprirsi gay in un ambiente proletario ed estremamente religioso come la Liverpool dei primi anni sessanta.

19 marzo 2010

Gioventù bruciata (Nicholas Ray, 1955)

Gioventù bruciata (Rebel without a cause)
di Nicholas Ray – USA 1955
con James Dean, Natalie Wood
***

Rivisto in DVD, con Marisa, Eleonora e Marco.

Appena trasferitosi in una nuova città e in una nuova scuola, l'irrequieto Jim – rampollo di buona famiglia con un rapporto problematico con i genitori – cerca inutilmente di tenersi lontano dai guai. Provocato dalla banda di teppisti del liceo, accetta di sfidarne il capo in una corsa automobilistica che si conclude in tragedia: il rivale, rimasto impigliato alla maniglia della portiera, non riesce a tuffarsi fuori dalla vettura e finisce in un precipizio. Ma l'odissea notturna di Jim e dei suoi nuovi amici – la ribelle Judy, ex ragazza del capo della banda, e il timido e tormentato Plato – non è ancora finita... "Rebel without a cause" (il titolo viene da un saggio psichiatrico del 1944) è uno dei tre soli film interpretati da James Dean, e quello che forse più degli altri ha contribuito a crearne il mito e l'icona: rivisto oggi può sembrare un po' datato, ma bisogna considerare che un tema come la ribellione e l'inquietudine giovanile – tredici anni prima del sessantotto! – era abbastanza inedito e scioccante per l'epoca. I protagonisti non provengono infatti dai bassifondi o da situazioni disagiate, come potevano essere i personaggi di pellicole precedenti o contemporanee: sono figli di buona famiglia che si ribellano alle regole della società e ai genitori, i quali non riescono a comprendere le ragioni del loro malessere esistenziale né tantomeno di esserne in gran parte responsabili. Jim cerca infatti inutilmente conforto e sostegno in un padre debole e succube della moglie; a Judy è negato anche l'affetto e la tenerezza, oltre che la comprensione; e Plato, figlio di genitori separati e perennemente assenti, è talmente solo da attaccarsi morbosamente a Jim e di vedere in lui – suo coetaneo! – un padre che il ragazzo non può certo essere. Se la sceneggiatura sottolinea l'intensità della vicenda, che si svolge tutta nell'arco di ventiquattr'ore, e la regia è sempre funzionale allo svolgersi degli eventi, è però importante anche l'uso del colore, iperreale ed espressionistico, con il giubbotto rosso di Jim che risalta in maniera netta ed evidente in ogni scena; della musica, che accompagna in modo forse anche troppo invadente ogni momento drammatico; e del formato panoramico, che il regista esalta con alcune inquadrature oblique. Ma la sequenza che rimane più impressa nella mente dello spettatore è senza dubbio quella della gara di coraggio, insieme realistica e metaforica, con le automobili che sfrecciano verso il precipizio nel buio della notte. Sal Mineo è Plato, Dennis Hopper (al suo primo ruolo importante) è uno dei teppisti, Edward Platt è il poliziotto minorile.

18 marzo 2010

Le sorelle di Gion (K. Mizoguchi, 1936)

Le sorelle di Gion (Gion no shimai)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1936
con Isuzu Yamada, Yoko Umemura
***

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Umekichi e Omocha sono due sorelle che lavorano come geishe di basso livello nel distretto di Gion, il quartiere dei piaceri di Kyoto. Pur condividendo la stessa professione, hanno modi assai diversi di rapportarsi con gli uomini: la maggiore, Umekichi, è una geisha tradizionale e prova forti sentimenti di lealtà nei confronti dei suoi clienti, al punto da sentirsi in obbligo di accogliere in casa propria – nonostante le difficoltà economiche – il suo vecchio "patrono", Furusawa, che un tempo era un ricco commerciante e ora è caduto in disgrazia. La minore, Omocha, disprezza invece gli uomini e il modo in cui essi le trattano, ovvero come semplici oggetti di piacere. Perciò decide di ingannarli a sua volta: complotta per costringere Furusawa ad andarsene, lasciandogli credere che Umekichi non lo desideri più in casa e che stia cercando un nuovo protettore, mentre lei stessa si prende gioco dell'amore del giovane Kimura, commesso in una fabbrica di kimono, facendo di tutto per sedurre invece Kudo, l'anziano e ricco proprietario del negozio. Ma il suo comportamento manipolatore e lo sprezzo dei sentimenti altrui finirà per scatenare la vendetta di Kimura, mentre anche la sorella Umekichi rimarrà da sola quando Furusawa – richiamato dalla moglie – non ci penserà un attimo ad abbandonarla. Nonostante le loro differenze, nel finale le sorelle si ritroveranno dunque di nuovo insieme, sole e umiliate. Qualsiasi cosa le donne facciano, è l'amara conclusione di Omocha, sono destinate a soffrire e ad essere sfruttate dagli uomini. E mentre Umekichi si vanta di avere almeno reso Furusawa felice, e per questo di poter andare in giro a testa alta, la pellicola si conclude con il commovente pianto di Omocha, che grida tutta la sua rabbia contro l'esistenza stessa delle geishe. Come nel precedente "Elegia di Osaka", anche la seconda collaborazione fra Mizoguchi e lo sceneggiatore Yoshikata Yoda affronta dunque in chiave realista e contemporanea il tema della donna vittima del potere e della sopraffazione in una società patriarcale e mercantile. La novità è però costituita dal presentare due diverse protagoniste, portatrici di due differenti filosofie femminili: una più tradizionale, amorevole e all'insegna del disinteresse, l'altra più emancipata, cinica ed egocentrica, ma comunque destinata alla sconfitta. Siamo quasi di fronte a uno sdoppiamento della classica eroina mizoguchiana nelle sue due anime fondamentali: la donna che si sacrifica per l'uomo (non ricevendo nulla in cambio) e quella che si ribella alla società (tentando un impossibile rovesciamento dei ruoli). Stilisticamente è interessante l'incipit, con una lunga carrellata laterale attraverso gli ambienti della casa di Furusawa, dove è in corso una vendita all'incanto di tutti i suoi mobili. Inoltre sono assai numerosi i piani sequenza: Mizoguchi ricorre raramente agli stacchi e preferisce una sorta di "montaggio interno", collocando i suoi personaggi in una stanza e lasciandoli spostare e interagire fra loro a seconda delle posizioni e dei movimenti (esemplare, a questo proposito, la scena in cui Kudo fa visita per la prima volta a Omocha).

