Deserto rosso (M. Antonioni, 1964)
Il deserto rosso, aka Deserto rosso
di Michelangelo Antonioni – Italia/Francia 1964
con Monica Vitti, Richard Harris
***
Rivisto in divx.
Giuliana (Monica Vitti), moglie del chimico industriale Ugo (Carlo Chionetti), attraversa una crisi esistenziale e depressiva. Dopo un incidente stradale (in realtà un tentativo di suicidio) e una breve permanenza in clinica, appare distratta e dissociata ("C'è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cos'è"), spaventata ("Ho paura delle strade, delle fabbriche, dei colori, della gente, di tutto!"), in crisi d'identità ("Ma io chi sono?") e in balìa dell'angoscia (sogna di sprofondare nelle sabbie mobili), ma con il desiderio di amare e di essere amata: un desiderio che non può placare né con il marito, sempre assente per lavoro ed emotivamente distante, né con il figlio, ben più a suo agio di lei nel mondo moderno che lo circonda (ha un robot per giocattolo, si diletta con il microscopio). L'incontro con Corrado (Richard Harris), ingegnere minerario amico del marito, sembra poterle fornire un appiglio: ma anche l'uomo vive in uno stato di perenne irrequietezza, mai soddisfatto e sempre pronto a cercare la felicità altrove, tanto che sta per trasferire l'industria di famiglia il più lontano possibile, in Patagonia (ovvero in un luogo, si spera, ancora incontaminato). "Chissà se c'è nel mondo un posto dove si va a stare meglio. Forse no", commenta Giuliana. Il primo film a colori di Michelangelo Antonioni (e la fotografia di Carlo Di Palma è molto interessante: le tinte appaiono per lo più spente e smorte, ma con occasionali colori più vivaci, come le "seducenti" pareti rosse del capanno da pesca dove Ugo, Giuliana, Corrado e altri amici – Max (Aldo Grotti), Linda (Xenia Valderi) e Milly (l'ex spogliarellista Rita Renoir) – trascorrono una movimentata serata) riprende ulteriormente il tema dell'alienazione che il regista (anche sceneggiatore insieme a Tonino Guerra) aveva già affrontato nella precedente trilogia in bianco e nero, sempre con la Vitti ("L'avventura", "La notte" e "L'eclisse"). Stavolta, ancor più che nei film precedenti, è tutta l'umanità che sembra aver perso il contatto con una natura che viene sfruttata e inquinata (siamo negli anni del "boom economico" e della crescita senza precedenti dell'industria italiana, di cui il film mette in dubbio i valori). Esemplare la scena finale, con il dialogo fra Giuliana e il figlioletto sui fumi che escono dalle ciminiere: "Perché quel fumo è giallo?", "Perché c'è il veleno", "Allora se un uccellino passa lì in mezzo muore?", "Ormai gli uccellini lo sanno, e non ci passano più". Ma sono tanti i momenti e gli episodi che, in questo contesto, appaiono significativi: la nave con l'epidemia a bordo (indice di un mondo malato), i personaggi sperduti nella nebbia, la paralisi misteriosa e temporanea del bambino (un semplice tentativo di attirare la sua attenzione, ma che rende evidente il distacco fra persone e apparenze). La soluzione, per quanto è possibile, è nell'amore e nei rapporti umani ("Una goccia più una goccia fa una goccia"), anche perché il mondo esterno è grigio e rumoroso, sporco e inquinato (innumerevoli sono le scene, come quelle nella fabbrica, con fumi e vapori, e un forte e sgradevole rumore di fondo che quasi copre i dialoghi). Frase cult: "Mi fanno male i capelli", citazione da una poesia di Amelia Rosselli. La colonna sonora di Giovanni Fusco comprende anche composizioni elettroniche di Vittorio Gelmetti. La spiaggia incontaminata di sabbia rosa dove è ambientata la "fiaba" che Giuliana racconta al figlio è quella di Budelli, in Sardegna, mentre il resto del film si svolge a Ravenna e dintorni (ma con scenari completamente disumanizzati). Bellissima e straordinaria la Vitti. Leone d'oro a Venezia, la pellicola disorienta e può apparire oggi forse datata nello stile ma non nei contenuti (anche se gli anni del boom sono passati, il tema dell'inquinamento è ancora attuale). Giuliana non è pazza o dissociata, ma sta male per ragioni ben precise (che però solo lei intravede: il mondo va verso la distruzione). Il titolo è enigmatico (quello di lavorazione era "Celeste e verde", le tinte con cui Giuliana immaginava di dipingere le pareti del suo negozio, già suggerendo l'importanza della sperimentazione cromatica). In ogni caso, il nome corretto del film, come figura nei titoli di testa, è "Il deserto rosso", con l'articolo: tuttavia è più comunemente noto come "Deserto rosso", senza articolo (compare così, infatti, sulla locandina).
2 commenti:
Rivedendolo adesso, in piena pandemia, mi sembra un film profetico tuttaltro che datato. Che nel '64 Antonioni mettesse al centro il malessere e l'inquietudine associandoli non a remote cause esistenziali, ma alla sistematica distruzione dell'ambiente a scopi di profitto, mi commuove e mi...indigna, visto il vuoto in cui è caduta tale denuncia, nonostante il superpremio del Leone d'oro.
La frase che uno più uno fa ancora uno, ma più grande, verrà ripresa da Tarkovkji nel suo visionario film girato in Italia, Nostalghia.
"Nostalghia" che con "Deserto rosso" ha in comune il (co-)sceneggiatore, Tonino Guerra, quindi probabilmente la frase viene da lui...
Posta un commento