21 aprile 2022

La Gomera (Corneliu Porumboiu, 2019)

La Gomera - L'isola dei fischi (La Gomera)
di Corneliu Porumboiu – Romania/Fra/Ger 2019
con Vlad Ivanov, Catrinel Marlon
***

Visto in divx.

A La Gomera, isola delle Canarie, esiste una bizzarra lingua fatta solo di fischi, simili quelli degli uccelli, sviluppata dai pastori locali per comunicare a grandi distanze. Cristi (Vlad Ivanov), poliziotto corrotto della squadra narcotici di Bucarest, immanicato con Zsolt (Sabin Tambrea), imprenditore che lavora per conto di una banda di trafficanti di droga, vi si reca per impararla: gli servirà infatti per comunicare con i complici dell'uomo e organizzarne la fuga, senza farsi intercettare dai colleghi che ormai sospettano di lui. Ma intrighi e doppi giochi sono in agguato... Insolito e interessante thriller/neo-noir poliziesco, sfaccettato e complesso, con una struttura narrativa costruita su una serie di flashback e divisa in otto capitoli – ciascuno intitolato a un diverso personaggio – non in ordine cronologico. Il tema del linguaggio e della comunicazione, a partire dalla strana lingua dei fischi (il "silbo gomero", che esiste realmente), si appoggia su una vicenda caratterizzata da una ragnatela di relazioni fra i vari personaggi, tutti con una notevole dose di ambiguità e dove il bene e il male si fondono fra loro: dal protagonista stesso, poliziotto corrotto ma "buono" (e soprattutto silenzioso e impenetrabile: non abbiamo mai accesso ai suoi pensieri), alla bella Gilda (Catrinel Marlon), femme fatale amante/complice di Zsolt, di cui anche Cristi si innamora; dalla spregiudicata procuratrice Magda (Rodica Lazar), superiore di Cristi, che non esita a usare metodi discutibili pur di raggiungere i propri scopi, al boss della droga Paco (Agustí Villaronga) e al suo sottoposto Kiko (Antonio Buíl), fino all'inquietante concierge (István Teglas), appassionato di opera e proprietario di un motel al centro di diverse scene. Linguaggio, infatti, non significa solo parole, o fischi: è anche musica (fra i brani ricorrenti ci sono "Casta Diva" dalla "Norma", l'aria di Barbarina dalle "Nozze di Figaro", e la Barcarola dai "Racconti di Hoffmann" di Offenbach), e naturalmente cinema (innumerevoli le citazioni (meta)filmiche: il nome stesso di Gilda, lo spezzone di "Sentieri selvaggi" in cui viene usata un'altra lingua dei fischi!, il fatto che lo showdown finale avvenga in uno stabilimento cinematografico abbandonato, l'allusione alla scena di "Psyco" nella doccia). Citazione anche per un classico del cinema noir rumeno, "Un commissario accusa" di Sergiu Nicolaescu. Il finale forse è un po' disgiunto e trascinato. Anche se perfettamente guardabile a sé stante, il film è di fatto un sequel/spin-off del precedente "Politist, adjectiv" (2009) di Porumboiu, in cui Cristi aveva conosciuto il giovane Zsolt.

19 aprile 2022

Musica maestro (aavv, 1946)

Musica maestro (Make mine music)
di Jack Kinney, Clyde Geronimi, Hamilton Luske, Joshua Meador, Robert Cormack – USA 1946
animazione tradizionale
**1/2

Visto in divx.

Ottavo "classico Disney" (il terzo costituito da una compilation di corti; il quarto se contiamo anche "Fantasia", che però era più organico), nonché forse quello meno noto e di più difficile reperibilità: è l'unico, per dire, che non è disponibile per lo streaming sulla piattaforma Disney+. Si tratta anche del primo film Disney distribuito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, durante la quale gran parte dello staff di animatori della casa di Burbank (almeno quelli non chiamati sotto le armi) era stato impegnato nella realizzazione di film di propaganda per conto del governo americano, con il risultato di arrestare lo sviluppo di veri e propri lungometraggi animati come i grandi capolavori degli esordi: è per questo motivo che i sei "classici" usciti fra il 1942 e il 1949 non sono altro che raccolte di segmenti spesso slegati fra loro, quasi sempre a tema musicale. Al pari del successivo "Lo scrigno delle sette perle", possiamo considerarlo una sorta di "Fantasia" (il sottotitolo è in effetti "A musical fantasy") di impronta pop, country e jazzistica, anziché incentrato sulla musica classica. Fra i musicisti coinvolti figurano nomi come Benny Goodman e Dinah Shore.

