15 dicembre 2020

La farfalla sul mirino (S. Suzuki, 1967)

La farfalla sul mirino (Koroshi no rakuin)
di Seijun Suzuki – Giappone 1967
con Joe Shishido, Koji Nanbara
***

Visto in TV (Prime Video).

Goro Hanada (Shishido), "killer numero 3" al servizio di una potente organizzazione criminale, ama il profumo del riso bollito e non sopporta la solitudine, che dovrebbe essere invece l'unica compagna di un assassino. Per questo sceglie di sposare la folle Manami (Mariko Ogawa), che gira sempre nuda per casa, e si lascia poi attrarre dalla misteriosa Misako (Annu Mari), una ragazza ossessionata dalla morte, che lo contatta per commissionargli un omicidio. Ma una farfalla che si posa per un attimo sul mirino del suo fucile (il caso, il destino?) gli fa mancare il colpo: e per questo motivo viene condannato a morte dalla sua stessa organizzazione, che gli manda contro l'avversario più pericoloso di tutti, il Fantasma, ovvero il "killer numero 1" (Nanbara). La pellicola più famosa (anzi, famigerata) di Seijun Suzuki è un delirante e confuso B-movie anarchico e frammentario, dal ritmo sconnesso e dai contenuti risibili che mescolano thriller ed erotismo, ma dallo stile altamente personale. Girato in un avvolgente bianco e nero espressionista, ricco di suggestioni e di momenti bizzarri, il lungometraggio pare procedere per proprio conto in un mondo astratto e surreale, popolato da killer spietati e da donne folli, che agiscono in preda a pulsioni e feticismi, attraverso situazioni improvvisate e debolmente legate le une alle altre che si dipanano in un'atmosfera torbida e notturna: i fantasiosi omicidi commessi da Hanada, il suo perverso rapporto con la moglie, le farfalle e gli uccellini morti di cui si circonda Misako, e infine lo scontro fra i due killer che si braccano come il gatto con il topo, condividendo lo stesso spazio e la stessa casa, prima di affrontarsi nella penombra di un palazzetto dello sport. A tratti ridicolo e a tratti struggente, il film è sicuramente superiore alla somma delle sue parti. La casa di produzione Nikkatsu aveva chiesto a Suzuki (autore anche della sceneggiatura insieme a un gruppo di collaboratori, accreditati collettivamente con lo pseudonimo Hachiro Guryu, ovvero "Il gruppo degli otto") di realizzare un film di yakuza tradizionale, anche per lanciare definitivamente la carriera dell'attore Joe Shishido (che anni prima si era gonfiato le guance con un'operazione di chirurgia plastica per avere lineamenti più "mascolini" e recitare così parti da cattivo e da duro), e non fu per nulla soddisfatta del confuso risultato finale, licenziando il regista e ritirando la pellicola dalla circolazione. Ne seguì una celebre disputa legale che, se da un lato rese Suzuki un eroe della controcultura e del cinema underground, dall'altro gli fece terra bruciata intorno e gli impedì di dirigere un altro film per dieci anni. Col tempo, la pellicola è stata riscoperta dal pubblico e rivalutata dalla critica, diventando un autentico cult movie. In Italia è uscita anche con il titolo "Il marchio dell'assassino", traduzione letterale dell'originale, mentre in America è nota come "Branded to kill". Ispirata in parte dai film di James Bond e dai noir americani, ma anche dalla pop art e dal teatro kabuki, ha influenzato a sua volta Jim Jarmusch (che ne ha citato una scena in "Ghost dog"), Quentin Tarantino, John Woo, Johnnie To, Takeshi Kitano ("Getting any?"), Wong Kar-wai ("Angeli perduti") e persino la serie di Lupin III (personaggio del quale Suzuki stesso dirigerà un film nel 1985, "La leggenda dell'oro di Babilonia"). Nel 2001 il regista firmerà una sorta di sequel/remake/omaggio con "Pistol opera".

1 commento:

Marco C. ha detto...

Pistol opera, capolavoro.