17 marzo 2010

Terra di mezzo (M. Garrone, 1996)

Terra di mezzo
di Matteo Garrone – Italia 1996
con Pascal, Ahmed Mahgoub
**1/2

Visto in DVD, con Martin.

Attraverso tre episodi ambientati alla periferia romana e narrati con stile semidocumentaristico, Garrone illustra la vita e le difficoltà di alcuni immigrati extracomunitari che cercano di sbarcare il lunario in Italia come possono, fra lavori precari e l'attesa di migliori opportunità, confinati ai margini della società, senza speranza di una vera integrazione ma senza rinunciare al tentativo di sopravvivere in un mondo che sembra escluderli o accorgersi di loro soltanto per sfruttarli. In "Silhouette", alcune prostitute nigeriane si vendono lungo la cintura periferica di Roma. In "Euglen & Gertian", operai e muratori albanesi si prestano a eseguire lavoretti di ogni tipo, naturalmente in nero e sottopagati. In "Self service", un egiziano di mezza età lavora di notte come benzinaio abusivo presso una stazione di servizio. Lo sguardo attento e incisivo di Garrone, il sonoro in presa diretta, una sceneggiatura che non drammatizza la realtà ma si limita a riprodurla e la caratterizzazione efficace dei personaggi da parte di "non attori" che interpretano di fatto sé stessi rendono la pellicola un quadro sociale che non risulta mai didascalico o accondiscendente. Il regista ha potuto finanziare il resto del film grazie al primo episodio che – presentato come cortometraggio a sé stante – aveva vinto un premio a un festival organizzato da Nanni Moretti.

16 marzo 2010

Galaxy Quest (Dean Parisot, 1999)

Galaxy Quest (id.)
di Dean Parisot – USA 1999
con Tim Allen, Alan Rickman, Sigourney Weaver
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni e Rachele.

Un gruppo di attori televisivi in declino, celebri per aver interpretato decenni prima il telefilm fantascientifico a basso budget "Galaxy Quest", sbarca ora il lunario grazie ad apparizioni come ospiti d'onore alle convention dei fan della serie o lavoretti di quart'ordine come testimonial pubblicitari. Ma i thermiani, autentici extraterrestri che hanno captato le trasmissioni televisive e che – non conoscendo il concetto di finzione – hanno creduto che si trattasse di "documenti storici", giungono sulla Terra per chiedere il loro aiuto nella lotta contro un crudele tiranno galattico. Catapultati nello spazio a bordo di un'astronave identica in tutto e per tutto a quella in cui erano abituati a recitare (gli alieni l'hanno ricostruita perfettamente, basandosi sulle puntate del telefilm!), dovranno dimostrare di essere all'altezza dei ruoli che li hanno resi famosi. Non credo di sbagliare dicendo che "Galaxy Quest" è probabilmente il miglior film di "Star Trek" mai girato! Anche se ufficialmente la pellicola non è legata alla franchise creata da Gene Roddenberry, ne è contemporaneamente una satira e un affettuoso omaggio che parodizza non solo la serie televisiva (guardando con tenerezza a tutte le sue ingenuità) ma anche e soprattutto il fandom che le gira attorno, un fenomeno che negli Stati Uniti ha ormai assunto proporzioni inimmaginabili: "Star Trek", per i moltissimi appassionati che affollano le convention, è quasi una religione, e i suoi adepti (i "trekkies", che nel film diventano i "questoidi") prendono maledettamente sul serio ogni dettaglio dello show. Il film di Parisot, comunque, non si limita a farsene gioco ma ne esalta anche lo spirito e la passione, trasformandoli in eroi che contribuiscono a salvare la situazione grazie alla conoscenza enciclopedica di tutti i dettagli tecnici e fittizi dell'universo trekkiano.

Pur godibile per proprio conto (regia ed effetti speciali sono solidi e funzionali, gli attori sono autoironici e davvero in parte, la sceneggiatura non lascia un attimo di respiro), il divertimento è maggiore se ci si rende conto che ogni elemento di "Galaxy Quest" può essere ricondotto a uno di "Star Trek", a partire dai personaggi/attori. Jason Nesmith (il comandante Taggart, interpretato da un Tim Allen vanesio e impulsivo) è ovviamente William Shatner, ovvero il capitano Kirk; Alexander Dane (il dottor Lazarus, l'ufficiale scientifico extraterrestre interpretato da uno straordinario Alan Rickman) è Leonard Nimoy, e dunque il signor Spock; Gwen De Marco (il tenente Madison, l'addetta alle comunicazioni il cui unico compito è ripetere pari pari quello che dice il computer), impersonata da una Sigourney Weaver in grande forma fisica e lontana anni luce dal ruolo fantascientifico che l'aveva resa famosa (la Ripley di "Alien", tanto dura e mascolina quando Madison è una bambola bionda), è l'alter ego di Nichelle Nichols, il tenente Uhura; il flemmatico Tony Shalhoub/Fred Kwan, il tecnico Chen, ricorda naturalmente Scotty, il capo ingegnere dalle mille risorse; il giovane Daryl Mitchell, alias Tommy Webber/tenente Laredo, il pilota della nave, rappresenta lo stereotipo del ragazzino come il Wesley Crusher di "Next Generation"; Sam Rockwell/Guy, infine, è la comparsa che interpreta il membro dell'equipaggio che muore nei minuti iniziali di ogni episodio per mostrare agli spettatori quanto sia pericolosa la situazione: nel gergo di "Star Trek" queste vittime sacrificali sono chiamate "redshirt", in quanto indossavano sempre una tutina rossa (a differenza di quelle gialle o blu sfoggiate dai personaggi principali come Kirk o Spock). Ma anche l'astronave (la NSEA Protector, che rimanda sin dal nome alla USS Enterprise), con la sua struttura (il ponte di comando, la sala macchine, il teletrasporto), la tecnologia (i comunicatori, la fonte di energia con la sfera di berillio al posto dei cristalli di dilitio, i meccanismi di autodistruzione che si fermano solo quando manca un secondo, ma anche gli assurdi cunicoli – come quello con i pistoni – che sembrano esistere solo per esigenze degli sceneggiatori della serie tv ma che naturalmente gli alieni hanno riprodotto pari pari senza nemmeno chiedersi il perché), l'ambientazione (la superficie del pianeta sul quale sbarcano i nostri eroi, con tanto di mostro da combattere da parte di Taggart, che rimane a petto nudo come capitava sempre anche a Kirk) e in generale il mood della serie (lo stile di recitazione, le scenografie "povere", il tema musicale) ricordano talmente "Star Trek" da far sorgere il dubbio che la sceneggiatura fosse stata scritta con l'intenzione di scritturare davvero Shatner & co., e che solo in un secondo momento – magari per obiezioni dei produttori, o per il timore di scatenare l'ira dei fan – si sia ripiegato su personaggi fittizi. Una situazione, per intenderci, paragonabile a quella del "Watchmen" di Alan Moore, che inizialmente avrebbe dovuto essere una storia sui vecchi personaggi della Charlton e solo in un secondo tempo si è trasformata in un'opera sugli archetipi supereroistici universali. Oltre alle battute, alle strizzatine d'occhio e alle numerose occasioni di divertimento, non mancano momenti toccanti come quando Alexander, tenendo fra le braccia l'alieno morente che aveva sempre idolatrato il suo personaggio, recita con grande intensità e commozione la frase che lui – da consumato attore scespiriano – aveva sempre odiato e reputato stupida: "Per il martello di Grabthar!".