1. I Testoni e i Cuticagna (The Martins and the Coys)
Due famiglie di contadini di montagna sono impegnate in una faida, talmente feroce da prendersi a fucilate fino a quando non ci lasciano tutti le penne, tranne uno per clan: un giovane e una ragazza che naturalmente si innamoreranno e si sposeranno (pur continuando a litigare). Il brano è cantato dal gruppo vocale radiofonico King's Men: nell'edizione italiana, invece, dal Quartetto Cetra. È probabilmente il segmento più controverso e censurato (è assente, per esempio, da quasi tutte le edizioni del film in home video), per via dell'eccessiva violenza (con parecchi morti) e dell'uso disinvolto delle armi da fuoco. L'episodio si ispira alla celebre e autentica faida fra i clan Hatfield e McCoy.

2. Palude blu (Blue Bayou)
Le immagini di questo segmento, che mostrano due aironi in una palude delle Everglades, erano originariamente destinate a "Fantasia", dove avrebbero dovuto essere abbinate al "Clair de lune" di Claude Debussy. Scartate dal montaggio finale di quel film, sono state riciclate qui, sostituendo però la colonna sonora con una lenta canzone intonata da due membri del coro di Ken Darby (nella versione italiana da Alberto Rabagliati).

3. Quando i gatti si riuniscono (All the Cats Join In)
Sulle note di un brano jazzato di Benny Goodman, un gruppo di ragazzi e ragazze va a scatenarsi nella danza in un bar (un soda shop) al ritmo di un juke box, mentre la matita del disegnatore completa lo scenario loro attorno, dando quasi l'impressione che l'episodio venga realizzato e illustrato "in diretta". Simpatico.

4. Senza te (Without You)
Una malinconica ballata romantica, cantata da Andy Russell (Natalino Otto nella versione italiana), accompagna le tristi immagini di una giornata piovosa, osservata dalla finestra di una casa, e poi di un cielo al tramonto. "A ballad in blue" è il sottotitolo: il blu, in inglese, è il colore della malinconia.

5. Casey at the Bat (id.)
Il comico e musicista di origine italiana Jerry Colonna recita un poema di Ernest Thayer su un giocatore di baseball che ha la possibilità di far vincere la propria squadra, capovolgendo il risultato di un incontro proprio all'ultima battuta dell'ultimo inning: ma per la troppa sicurezza nei propri mezzi, si fa eliminare. Questo segmento era assente nella prima versione italiana, forse perché nel nostro paese il baseball e le sue regole erano poco note.

6. Due silhouette (Two Silhouettes)
Le silhouette di due ballerini (David Lichine e Tatiana Riabouchinska) danzano su un fondale astratto, sulle note di una canzone di Dinah Shore.

7. Pierino e il lupo (Peter and the Wolf)
La favola russa di Pierino e il lupo, nella versione musicale di Sergei Prokofiev (in cui ogni personaggio è rappresentato da un diverso strumento musicale), è trasposta in animazione con la regia di Clyde Geronimi: è l'episodio più puramente "disneyano" del film, come stile e come estetica. La voce narrante in originale è di Sterling Holloway, in italiano è di Stefano Sibaldi.

8. After You've Gone (id.)
Ancora Benny Goodman e la sua orchestra sono protagonisti di questo episodio, il più breve del film, in cui una serie di immagini surreali sono dedicate a quattro strumenti musicali in versione antropomorfizzata (un flauto, un pianoforte, una chitarra e una batteria), accompagnate da un brano solo strumentale.

9. Gianni di Feltro e Alice di Paglia (Johnnie Fedora and Alice Bluebonnet)
Le sorelle Andrews (il Quartetto Cetra nella versione italiana) raccontano con il loro canto un'insolita storia d'amore fra due cappelli nella vetrina di un negozio: vengono separati quando sono acquistati da due diversi clienti, ma dopo varie avventure si ritroveranno nel momento e nelle condizioni più inattese, ovvero sulla testa di due cavalli che, affiancati, trainano un carretto.

10. La balena che voleva cantare all'Opera (The Whale Who Wanted to Sing at the Met)
La notizia che in mare vive una balena dalle stupefacenti doti canore sconvolge il mondo. Gianni (Willie in originale), questo il suo nome, già si immagina di cantare al teatro dell'opera di New York. Ma l'impresario Tetti Tatti, convinto che l'animale abbia inghiottito un cantante, le dà la caccia a bordo di una baleniera. Con il suo finale tragico, o meglio agrodolce, è l'episodio forse più celebre della pellicola, sicuramente quello che rimane più impresso. L'attore e baritono Nelson Eddy fornisce le voci di tutti i personaggi: nella versione italiana si alternano Alberto Sordi nelle parti parlate e il basso-baritono Saturno Meletti in quelle cantate. Fra i brani intonati dalla balena, spiccano "Largo al factotum" dal "Barbiere di Siviglia" di Rossini e le tre voci maschili del sestetto dalla "Lucia di Lammermoor" di Donizetti (più spezzoni da "Pagliacci", "Tristano e Isotta" e "Mefistofele").

