21 settembre 2018

Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità (J. Schnabel, 2018)

Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità (At eternity's gate)
di Julian Schnabel – USA/Francia 2018
con Willem Dafoe, Rupert Friend
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Visto al cinema Colosseo, con Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Gli ultimi anni di vita di Vincent Van Gogh, ovvero il soggiorno nella "casa gialla" ad Arles, il ricovero nell'istituto psichiatrico di Saint-Rémy e l'ultimo periodo ad Auvers-sur-Oise. Ma a differenza di pellicole biografiche come "Brama di vivere", questo film è meno interessato a fornire una rappresentazione fedele degli eventi della vita del pittore (anzi, si prende parecchie libertà, dando corpo a "leggende" come il fatto non sia morto suicida, bensì ucciso per errore da due ragazzini che giocavano con un fucile), e più invece a rappresentare visivamente sullo schermo il suo febbrile stato d'animo e la frenesia della sua pittura (si spiega così la macchina da presa a mano, spesso ondeggiante, ai limiti del fastidioso). E soprattutto vuole leggere la figura di Van Gogh in chiave mistica e cristologica, con tanto di paragone con Gesù, anch'egli "incompreso" in vita. Un paragone che fa il pittore stesso, in modo esplicito e consapevole, nella scena – la più importante del film, ma forse anche quella con i dialoghi più brutti – in cui conversa con un prete (Mads Mikkelsen) mentre è ricoverato nell'istituto. Addirittura, al momento del funerale, Schnabel ci mostra gli invitati che, in presenza del suo cadavere, cominciano già lo "sciacallaggio" dei suoi dipinti. Se in primo piano c'è dunque l'arte di Van Gogh e la tecnica pittorica, viste come un mezzo per "raggiungere e rappresentare il divino" (ricordiamo che il regista stesso è un pittore, il che spiega l'attenzione a certi dettagli), il film sembra invece rinunciare a scavare nell'uomo: la discesa della follia non è spiegata o lasciata nel vago, e la rimozione del suicidio è gravemente indicativa, visto che annulla il senso di colpa e svuota di significato i rapporti con gli altri (da Gauguin alle donne al fratello Theo). Al limite Schnabel indugia a lungo nel mostrare il pittore che cammina per la campagna o che dipinge, portando così lo spettatore a perdersi nei propri pensieri (con il rischio di giocarsi spesso la loro attenzione). Tanta forma, dunque, ma poca sostanza: si pensi anche agli artifici visivi (la visione in soggettiva distorta) e uditivi (i dialoghi ripetuti e sfasati), che lasciano il tempo che trovano. Insomma, la pellicola non convince. Bravo comunque Dafoe, premiato a Venezia con la Coppa Volpi come miglior attore: ma Kirk Douglas, come Van Gogh, era decisamente più somigliante. Nel cast anche Oscar Isaac (Paul Gauguin), Rupert Friend (Theo), Mathieu Amalric (il dottor Gachet) ed Emmanuelle Seigner (madame Ginoux).

3 commenti:

Marisa ha detto...

Sì, l'uomo Van Gogh scompare davanti all'urgenza del momento creativo. Ma secondo me è un errore perchè comunque vita ed arte sono sempre molto legate e restituire il tormento e la conflittualità a chi li ha intensamente vissuti e ci è morto mi sembra doveroso, anche se poi noi beneficiamo solo della "trasformazione" geniale per dirla con Jung o della "sublimazione", come vorrebe Freud.
Se non vogliamo occuparci della vita degli artisti basta solo andare nei musei...

Marisa ha detto...

Comunque ottimo, come quasi sempre, il grande Dafoe, anche se, come dici, Kirk Douglas era un sosia quasi perfetto di Vincent ed anche Antony Quinn era superiore nella sua fisicità e carattere nel ruolo di Gauguin ad Oscar Isaac.

Christian ha detto...

Siamo d'accordo! L'aspetto biografico è sacrificato a quello artistico. Nulla di male, per carità, basta esserne consapevoli e non uscire dal cinema pensando di conoscere meglio la figura di Van Gogh.