14 marzo 2010

Shutter Island (M. Scorsese, 2010)

Shutter Island (id.)
di Martin Scorsese – USA 2010
con Leonardo DiCaprio, Ben Kingsley
***

Visto al cinema Colosseo, con Marisa.

Nel 1954, l'agente federale Teddy Daniels sbarca con un collega su un'isola al largo di Boston che ospita una sorvegliatissima prigione-manicomio per criminali folli e violenti. Qui dovrà indagare sulla misteriosa scomparsa di una detenuta, ma anche sulle strane pratiche compiute dai medici, che Teddy sospetta effettuare esperimenti sui pazienti ai limiti della legalità e con la complicità delle alte sfere, non dissimili da quelli dei nazisti nei campi di concentramento. Proprio gli orrori di Dachau, ai quali aveva assistito durante la guerra, uniti al trauma della morte della moglie in un incendio a opera di un piromane – che, guarda caso, è ospitato nella struttura – metteranno a rischio la salute mentale del protagonista, in un crescendo di paranoia e di allucinazioni. Con una confezione sontuosa come al solito (splendida, in particolare, la fotografia di Robert Richardson), una regia solida e ottime interpretazioni (oltre all'intenso DiCaprio, ci sono Mark Ruffalo nei panni del suo partner, Ben Kingsley come direttore del manicomio e Max von Sydow è il medico di origine tedesca; il piromane sfregiato non è De Niro, come mi era parso a prima vista, ma Elias Koteas), Scorsese sforna un thriller dalle venature horror sulla follia, la violenza, la perdita di identità e la rimozione del dolore, che ha forse il difetto di essere un po' lungo, a tratti didascalico ed eccessivamente prevedibile. I colpi di scena nel finale, infatti, non possono sorprendere uno spettatore pronto a cogliere i tanti dettagli che vengono suggeriti in precedenza, talora anche esplicitamente. Bello comunque il controfinale risolutivo, all'insegna della frase "Cos'è peggio: vivere da mostro o morire da uomo per bene?". A sostenere il film c'è comunque anche una bella ambientazione: l'isola-microcosmo è quasi protagonista alla pari di DiCaprio, un'isola fisica e psicologica insieme, con i suoi padiglioni, le costruzioni, le scogliere e il faro, separata dal resto del mondo e sconvolta dalla furia della natura (le onde, il tornado). Anche la collocazione temporale negli anni cinquanta, con i continui flashback sugli orrori della guerra che si fondono ai traumi personali, contribuisce a dar vita a un'atmosfera torbida e ossessiva che può ricordare altri classici del cinema americano sulla follia, come "Il corridoio della paura" di Samuel Fuller. E nonostante alcuni echi hitchcockiani, la riflessione sulla natura violenta dell'uomo è tipicamente scorsesiana.

13 marzo 2010

Mystery men (Kinka Usher, 1999)

Mystery men (id.)
di Kinka Usher – USA 1999
con Ben Stiller, William H. Macy
**1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni e Rachele.

Capitan Amazing (Greg Kinnear), il supereroe di Champion City, ha un problema: tutti i suoi nemici sono ormai morti o in galera, e gli sponsor iniziano a tirarsi indietro perché non ha più imprese grandiose da compiere. In cerca di nuove occasioni per accrescere la propria popolarità, fa così uscire dal manicomio il perfido supercriminale Casanova Frankenstein (Geoffrey Rush): ma questi lo coglie alla sprovvista e riesce a catturarlo. A salvare la città dovrà allora intervenire un gruppo di scalcinati supereroi dilettanti: Mister Furioso (Ben Stiller), il cui potere consiste... nell'arrabbiarsi; lo Spalatore (William H. Macy), il migliore con una pala!; Blue Raja (Hank Azaria), maestro di posateria e lanciatore di forchette; il Ragazzo Invisibile (Kel Mitchell), che riesce a scomparire solo se nessuno lo guarda; la Puzzola (Paul "Pee-Wee Herman" Reubens), dotato di un peto sovrumano; e la Bocciofila (Janeane Garofalo), che conserva il teschio di suo padre in una palla da bowling (ma non ce l'ha messo lei, "sono stati quelli del negozio di articoli sportivi"). Guidati dalla "terribilmente misteriosa" Sfinge (Wes Studi), maestro nell'elargire massime dai significati più o meno profondi ("se dubiti dei tuoi poteri, darai potere ai tuoi dubbi"), ed equipaggiati con le armi "non letali" ideate dal folle Dottor Heller (Tom Waits), questi "uomini misteriosi" sconfiggeranno – non senza qualche difficoltà – il terribile nemico. Clamoroso flop al botteghino nonostante i nomi coinvolti (nel ricchissimo cast figurano anche Claire Forlani, Lena Olin e Eddie Izzard) e il dispendio considerevole di risorse (le scenografie ricordano il Batman di Tim Burton e gli effetti speciali sono di tutto rispetto), nonché unico film diretto finora da un regista di spot pubblicitari, questa scombinata parodia del genere supereroistico è in realtà abbastanza divertente se la si guarda con il cervello spento e con una sincera predisposizione verso le continue battute, le trovate demenziali, i superpoteri surreali (memorabile la sequenza in cui i nostri eroi, per reclutare nuovi membri per il loro gruppo, fanno un'audizione a tutti gli aspiranti eroi della città: mi ha ricordato le scene analoghe che si incontrano talvolta nella serie "Legion of Super Heroes" della DC Comics. A proposito, chi si ricorda la parodia che ne fece il geniale Aragones nell'albo "Sergio Aragones Destroys DC"?) e lo sprezzo del ridicolo che tutti gli attori manifestano a più riprese. Il film è liberamente tratto da una serie a fumetti, "Flaming Carrot", ma gli adattatori, a quanto pare, si sono presi molte libertà.