18 aprile 2022

Sogni di una notte (Mikio Naruse, 1933)

Every-night dreams (Yogoto no yume)
di Mikio Naruse – Giappone 1933
con Sumiko Kurishima, Tatsuo Saito
**1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli.

Per poter mantenere il figlio Fumio (Teruko Kojima), che è costretta a crescere da sola dopo essere stata abbandonata dal marito, Omitsu (Sumiko Kurishima) lavora come cameriera e intrattenitrice in una bettola frequentata soprattutto da marinai. Quando il marito Mizuhara (Tatsuo Saito) torna a casa dopo tre anni, la donna accetta di riaccoglierlo, nella speranza di ricominciare una nuova vita. L'uomo, però, fatica a trovare lavoro, essendo debole e gracile: e pur di procurarsi il denaro che possa permettere alla moglie di abbandonare un mestiere fonte di umiliazioni e attenzioni non gradite, decide di dedicarsi al crimine... Ambientato in un Giappone in preda alla povertà e alla depressione, questo intenso melodramma (neo)realista è forse fra i film più importanti del periodo muto di Naruse (periodo del quale, peraltro, sono sopravvissuti pochi titoli, solo cinque su 24). Il finale tragico e commovente, in particolare, con la madre che implora il figlio di crescere "forte" per non fare la fine del padre, è ancora oggi di grande impatto, così come la descrizione delle difficoltà della famiglia di mantenere l'onestà e la dignità di fronte alle avversità economiche e sociali. Stilisticamente, la regia di Naruse è già elegante, e fa uso di zoom, movimenti di macchina e un montaggio rapido (in particolare nella sequenza della rapina), mentre i personaggi sono ben descritti e si fondono con l'ambiente circostante. Takeshi Sakamoto è il "Capitano", l'avventore del bar che mette i suoi occhi su Omitsu. Jun Arai e Mitsuko Yoshikawa sono i vicini di casa.

16 aprile 2022

The visit (M. Night Shyamalan, 2015)

The visit (id.)
di M. Night Shyamalan – USA 2015
con Olivia DeJonge, Ed Oxenbould
**1/2

Visto in TV (Netflix).

Mentre la mamma è in crociera, i fratelli Rebecca (15 anni) e Tyler (13 anni) vanno in visita per una settimana nella fattoria dei nonni, che non hanno mai conosciuto. Ma la permanenza si tinge presto di colori inquietanti, per via dello strano comportamento dei due anziani parenti: che si tratti solo dell'età, di demenza senile, o c'è dell'altro? Ispirandosi da un lato allo "stacco generazionale" che c'è fra lo stile di vita di due ragazzini moderni e quello di due vecchi contadini, e dall'altro ad alcuni classici temi delle fiabe (come "Hänsel e Gretel": vedi la scena in cui la ragazzina è invitata dalla nonna a entrare dentro il forno per pulirlo), Shyamalan firma un horror/thriller a basso budget, quasi "studentesco", senza effetti speciali o location impegnative, e praticamente con solo cinque attori (i ragazzi, i nonni, e la mamma; otto, se contiamo alcuni personaggi minori). La tecnica è quella del found footage: Rebecca, appassionata di cinema, intende documentare l'intera vacanza con le sue telecamere per farne un "documentario"; di fatto, tutto ciò che vediamo nel film è ciò che lei e il fratello riprendono ("Se noi due non partecipiamo all'evento non possiamo girare"), una trovata assai popolare nel genere horror (si pensi, per esempio, a "Cannibal Holocaust", "Blair Witch Project" o "Cloverfield"). Anche se la tensione si perde un po' nel finale, dopo l'inevitabile colpo di scena, nel complesso il film regge fino in fondo, anche per merito delle buone interpretazioni (i nonni sono Peter McRobbie e Deanna Dunagan), nonché per l'impostazione low tone e il punto di vista, quasi infantile, dei due ragazzini, di fronte alle inquietanti "stranezze" dei nonni. Dopo i flop dei precedenti (e costosi) "L'ultimo dominatore dell'aria" e "After Earth", per Shyamalan un progetto così "piccolo" (che finanziò personalmente) fu una boccata d'aria fresca.

15 aprile 2022

That fatal sneeze (Lewin Fitzhamon, 1907)

That fatal sneeze
di Lewin Fitzhamon – GB 1907
con Thurston Harris, Gertie Potter
**

Visto su YouTube.

Per vendicarsi di uno scherzo che lo zio gli aveva fatto la sera prima a tavola, un ragazzo durante la notte gli cosparge di pepe il fazzoletto, la spazzola e gli abiti. La mattina dopo, l'uomo non può fare a meno di starnutire in continuazione. Gli starnuti sono così potenti da rovesciare i mobili dentro casa, dal far cadere le merci esposte nei negozi, da distruggere le porte e le finestre degli edifici e da provocare letteralmente un terremoto. Inseguito da passanti, negozianti e poliziotti furiosi, mentre il monello se la ride, l’uomo finisce infine per autodistruggersi... con uno starnuto. Ben realizzata, con una robusta dose di effetti speciali artigianali, questa commedia di produzione britannica non è altro che una gag “da fumetto” prolungata, nello stile di “Bibi e Bibò” o, se vogliamo, di altri film pioneristici degli esordi come il “Mary Jane Mishap” del 1903. Quello che la rende interessante, però, è l’importanza dell’ambiente attorno ai personaggi e il modo con cui il protagonista interagisce con esso. La “distruzione” che gli starnuti dell’uomo arrecano al mondo circostante è la chiave delle gag, non gli starnuti in sé. Siamo agli albori di quello che diventerà il cinema slapstick, con la comicità “fisica” che farà la fortuna delle comiche americane di Sennett, Lloyd, Chaplin e Keaton, e dunque stiamo distaccandoci dal “cinema delle attrazioni” di Méliès o Chomón per andare verso un cinema più “narrativo”. Non a caso, forse, qui gli effetti speciali sono per lo più “pratici” e meno “ottici” (mobili e oggetti che si muovono grazie a fili, non dissolvenze o sovrimpressioni: persino la sequenza del terremoto è stata realizzata collocando la macchina da presa su una tavola in equilibrio, e lasciandola ondeggiare per simulare l’oscillazione del terreno).

14 aprile 2022

The Adam project (Shawn Levy, 2022)

The Adam Project (id.)
di Shawn Levy – USA 2022
con Ryan Reynolds, Walker Scobell
*1/2

Visto in TV (Netflix).

Il dodicenne Adam Reed (Walker Scobell) riceve la visita di sé stesso adulto (Ryan Reynolds), proveniente dal futuro grazie a un "jet temporale", che chiede il suo aiuto per impedire che i viaggi del tempo – resi possibili dalle ricerche del loro padre (Mark Ruffalo) – vengano inventati. Pellicola d'azione fantascientifica dove tutto è al minimo comune denominatore: la regia, la produzione, la recitazione, la sceneggiatura (con dialoghi didascalici e una buona dose di retorica a tema famigliare, per non parlare del finale iper-prevedibile). Fra personaggi e situazioni scontate (i bulli a scuola, la mamma single, i cattivi generici con motivazioni altrettanto generiche), cerca di vivacizzare la trama con tentativi di umorismo goffo da film Marvel: vedi i battibecchi di Adam con sé stesso, o con il padre. Nonostante i concetti scientifici (i paradossi sono evitati spiegando che la linea temporale cambia solo quando si torna nel proprio "tempo stabilito") e gli effetti speciali, tutto sembra su scala piccola, e non mancano buchi logici o semplicemente personaggi che si comportano in modo stupido. Nei dialoghi si citano "Terminator" e "Ritorno al futuro". Jennifer Garner è la madre di Adam, Zoe Saldana la moglie, Catherine Keener la cattiva. Di fatto un tv movie. Il progetto originale, risalente a dieci anni prima, prevedeva Tom Cruise come protagonista.

13 aprile 2022

I colori (Abbas Kiarostami, 1976)

I colori (Rangha)
di Abbas Kiarostami – Iran 1976
**1/2

Visto su YouTube.

Cortometraggio sul tema dei colori, girato da Kiarostami nel periodo in cui lavorava per il Kanun (l'Istituto per lo Sviluppo Intellettuale dei Bambini e degli Adolescenti). Stavolta non viene raccontata una storia: vediamo una mano impugnare dei pennelli e, uno dopo l'altro, intingerne la punta in una vaschetta di colore e poi in un bicchiere d'acqua. Seguono (in rapida successione, accompagnate da una voce femminile e da una musichetta allegra) immagini di vari oggetti di uso comune, ma anche fiori e animali, caratterizzati da quel colore. Inizialmente il rosso, poi il verde, il giallo, il blu, l'arancio, il bianco, il viola e infine il nero. L'intento pedagogico è esile ma ovvio (guidare i bambini alla scoperta dei colori, il che significa alla scoperta del mondo), ma a colpire è la sensibilità artistica. E il percorso non è lineare: non mancano infatti inattese disgressioni (la comparsa di arcobaleni, dove i colori si affiancano o si fondono insieme) o spunti "narrativi" (la gara di automobiline, con tanto di immagini di un bambino alla guida di una di esse; il passaggio pedonale, che ricorre sia nei segmenti dedicati ai tre colori del semaforo, sia in quello del bianco; la barchetta di carta nel ruscello). Di impatto anche la sequenza in cui il bambino, con una pistola giocattolo, spara su una fila di bottiglie contenente acqua colorata, distruggendole una dopo l'altra. Ogni colore, infine, è associato anche a emozioni o concetti astratti: il nero conclusivo, per esempio, è il colore di una lavagna, e dunque dell'apprendimento. Nell'insieme, la breve pellicola (dura quindici minuti) fornisce tanti spunti, situazioni, piccoli episodi, da non annoiare mai e da mettere in mostra in maniera perfetta il talento affabulatorio di Kiarostami, capace di catturare lo spettatore con la poesia del quotidiano e le libere associazioni a partire da immagini semplici. Gli stessi colori si sciolgono l'uno nell'altro e si confondono, come le "mille gradazioni" della vita.