12 marzo 2010

Alice in Wonderland (C. M. Hepworth, 1903)

Alice in Wonderland
di Cecil M. Hepworth e Percy Stow – Gran Bretagna 1903
con May Clark, Mrs. Hepworth
***

Visto su YouTube.

È la prima versione cinematografica in assoluto di "Alice nel paese delle meraviglie". L'unica copia esistente (circa 8 minuti, all'epoca si trattava del film inglese più lungo mai prodotto!), conservata negli archivi nazionali del British Film Institute, è purtroppo gravemente danneggiata e ne mancano alcune parti. Il BFI l'ha restaurata e le ha restituito le originali tinte di colore. Nel film vediamo Alice seguire il coniglio nella sua tana, rimpicciolire e aumentare le proprie dimensioni, prendere il té con il Cappellaio Matto e la lepre marzolina, assistere alla parata della Regina di Cuori, e infine svegliarsi di nuovo nel nostro mondo. Naturalmente, vista l'età del film, è assente qualsiasi movimento di camera: la regia consiste in poco più che nella coreografia e nella direzione degli attori. Tuttavia, il risultato è notevole e in particolare i costumi (come quello del coniglio o della lepre marzolina) ma soprattutto gli effetti speciali (Alice che cambia dimensioni, il gatto del Cheshire – un vero gatto, fra l'altro – che appare e scompare) sono davvero convincenti per un'epoca così pionieristica (anche se Méliès sperimentava già da tempo). Le didascalie sono relativamente poche, e molti passaggi possono risultare poco chiari a un pubblico che non conosca già la storia: il film è più illustrativo che narrativo, come era la consuetudine dell'epoca. L'attrice che interpreta Alice, all'epoca quattordicenne, è apparsa in diversi film fra il 1900 e il 1907, ed è morta a 95 anni nel 1984! La Regina di Cuori era invece la moglie di Hepworth (produttore, co-regista e direttore della fotografia), il che lega questo film a quello di Tim Burton (ricordo infatti che Helena Bonham Carter, che ha interpretato la Regina Rossa nel 2010, è la moglie di Tim). Sempre Mrs. Hepworth recita sotto il costume del coniglio bianco, Hepworth stesso è il guardiano con la testa di rana, mentre il gatto del Cheshire era il gatto di famiglia! Le carte da gioco sono infine impersonate da un gran numero di attori bambini.

Alice in Wonderland (W.W. Young, 1915)

Alice in Wonderland
di W.W. Young – Gran Bretagna 1915
con Viola Savoy
**

Visto in divx.

Il terzo adattamento del libro di Lewis Carroll per il cinema (dopo quelli del 1903 e del 1910) è anche il primo a disporre di una lunghezza superiore a un singolo rullo di pellicola. Con quasi un'ora di durata, e dunque tempi meno compressi, il film può raccontare le avventure di Alice nel paese delle meraviglie con maggiore fedeltà e anche con più calma, come dimostra il bellissimo incipit nel quale la bambina passeggia per la campagna in compagnia della sorella maggiore, e prima di addormentarsi incontra molti animali (fra cui un coniglio e un gatto) che torneranno trasfigurati nel suo sogno. La struttura del film è essenzialmente episodica, e le sequenze rappresentate sono praticamente tutte quelle del libro (in altre versioni cinematografiche, come in quella animata della Disney, ne mancano invece molte): la sala delle porte, la convention degli animali, la visita alla casa del coniglio, l'incontro con il bruco e la recita della poesia "You are old, father William", la zuppa della Duchessa, il gatto del Cheshire, la corte della Regina di Cuori e la partita di croquet, la Finta Tartaruga, la quadriglia delle aragoste, il processo al Fante di Cuori. Curiosamente è assente proprio una delle scene più celebri, il té con la lepre marzolina e il Cappellaio Matto, ma forse si tratta di una parte andata perduta, visto che alla fine del secondo rullo Alice dichiarava di voler appunto andare a far visita alla lepre, e che poi il Cappellaio ricompare durante il processo. L'estetica del film deve molto all'iconografia classica. Tecnicamente la cosa più interessante sono le maschere e i costumi da animali indossati dagli attori. Rispetto alla versione del 1903 c'è ovviamente una maggior profondità di campo e più cura nei dettagli, ma anche più staticità e un minor dispiego di effetti ottici, quasi inesistenti (mancano, in particolare, tutte le sequenze in cui Alice cambia dimensioni). Le didascalie sono numerose, il che permette di dare spazio anche alla vena poetica e ai paradossi linguistici di Carroll ma rallenta a volte l'azione in modo eccessivo. L'attrice protagonista è decisamente più attraente rispetto a quella del 1903: si tratta di Viola Savoy, all'epoca quindicenne e piuttosto popolare come baby diva. Aveva già recitato in oltre un centinaio di film, ma all'epoca di "Alice" era praticamente a fine carriera (!).

11 marzo 2010

Alice in Wonderland (Tim Burton, 2010)

Alice in Wonderland (id.)
di Tim Burton – USA 2010
con Mia Wasikowska, Johnny Depp
*

Visto al cinema Arcobaleno (in 3D), con Giovanni, Rachele, Ginevra, Paola e Stefano.