12 aprile 2022

Il vestito per il matrimonio (A. Kiarostami, 1976)

Il vestito per il matrimonio (Lebasi baraye arusi)
di Abbas Kiarostami – Iran 1976
con Hassan Darabi, Mehdi Nekoueï, Massoud Zand
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Ali, Hossein e Mamad sono tre giovani amici che lavorano negli esercizi commerciali che si affacciano sul cortile interno di un palazzo. Ali fa il garzone nella bottega di un sarto: quando una cliente benestante commissiona un vestito su misura per il figlio, da indossare il giovedì seguente al matrimonio della sorella, Hossein chiede all'amico di prestarglielo la sera di mercoledì, promettendo di riportarglielo indietro prima che la donna venga a ritirarlo la mattina dopo. Ma anche Mamad vuole sfoggiare il vestito, e convince Hossein a cederglielo... L'abito che dà il titolo a questo mediometraggio è l'oggetto del desiderio dei giovani protagonisti, un autentico status symbol (simbolo di ricchezza ed eleganza, come quella dei modelli che appaiono nel catalogo nel negozio del sarto) da sfoggiare, anche solo per una sera, per uscire con una ragazza (nel caso di Hossein) o per andare a teatro ad assistere allo spettacolo di un prestigiatore (nel caso di Mamad) e potersi permettere di salire sul palco come volontario. E mentre i genitori e gli adulti non comprendono questo desiderio ("Io indosso lo stesso vestito da nove anni!"), i ragazzi (e lo spettatore con loro) si interrogano se l'abito tornerà nel negozio sano e salvo prima che la cliente giunga a reclamarlo (soprattutto perché Mamad ha una reputazione per farsi coinvolgere nelle risse e tornare a casa con gli abiti strappati). Incentrato in fondo su un "piccolo" episodio, come altri lavori di Kiarostami il film si apre a un respiro più ampio grazie alla simpatica caratterizzazione dei tre amici e del luogo in cui lavorano, un microcosmo dove l'arte del commercio e delle transazioni si espande alle relazioni di tutti i giorni (si veda come i ragazzi "contrattino" ogni favore reciproco). In fondo, anche in questo caso, i problemi dell'infanzia o dell'adolescenza non sono altro che un simulacro, più ingenuo e innocente, di quelli dell'età adulta. Nota: Hassan Darabi, che interpreta Ali, era già stato il protagonista del precedente lungometraggio di Kiarostami, "Il viaggiatore".

10 aprile 2022

Donnie Darko (Richard Kelly, 2001)

Donnie Darko (id.)
di Richard Kelly – USA 2001
con Jake Gyllenhaal, Jena Malone
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Rivisto in TV (Prime Video).

Liceale con problemi psichiatrici, Donnie Darko (Jake Gyllenhaal) riceve una notte la visita soprannaturale di "Frank", un individuo con un (mostruoso) costume da coniglio, che gli annuncia che la fine del mondo è prossima: mancano solo 28 giorni, 6 ore e spiccioli... La notte stessa, il motore di un aereo di linea piomba misteriosamente giù dal cielo, schiantandosi sulla casa dei Darko, e precisamente sulla stanza del ragazzo. E nei giorni che seguono, nel corso di un progressivo "distacco dalla realtà", il traumatizzato Donnie – che si è salvato soltanto perché era fuori di casa, in preda a un consueto sonnambulismo – compie una serie di atti vandalici (istigato da "Frank") ai danni della scuola e degli adulti ipocriti che lo circondano, si innamora di Gretchen (Jena Malone), una ragazza appena arrivata nel quartiere, e si lascia ossessionare dal concetto dei viaggi nel tempo, che potrebbe spiegare molte delle cose strane che gli accadono intorno... Da una sceneggiatura scritta dal regista stesso (all'esordio) subito dopo essersi diplomato alla scuola di cinema, un film bizzarro e unico nel suo genere: un thriller enigmatico che innesta suggestioni e angosce disturbanti, alla David Lynch, su uno scenario da tipica commedia scolastica liceale, con tanto di rapporti con gli amici, i famigliari, gli insegnanti in una piccola cittadina (in Virginia). Passato quasi inosservato alla sua uscita, si conquisterà rapidamente la fama di cult movie per il fascino che esercita su uno spettatore al quale vengono forniti numerosi elementi che sembrano acquistare significato soltanto con il senno di poi, al termine del "loop" temporale, o con una seconda visione (altamente ripagante: è un film che andrebbe certamente visto più di una volta). Eccezionale il comparto attoriale: Jake Gyllenhaal era quasi agli esordi, sua sorella Maggie interpreta la sorella maggiore dello stesso Donnie, i genitori sono Holmes Osborne e l'ottima Mary McDonnell, mentre fra i comprimari troviamo nomi noti come Drew Barrymore (l'insegnante di letteratura), anche produttrice, e Patrick Swayze (il "guru" del pensiero attitudinale), oltre a Katharine Ross (la terapista), Beth Grant (l'insegnante bigotta) e Jolene Purdy (la compagna introversa). Nella colonna sonora di Michael Andrews, anche canzoni dei Tears for Fears (compresa una cover di "Mad World"), Joy Division, Echo & the Bunnymen. Curiosità: il film si svolge nell'arco di 28 giorni (dal 2 ottobre 1988 al 30, Halloween): lo stesso periodo di tempo impiegato da Kelly prima per scriverlo e poi per girarlo. Nel 2009, senza il contributo del regista originale, è uscito "S. Darko", un sequel dedicato alla sorella minore di Donnie, Samantha.

9 aprile 2022

Gods of Egypt (Alex Proyas, 2016)

Gods of Egypt (id.)
di Alex Proyas – USA/Australia 2016
con Nikolaj Coster-Waldau, Brenton Thwaites
**1/2

Visto in TV (Netflix).

In un antico Egitto immaginario e mitologico, uomini e dèi (che sono alti il doppio dei mortali, hanno oro anziché sangue nelle vene, e possono trasformarsi in creature metalliche e ibride uomo-animale) convivono pacificamente e in prosperità, grazie all'illuminata saggezza del re Osiride. Quando il suo malvagio fratello Seth (Gerard Butler) ne usurpa il trono, accecando ed esiliando il legittimo erede Horus (Nikolaj Coster-Waldau), signore dell'aria, il paese piomba in rovina. Ad aiutare Horus a reclamare il trono sarà un mortale, l'orgoglioso e coraggioso ladruncolo Beck (Brenton Thwaites), in cerca di un modo per riportare in vita la ragazza che ama, Zaya. La mitologia egiziana è solo un pretesto per mettere in scena un'avventura fantasy e d'azione, ambientata in un mondo fantastico e soprannaturale, dove l'influenza delle divinità sulla vita degli uomini è quanto mai concreta (il "cattivo" Seth impone ai mortali di dover pagare in denaro o altre ricchezze il passaggio nell'aldilà). Flop al botteghino e stroncato dalla critica, il film in realtà è molto divertente se si sta al gioco: non ci si aspetti una particolare profondità, ma un puro e adrenalinico intrattenimento, senza sovrastrutture o significati retorici al di là dei luoghi comuni del genere (l'amicizia, la vendetta, l'amore). Visivamente straripante, con un'estetica visionaria che fa quasi pensare più a "Scontro tra Titani" o al Tarsem Singh di "Immortals" che non alle cupezze neo-noir di Proyas (ma senza l'inconsistenza "fuffosa" del regista indiano), il lungometraggio reinterpreta a proprio modo temi e spunti derivanti dalla mitologia (Ra, il dio del Sole, che ogni notte si batte contro il demone del caos e dell'oscurità Anofi; la Sfinge, con i suoi misteriosi enigmi; Anubi e il mondo dei morti) ma si concede anche lunghe ed elaborate sequenze d'azione, affogate in un mare di scenari in computer grafica. Eppure, a differenza di altre pellicole del genere, non ci si annoia, almeno non sempre. L'intento di Proyas era quello di realizzare una pellicola ad alto budget che non si fondasse su franchise pre-esistenti, ma il riscontro del pubblico non c'è stato. Geoffrey Rush è Ra, Élodie Yung è la dea dell'amore Hathor, Chadwick Boseman il dio della saggezza Thoth, Courtney Eaton la schiavetta Zaya (difficile non tenere gli occhi puntati sulla sua... scollatura).

7 aprile 2022

Apollo 10 e mezzo (R. Linklater, 2022)

Apollo 10 e mezzo (Apollo 10½: A Space Age Childhood)
di Richard Linklater – USA 2022
animazione rotoscope
**

Visto in TV (Netflix).