Dopo tredici anni, Alice – ormai cresciuta – fa ritorno nel paese delle meraviglie, dove combatterà al fianco dei suoi vecchi amici (a partire dal Cappellaio Matto) contro la Regina Rossa e il suo Jabberwocky (non riesco a ricordarmi come è stato tradotto in italiano, mi dispiace). Se visivamente questa rilettura/sequel disneyano-burtoniana del classico di Carroll ha i suoi buoni momenti (le scenografie sono sicuramente la cosa migliore, e valgono da sole la visione), come operazione nel suo complesso si rivela, alla resa dei conti, una delusione. Il mondo fantastico e onirico creato da Carroll era tutto all'insegna del nonsense, del paradosso e di una follia anarchica che stravolgeva le consuetudini sociali e i comportamenti logici, calando la protagonista e la sua ragionevolezza vittoriana in un mondo incoerente e sovversivo. Qui, invece, si sono eliminate le metafore, il caos e l'odissea psichedelica, e si è cercato di ingabbiare il tutto in un'avventura lineare e imperniata sui consueti canoni del cinema hollywoodiano, con tanto di divisione fra buoni e cattivi, un destino eroico da compiere e uno scontro finale in stile fantasy con il nemico, con risultati banalotti e rinunciando di fatto a quegli elementi eccentrici e assurdi che rendevano unica e preziosa la storia di Alice. Un'altra dimostrazione, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che l'anticonformismo di Burton è sempre stato solo di facciata. Se l'inizio del film fa ben sperare, e tutta la prima parte fino alla caduta nel buco sotterraneo è bella e convincente, la pellicola si trasforma poi in una sorta di "Ritorno a Oz" (d'altronde i racconti di Baum, rispetto a quelli di Carroll, sono sicuramente di gusto più americano e meno europeo). E visto che storia e personaggi diventano presto irriconoscibili (persino lo stregatto è "inquadrato" e arruolato al servizio del bene!), di Carroll rimangono soltanto i giochi di parole, peraltro in gran parte decontestualizzati e annacquati da una versione italiana che dà un lato si rifà al cartone animato del 1951 e dall'altra ricorre ad alcune traduzioni infelici: si veda per esempio la poesia del Jabberwocky, che recitata in quel modo dal Cappellaio impedisce persino allo spettatore di soffermarsi a riflettere sulle singole parole, che sembrano un'accozzaglia di termini senza alcun senso (e invece il senso, per quanto diverso, c'è). Nella versione originale il film può contare su voci del calibro di Alan Rickman (il brucaliffo), Stephen Fry (lo stregatto), Christopher Lee (il Jabberwocky). Fra gli attori in "carne e ossa", invece, oltre a Depp nei panni del Cappellaio (il cui ruolo viene ingigantito a dismisura, e che nel finale si esibisce in un'imbarazzante "deliranza"), si riconoscono Helena Bonham Carter (la regina rossa, forse il personaggio migliore di tutta la pellicola), Anne Hathaway (la regina bianca, che invece è piuttosto insulsa) e Crispin Glover (il fante di cuori). Il 3D mi è parso avere più senso narrativo e filmico qui che in "Avatar", visto che contribuisce a rendere tangibile e materiale un ambiente circostante fantastico e visionario. Un altro sequel (non di Burton) nel 2016.

10 marzo 2010

Battlefield baseball (Y. Yamaguchi, 2003)

Battlefield baseball (Jigoku Koshien)
di Yudai Yamaguchi – Giappone 2003
con Tak Sakaguchi, Atsushi Ito
*1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Il preside del liceo Seido sogna che la squadra della sua scuola raggiunga le finali del torneo studentesco di baseball, che si svolgono nel leggendario stadio Koshien. Ma sulla sua strada dovrà affrontare la terribile squadra del liceo Gedo, i cui giocatori hanno l'aspetto di mostri disumani che letteralmente smembrano e uccidono brutalmente gli avversari, trasformando il terreno di gioco in un campo di battaglia. Per fortuna un nuovo studente, Jubeh, è dotato di formidabili capacità atletiche: grazie al suo "baseball da combattimento" (e all'aiuto di alcuni compagni ritornati dalla morte o trasformati in cyborg), i crudeli nemici verranno sconfitti. Una discreta scemenza, ispirata a un manga (e infatti lo stile e l'estetica sono tipicamente da fumetto) che mescola il genere sportivo con quello di combattimenti, aggiungendovi ironia a tinte splatter e horror. Estremo, demenziale, incoerente, surreale, irriverente: ma purtroppo anche poco divertente, nonostante l'accumulo di situazioni assurde e di trovate sopra le righe riesca a stimolare una sospensione dell'incredulità che permette se non altro di apprezzare la totale mancanza di gusto e di senso critico degli autori. Di "vero" baseball se ne vede pochino, e il film si incentra soprattutto su arti marziali, atti di teppismo e rivalità scolastiche, con la tipica retorica del genere e molti luoghi comuni rivisitati con piatta ironia e intenzionale stupidità. La gag migliore è nel finale, quando si scopre che il narratore dell'intera pellicola era un cane. Solo per gli amanti del trash.

9 marzo 2010

Man on the moon (M. Forman, 1999)

Man on the moon (id.)
di Miloš Forman – USA 1999
con Jim Carrey, Danny DeVito
***1/2

Rivisto in DVD, con Giuseppe, Giovanni e Rachele.

Andy Kaufman è stato un comico americano (anche se lui non si definiva tale, bensì showman – per la precisione "song and dance man" – e si vantava di non aver mai dovuto raccontare una barzelletta per far ridere il pubblico), divenuto celebre per la capacità di disorientare gli spettatori con comportamenti e messinscene ai limiti della provocazione e un umorismo incompreso e alternativo. Fra litigi in diretta (dove non era facile capire se gli insulti fossero fasulli o meno), spettacolari incontri di wrestling (per lo più contro donne, ma anche contro veri lottatori), sfoggio di personalità multiple (la più celebre era il cantante litigioso e volgare Tony Clifton, interpretato a volte anche dall'amico Bob Zmuda in modo da lasciar credere che si trattasse di un personaggio reale) e performance spiazzanti per l'apparente assenza di comicità (durante uno spettacolo arrivò a leggere ad alta voce "Il grande Gatsby" di Scott Fitzgerald per intero), ha diviso le platee degli anni settanta e ottanta, trovando modi sempre nuovi per sorprendere il pubblico. Artista originale ed eclettico, da lui era lecito aspettarsi di tutto, al punto che non pochi hanno dubitato della sua morte per un tumore ai polmoni nel 1984, all'età di soli 35 anni, e ritengono che sia ancora vivo e nascosto sotto una falsa identità, proprio come quell'Elvis Presley del quale faceva un'eccellente imitazione a inizio carriera. Da noi era noto per la sua partecipazione (controvoglia) alla sitcom "Taxi" nel ruolo di Latka, ingenuo meccanico immigrato che potrebbe aver ispirato il "Borat" di Sacha Baron Cohen. L'ottimo Forman, specializzato in biografie di personaggi geniali ed eccentrici (da "Amadeus" a "Larry Flint"), ne racconta la vita con un bel film che è al contempo un omaggio sincero e commovente all'artista e un ritratto dissacratorio dello show business dell'epoca, e si affida completamente all'estro di Jim Carrey: l'attore, grande fan di Kaufman e nato il suo stesso giorno, il 17 gennaio, dimostra una volta di più di essere – quando vuole – un interprete di altissimo livello.