Stanley, nove anni e ultimo di sei fratelli, vive con la famiglia alla periferia di Houston: il film – il terzo di Linklater in animazione rotoscope, dopo i più artistici "Waking life" e "A scanner darkly" – rievoca in chiave nostalgica l'estate del lancio dell'Apollo 11 e della conquista della Luna, eventi (ri)visti con gli occhi dell'infanzia. Gran parte della pellicola, in effetti, è spesa a raccontare le esperienze di quei mesi: la vita in famiglia, i giochi più o meno pericolosi con i fratelli e gli altri ragazzi del quartiere, le canzoni, i film e i programmi TV dei tardi anni Sessanta, il tutto mentre il programma spaziale della NASA domina l'interesse collettivo e l'immaginario di tutti. In effetti lo stesso Stanley, nella sua immaginazione, si vede partecipare alla grande impresa, assoldato per testare il modulo lunare e poi raggiungere in segreto la Luna (con la missione Apollo 10 e mezzo) prima dei veri astronauti. Parzialmente autobiografico (e in questo molto simile come impostazione al recente "Belfast" di Kenneth Branagh, nonché a mille altri film del genere), visto che lo stesso Linklater è nato a Houston nel 1960, il lungometraggio è però nel complesso noiosetto, come quando qualcuno ti vuole raccontare per forza le sue esperienze d'infanzia, anche se sono poco interessanti. La voce narrante (di Stanley da adulto), in originale, è di Jack Black. Fra i tanti film di quegli anni citati nella pellicola, c'è "Conto alla rovescia" di Robert Altman.

5 aprile 2022

Alta fedeltà (Stephen Frears, 2000)

Alta fedeltà (High Fidelity)
di Stephen Frears – GB/USA 2000
con John Cusack, Iben Hjejle
***

Rivisto in TV (Disney+).

Dopo la rottura con la fidanzata Laura (Iben Hjejle), l'ansioso Rob Gordon (John Cusack), ex DJ, appassionato di musica e proprietario di un negozio di dischi nella periferia di Chicago, ripensa alle sue storie sentimentali passate e ai motivi per cui sono finite male. Per capirne le ragioni, decide di rintracciare le cinque ragazze che gli hanno spezzato di più il cuore: la "top five" delle rotture più dolorose. Insieme ai due dipendenti che lavorano nel suo negozio, il timido Dick (Todd Louiso) e l'esuberante Barry (Jack Black), è infatti solito passare il tempo snocciolando classifiche sulle cose più svariate: a cominciare dalla musica, certo (i dischi o le canzoni più belle su particolari temi), ma anche su tutti gli aspetti della sua vita privata. Dall'omonimo romanzo di Nick Hornby (che però era ambientato a Londra), una pellicola che trasuda amore, oltre che per i simpatici personaggi e per le loro vicende romantiche, soprattutto per la musica. Il negozio di Rob vende vinili e si rivolge ad appassionati consapevoli della grande musica del passato, che non inseguono soprattutto le mode, a costo di essere sbeffeggiati nei loro gusti dall'atteggiamento snob dei suoi commessi (in particolare dal provocatorio Barry): e il fascino per i vecchi dischi, le lunghe discussioni sugli artisti e sui concerti, i sogni di far parte di quel mondo porteranno Rob, nel finale, a lanciarsi persino a produrre il CD di due ragazzini che bazzicano il suo negozio (spesso rubando, più che comprando, gli album esposti). In linea con il romanzo di Hornby, cui è piuttosto fedele, il film è brillante e spigliato, condotto per mano da un protagonista insicuro e semi-depresso, che parla in camera direttamente con lo spettatore (rivelando, fra le varie cose, i segreti per realizzare una compilation ideale su cassetta) e ripercorre le sue storie passate, il tutto mentre cerca (e spera) disperatamente di ricucire i rapporti con Laura. Le sue ex ragazze sono interpretate, fra le altre, da Catherine Zeta-Jones, Lili Taylor e Joelle Carter. Tim Robbins è Ian/"Ray", la nuova fiamma di Laura; Lisa Bonet è la cantante Marie DeSalle; Joan Cusack (sorella di John) è Liz, amica di Laura e Rob; Bruce Springsteen ha un cameo nel ruolo di sé stesso. Ottimo Black. Ricchissima, ovviamente, la colonna sonora (per non parlare dei brani o dei dischi soltanto menzionati nei dialoghi): per selezionarne i contenuti, Frears e gli sceneggiatori hanno passato in rassegna circa 2000 canzoni!

3 aprile 2022

Red (Domee Shi, 2022)

Red (Turning Red)
di Domee Shi – USA 2022
animazione digitale
**1/2

Visto in TV (Disney+), con Sabrina.