Ma chi era il vero Kaufman e qual era la sua personalità più autentica? È difficile stabilirlo, visto che l'anticonformista Andy era una miniera di contraddizioni: oscillava tra una maschera aggressiva e l'amore per la meditazione trascendentale, e lasciava che la finzione dominasse continuamente anche la sua vita privata. E dunque la pellicola non può che incentrarsi soprattutto sulla sua carriera artistica, di cui ripropone i principali momenti clou, ricostruendoli con grande cura (provate a confrontare le scene del film con gli spezzoni del vero Kaufman su YouTube, per esempio le sue memorabili apparizioni televisive), e nel finale rende omaggio al mito della sua "finta morte" mostrando un'esibizione di Tony Clifton (che canta "I will survive"!) avvenuta un anno dopo la sua dipartita. Effettivamente, anche nella realtà Clifton è comparso in pubblico dopo il 1984, ma si suppone che sotto i suoi panni si celasse Bob Zmuda (che invece Forman inquadra tra la folla) o addirittura il fratello di Andy, Michael. Geniale anche la scena iniziale, nella quale Kaufman/Carrey annuncia che il film è venuto male perché "tutte le cose più importanti della mia vita sono state cambiate per motivi drammaturgici" e che pertanto il film è già finito, invitando gli spettatori ad andarsene mentre scorrono i titoli di coda, accompagnati dal disco con la sigla del telefilm di Lassie. Dopo alcuni secondi di schermo buio, si riaffaccia dal bordo dell'inquadratura e spiega che lo ha fatto per sbarazzarsi di coloro che comunque non lo avrebbero apprezzato: ora il film può davvero cominciare. Numerosi personaggi che hanno conosciuto Kaufman recitano nella parte di sé stessi (da David Letterman al wrestler Jerry Lawler, da Christopher Lloyd a Paul Shaffer) o in ruoli minori (l'agente George Shapiro, lo stesso Bob Zmuda). Il cast comprende anche Danny DeVito, Courtney Love e il bravissimo Paul Giamatti nei panni della spalla di Andy. Il titolo del film è lo stesso della canzone che i R.E.M. hanno dedicato a Kaufman (e alle teorie del complotto).

7 marzo 2010

L'isola (Kim Ki-duk, 2000)

L'isola (Seom)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2000
con Seo Jeong, Kim Yu-seok
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni, in originale con sottotitoli.

Il primo film di Kim Ki-duk ad aver ottenuto una certa notorietà in occidente (venne presentato al Festival di Venezia) gode di un'ambientazione particolarmente suggestiva: un lago dalle acque calme e scure sul quale galleggiano piccole casette a disposizione dei pescatori o di uomini che, per qualche motivo, vogliono nascondersi dalla legge o dalla società. A gestire questa strana riserva di pesca è Hee-jin, una donna muta (o comunque che rifiuta di parlare) che accompagna con la propria barca i clienti fino alle case, li rifornisce di ami e di esche, e procura loro – se lo richiedono – persino compagnia femminile, portando fin lì giovani prostitute o concedendo talvolta anche sé stessa. Fra lei e Hyun-shik, un uomo forse in fuga dopo aver commesso un delitto (come suggerisce la sequenza del suo sogno), nasce un'attrazione che li unirà attraverso la solitudine, l'ossessione, il sesso e il sangue. Rispetto ai film precedenti del regista coreano, con i quali condivide peraltro molti spunti (l'isolamento dei personaggi, che qui è addirittura letterale, con le case galleggianti che simboleggiano l'atomizzazione della società moderna e la difficoltà nell'instaurare rapporti sinceri; l'incomunicabilità e il mutismo; la crudeltà e la violenza; il sesso come sopraffazione; gli scherzi del destino, come nella scena dell'annegamento della giovane prostituta), "L'isola" rappresenta un notevole passo avanti verso un cinema più estremo ed esplicito nella forma e nei contenuti, ma al contempo anche più ricco di metafore e di significati (il lago come l'inconscio, dove nascondere cadaveri e colpe che prima o poi torneranno a galla), e si fa ricordare in maniera indelebile per le numerose scene scioccanti o controverse (come le crudeltà sugli animali: pesci mutilati e poi ributtati in acqua, uccellini annegati, rane scuoiate). La narrazione procede invece in maniera lenta e contemplativa, sullo sfondo di uno scenario dominato dalla natura e dal tempo (vediamo il lago immerso nella nebbia, illuminato dal sole, avvolto dalla notte, spazzato dalla pioggia e dal vento). Al centro di tutto c'è il rapporto fra l'uomo e la donna, vero motore – a volte irrazionale e impulsivo – di ogni azione dei personaggi. Fra Hee-jin e Hyun-shik, figure "anfibie" e sfuggenti, misteriose e senza un passato, sorge una strana affinità che si esplicita nelle due scene parallele in cui entrambi si mutilano con gli ami da pesca (l'uomo infilandoseli in bocca, la donna nella vagina) e si fanno "pescare" con la canna l'uno dall'altra, che poi pazientemente estrae i ganci di metallo (i quali, appoggiati a terra ancora insanguinati, formano un cuore: un'immagine di improvvisa tenerezza che fa il paio con quella in cui la coppia, mentre ridipinge di giallo la casetta galleggiante, incrocia i pennelli come a simulare un bacio appassionato). Anche la scena finale ha un valore simbolico: il cespuglio di canne nel quale l'uomo si nasconde si trasforma nei peli pubici della donna, ritratta nella sua barca semisommersa in un'immagine che ricorda il dipinto "Ophelia" di Millais. Ottima la regia, che con l'aiuto di una fotografia incisiva e multiforme riesce a creare in maniera assai originale un'atmosfera onirica e avvolgente.

6 marzo 2010

Dragon fist (Lo Wei, 1979)

Dragon fist (Long quan)
di Lo Wei – Hong Kong 1979
con Jackie Chan, Nora Miao
**

Rivisto in VHS, in inglese.

Girato agli inizi del 1978 insieme a "Karate ghostbuster" e poi messo da parte per le difficoltà economiche degli studi di Lo Wei, questo film fu distribuito solo l'anno seguente, quando Jackie Chan era ormai diventato una star grazie alle pellicole dirette da Yuen Woo-ping ("Snake in the eagle's shadow" e "Drunken master"). Nonostante il regista torni a ingabbiare Jackie in un ruolo "serio", senza concedere spazio alle sue improvvisazioni e alle sue divagazioni comiche, il film non è certo fra i peggiori che l'attore ha girato mentre era sotto contratto con lui. La trama prende le mosse dal classico tema della vendetta, anche se poi se ne discosta: Jackie è infatti il discepolo di un maestro di kung fu che viene ucciso da un malvagio rivale di un'altra scuola. Dopo aver promesso alla vedova e alla figlia (Nora Miao) del defunto maestro di vendicarlo ed essersi addestrato per tre anni, il protagonista scopre che il nemico, pentitosi delle sue azioni, si è tagliato una gamba per fare ammenda e non è più in grado di combattere. La situazione si complica ulteriormente quando Jackie – per procurarsi una preziosa medicina necessaria alla vedova del suo maestro – accetta di mettere le proprie capacità marziali al servizio di una gang di banditi. Quando se ne renderà conto, per sconfiggerli dovrà unire le forze con l'uomo che ha sempre odiato. Come nei precedenti film di Lo Wei, dunque, non mancano colpi di scena, tradimenti e capovolgimenti inattesi di alleanze e rivalità, ma stavolta il tutto è amalgamato con un certo equilibrio e i personaggi non vanno troppo sopra le righe. Inoltre le capacità atletiche di Jackie Chan sono ormai mature, e dunque il film – pur con qualche ingenuità nella prima parte – si lascia vedere con piacere e può essere considerato propedeutico agli imminenti successi di pubblico e di critica che l'attore avrebbe riscosso negli anni successivi.

5 marzo 2010

Il diavolo è femmina (G. Cukor, 1935)

Il diavolo è femmina (Sylvia Scarlett)
di George Cukor – USA 1935
con Katharine Hepburn, Cary Grant
***

Rivisto in DVD, con Martin.

Per accompagnare il padre vedovo (Edmund Gwenn), ricercato dalla polizia per appropriazione indebita e in fuga dalla Francia verso l'Inghilterra, la giovane Sylvia Scarlett (Hepburn) si taglia i capelli e si traveste da maschio, facendosi passare per suo "figlio" Sylvester. A Londra i due incontreranno Jimmy Monkley (Grant), un simpatico furfante che vive di imbrogli e di raggiri, e ne diventeranno complici. I loro tentativi di arricchirsi con il furto e le truffe, tuttavia, non andranno a buon fine, e il gruppo si convertirà in una compagnia di saltimbanchi e attori girovaghi che va in giro a esibirsi per le campagne inglesi. Ma l'amore per un ricco pittore dandy, Michael (Brian Aherne), spingerà "Sylvester" ad abbandonare il proprio travestimento da maschio. Tratto da un romanzo di Compton Mackenzie (i cui contenuti vengono compressi e compattati per esigenze cinematografiche), questo insolito film a base di ambiguità sessuali e morali disorientò all'epoca pubblico e critica, che ne decretarono il clamoroso insuccesso: in realtà, nonostante una certa anarchia narrativa e il continuo e improvviso cambio di toni e di setting, è una pellicola moderna che dietro la classica leggerezza da commedia sentimentale alla Cukor (ma stavolta tutt'altro che raffinata o sofisticata) affronta il tema dell'amore da punti di vista inediti e contrastanti. Gli stessi personaggi non sanno bene cosa fare con i propri sentimenti, tendono a confonderli (il pittore, pur affezionato a Sylvia, la deride per la sua eccentricità) e solo nel finale si renderanno veramente conto della loro natura. La sceneggiatura, che forse procede un po' troppo a "strappi", punta dunque molto sull'accurato resoconto psicologico dei primi turbamenti amorosi di una ragazza, e utilizza a questo scopo l'androginia della Hepburn, le sue insicurezze, il continuo passaggio da un comportamento maschile a uno femminile, la sua esitazione sul come rapportarsi con l'uomo che ama. Fu il terzo film di Cukor con la Hepburn, nonché il primo dell'attrice insieme a Grant (prima di capolavori come "Susanna", "Incantesimo" e "Scandalo a Filadelfia"). E la personalità dei due interpreti (forte, volitiva ma anche fragile, la Hepburn; sbruffone, farabutto e con un caratteristico accento Cockney, Grant) domina in maniera evidente quasi ogni scena. Senza senso il titolo italiano.

3 marzo 2010

M, il mostro di Düsseldorf (F. Lang, 1931)

M, il mostro di Düsseldorf (M)
di Fritz Lang – Germania 1931
con Peter Lorre, Otto Wernicke
****

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Monica, Ilaria e Ginevra.

Una città tedesca (che il titolo italiano identifica in Düsseldorf, forse perché il film si ispira alla serie di delitti commessi negli anni venti da Peter Kürten, il "Vampiro di Düsseldorf", ma che in realtà è Berlino) è terrorizzata da un misterioso maniaco omicida che sceglie le sue vittime fra le bambine, adescandole per strada con giochi e dolciumi. La paura e la paranoia montano fra i cittadini, e tutti sono pronti a denunciare ogni passante sospetto, mentre la polizia incrementa a dismisura la sorveglianza in ogni angolo della città ed effettua frequenti retate nei locali e nei quartieri della malavita. Per mettere fine a questo stato di cose, che rende loro impossibile continuare a svolgere le consuete attività illegali, gli stessi criminali decidono di dare la caccia al misterioso omicida, con il quale fra l'altro rifiutano di essere apparentati, e riescono a identificarlo grazie ai mendicanti dislocati in maniera scientifica su tutto il territorio. L'uomo, marchiato con una "M" (da "Mörder", assassino) scritta con il gesso sul suo cappotto, viene pedinato e infine catturato dopo una drammatica incursione notturna nel palazzo dove si era rifugiato. Sottoposto a un vero e proprio processo da parte di tutti i criminali della città, verrà condannato a morte – nonostante un appassionato monologo in propria difesa, in cui manifesta tutto il tormento per essere incapace di tenere sotto controllo i propri impulsi – ma sarà salvato all'ultimo momento dalla polizia e portato davanti alla "vera" legge. Prima che la sentenza sul suo destino venga pronunciata (pena capitale o infermità mentale?), il film – che si era aperto con un gruppo di bambini che giocava sulle note di una canzoncina macabra ("Scappa, scappa monellaccio – se no viene l'uomo nero – col suo lungo coltellaccio – per tagliare a pezzettini – proprio te!") – si conclude con il pianto di alcune madri delle vittime che mettono in guardia gli spettatori ("Bisogna vigilare meglio sui nostri bambini!").

Uno dei massimi capolavori di Lang e del cinema tedesco anteguerra, "M" è una pellicola ancora attuale e modernissima, eccezionale per diversi motivi: tecnicamente superbo, con una regia che cattura lo spettatore e lo sovrasta con una tensione costante e palpabile, può contare anche su una fotografia forte ed evocativa che gioca con le metafore visive, le ombre e i chiaroscuri, movimenti di macchina precisi e rigorosi, inquadrature angolate o curiosamente ardite (spesso i personaggi sono ripresi dal basso, con l'illuminazione o la distanza ravvicinata che ne deformano le fattezze, anticipando talvolta quello che farà nei suoi film Orson Welles), transizioni incredibilmente esplicite o significative (si pensi alla sequenza iniziale, con la madre che attende la figlioletta per il pranzo, e le inquadrature della palla che rotola e del palloncino impigliato nei fili della luce), una sceneggiatura che fonde diversi generi (il police procedural, il thriller sui serial killer, il noir, il documentario) e che cambia continuamente il "punto di vista" della narrazione, e dialoghi precisi e convincenti. Al suo primo film sonoro, fra l'altro, Lang riesce a sfruttare in maniera coerente e innovativa la nuova opportunità tecnologica, rendendo il motivo fischiettato da Peter Lorre (Nella sala del re della montagna, dal "Peer Gynt" di Edward Grieg: in realtà lo fischiava Lang stesso, in quanto l'attore non ne era capace) non solo un elemento caratterizzante del personaggio (che annuncia il suo arrivo o la sua presenza, aumentando la tensione e l'inquietudine dello spettatore) ma anche uno strumento narrativo, in quanto è proprio quello che provoca la sua identificazione da parte del venditore cieco di palloncini.

Se il bravissimo Lorre è costantemente al centro della vicenda, anche nella prima parte del film quando la sua figura è ancora avvolta nel mistero (ne intravediamo soltanto l'ombra, in silhouette, proiettata su un manifesto che parla proprio dei suoi delitti), in realtà la vera protagonista è l'intera città, con le sue madri, i bambini, i passanti, i negozianti, i senzatetto, i poliziotti e i criminali che si attivano alla ricerca dell'assassino, come suggerisce anche il sottotitolo tedesco ("Eine Stadt sucht einen Mörder") e come avverrà in un successivo film di Lang ("Anche i boia muoiono"). Ognuno può essere il colpevole, anzi – fra le righe viene addirittura implicato – ognuno lo è, magari anche solo per complicità morale. Non esiste una divisione netta fra bianco e nero (il "mostro" stesso è anche una vittima), o fra bene e male, come dimostra il fatto paradossale e grottesco che gli stessi criminali, che a loro volta si sono macchiati di numerosi delitti, si sostituiscono ai poliziotti e ai giudici: e questo, alla luce del clima socio-politico della Germania nel quale il film venne girato, cioè agli albori del nazismo, non è un dettaglio da poco. Anche sul tema della giustizia e del sistema legale, dunque, il film ha il merito di non imporre allo spettatore un messaggio preconfezionato o unilaterale: al processo imbastito dalla malavita si discute se sia giusto condannare l'assassino alla pena di morte anche se questi non è del tutto responsabile delle sue azioni, e sullo schermo vengono presentati i diversi punti di vista. Magnifici ed espressivi i volti degli attori, compresi quelli minori e le numerose comparse, in un miscuglio di realismo e di caricatura, mentre fra i personaggi principali spiccano – oltre a Lorre, la cui carriera specializzata in noir, thriller e horror decollò proprio da questo incisivo ritratto di una creatura orribile, anonima e patetica al tempo stesso – il massiccio commissario Lohmann (interpretato da Otto Wernicke) e il rigido capo della malavita (Gustaf Gründgens).

2 marzo 2010

Il dottor Miracolo (R. Florey, 1932)

Il dottor Miracolo (Murders in the Rue Morgue)
di Robert Florey – USA 1932
con Bela Lugosi, Sidney Fox
**

Visto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Nella Parigi del 1845, uno scienziato folle e misterioso rapisce giovani donne per mescolare il loro sangue con quello di un gorilla, che esibisce in un luna park come un fenomeno da baraccone, e dimostrare così la teoria dell'evoluzione. Pierre Dupin, giovane studente di medicina, indaga su di lui per salvare dalle sue grinfie la propria fidanzata Camille. La tenebrosa presenza di Bela Lugosi e la suggestiva fotografia di Karl Freund sono fra le cose da salvare in un film che può contare su una buona regia e su scenografie che ricordano l'espressionismo tedesco, ma che contamina senza molta brillantezza il racconto "Gli omicidi della Rue Morgue" di Edgar Allan Poe con temi tratti da "Il gabinetto del dottor Caligari" e "King Kong". Il dottor Miracolo, personaggio che non esisteva nel racconto di Poe, venne introdotto nel tentativo di replicare il successo di altri film Universal come "Frankenstein" e "Dracula". Le inquietanti atmosfere in chiaroscuro e alcune scene decisamente "forti" per l'epoca (la prostituta legata e torturata, il cadavere della madre di Camilla che pende dal caminetto) fanno comunque perdonare le ingenuità della sceneggiatura e la debole caratterizzazione dei personaggi.

1 marzo 2010

Il mare e l'amore (Kei Kumai, 2002)

Il mare e l'amore (Umi wa miteita)
di Kei Kumai – Giappone 2002
con Nagiko Tono, Misa Shimizu
**1/2

Visto in DVD alla Fogona, con Giovanni e Rachele.

Giappone, diciannovesimo secolo. Quattro ragazze lavorano in una casa di piacere presso il lungomare e sognano di cambiare vita, sperando magari che uno dei loro clienti regolari li aiuti a "riconquistare la purezza perduta". Fra di loro c'è O-Shin, che ha la tendenza a innamorarsi dei propri clienti: dapprima si illude che un giovane samurai decida di sposarla, poi – smaltita la delusione – si affezionerà a un povero contadino che giungerà in suo soccorso quando una tremenda alluvione devasterà ogni cosa. Diviso di fatto in due parti e realizzato da Kumai (il regista di "Morte di un maestro del tè") sulla base di una sceneggiatura che Akira Kurosawa aveva tratto da due racconti di Shugoro Yamamoto (avrebbe dovuto essere l'ultimo film del maestro, che scomparve prima di poterlo dirigere), è un film elegante, lento e calligrafico che non sfugge a una certa sensazione di artificialità, forse addirittura voluta: ha tutti i crismi dell'illustrazione iperrealista e patinata ma gli manca il calore e la vitalità di pellicole come "La strada della vergogna" di Mizoguchi, benché sia assai caratteristica la sensibilità giapponese con cui vengono presentati sentimenti quali l'accettazione, la rassegnazione, l'amore, il sacrificio e i sinceri rapporti di amicizia fra le donne, in particolare quelli fra O-Shin e Kikuno, la prostituta più esperta. Molto curata la ricostruzione estetica e ambientale, così come i costumi e le scenografie (bella, per esempio, la scena nel finale con le due donna sedute sul tetto dell'edificio ad ammirare le stelle, mentre l'acqua le circonda).