Quando entra nella pubertà, la tredicenne Mei – ragazzina di origine cinese, ma residente con la famiglia a Toronto – scopre di trasformarsi in un gigantesco panda rosso ogni volta che è in preda a forti emozioni. Si tratta di una "maledizione" che da sempre colpisce le donne della sua famiglia, ma che è possibile eliminare con un complicato rituale: peccato che questo debba essere eseguito nella stessa sera di plenilunio in cui la ragazzina progettava di andare con le amiche (e di nascosto dai genitori) al concerto della loro boy band preferita... I temi della crescita, dell'improvviso e inaspettato ingresso nell'età adulta ("Sono un orribile mostro rosso", esclama Mei dopo la prima trasformazione, con un esplicito riferimento alle prime mestruazioni), della ribellione ai genitori (una sfida mossa dalle difficoltà di essere all'altezza delle aspettative della madre, una tipica e terribile asian mom, ingombrante e protettiva, che controlla ogni aspetto della vita della figlia e si attende da lei l'eccellenza in ogni campo) e del "non nascondere il lato negativo di sé, ma trovargli posto e conviverci" (il messaggio di "non reprimere la bestia, ma darle sfogo" fa inevitabilmente volare il pensiero al "Dottor Jekyll e Mister Hyde" di Stevenson, di cui la pellicola è praticamente una rilettura, magari ispirata anche a "Ranma 1/2" e "Totoro") sono al centro di un film simpatico, benché semplicistico e un po' troppo piacione e giovanilistico. Targato Pixar, sembra quasi strizzare gli occhi più alla televisione che al cinema. In effetti, come i precedenti "Soul" e "Luca", è uscito direttamente sulla piattaforma di streaming Disney+, anziché nelle sale. È il primo lungometraggio diretto dalla sino-canadese Domee Shi (anche sceneggiatrice), dopo il corto "Bao" del 2018.

2 aprile 2022

Terra senza pane (Luis Buñuel, 1933)

Terra senza pane (Las Hurdes: Tierra sin pan)
di Luis Buñuel – Spagna 1933
***

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli.

Dopo i due film surrealisti degli esordi ("Un chien andalou" e "L'age d'or") e la rottura con Salvador Dalì, Buñuel fu invitato a Hollywood dal produttore Irving Thalberg, ma rimase in America solo pochi mesi prima di fare ritorno in Europa. Ispirato dalla lettura di un saggio accademico di Maurice Legende, decise di realizzare un documentario di "geografia umana" sulle difficili condizioni di vita nelle Hurdes, una regione montuosa della Spagna (a un centinaio di chilometri dalla "civilizzata" Salamanca) caratterizzata da estrema povertà e arretratezza. Finanziato da un amico anarchico, Ramón Acín, che aveva vinto centomila pesetas alla lotteria, il film segna solo apparentemente un forte distacco rispetto ai due lavori precedenti (le assurdità e bizzarrie oniriche cedono il passo a un realismo spinto e melodrammatico): in realtà lo sguardo del regista è sempre lo stesso, rivolto a 360 gradi verso tutto ciò che lo circonda: gli esseri umani, gli animali, il paesaggio, le usanze, la cultura, l'amore, la malattia e la morte. L'impianto è quello del documentario di viaggio: Buñuel e i suoi collaboratori partono dal villaggio di La Alberca, dove assistono a una cerimonia popolare (abbastanza cruenta: i partecipanti devono staccare la testa a un gallo appeso sulla strada), per poi attraversare la valle di Las Batuecas (dove si trova un antico monastero) e giungere infine nelle Hurdes vere e proprie, un insieme di villaggi di case di pietra diroccate e primitive, in mezzo a un territorio spoglio, inospitale e selvaggio. Qui i cineasti hanno soggiornato un paio di mesi, riprendendo lo stile di vita, la desolazione, le malattie e le sofferenze dei suoi abitanti. Un paio d'anni dopo le riprese, nel 1935, Buñuel completò il film con una narrazione in francese (la voce è quella di Abel Jacquin), che sottolinea con insistenza gli aspetti più pietosi e miseri di ciò che viene mostrato, e una colonna sonora (con estratti della quarta sinfonia di Brahms). L'insieme è senza dubbio provocatorio, con intenti sovversivi (Buñuel era un forte oppositore del governo conservatore): alcuni momenti sembrano esagerati (le sofferenze dei bambini), altri sono stati probabilmente inscenati dai cineasti (la caduta della capra dalle rocce), altri ancora ricordano sequenze dei lavori surrealisti (l'asino attaccato dalle api); ma nel complesso il film lascia un'impressione profonda e contribuì a rendere il mondo consapevole del fatto che in alcune regioni della Spagna, già allora sull'orlo della guerra civile, si viveva in maniera così incredibilmente arretrata. Il commento finale invita a uno sforzo collettivo per migliorare le condizioni sociali degli abitanti: tuttavia il film venne vietato dalla censura spagnola. Un film d'animazione del 2018 (tratto da una graphic novel), "Buñuel nel labirinto delle tartarughe", racconta il making of di "Las Hurdes". Nei quindici anni successivi, Buñuel soggiornò in Francia (dove si occupò di doppiaggio), in Spagna (dove lavorò come produttore) e infine (dal 1938) in America: solo nel 1947, dopo essersi stabilito in Messico, tornerà definitivamente alla regia.

1 aprile 2022

L'âge d'or (Luis Buñuel, 1930)

L'età dell'oro (L'âge d'or)
di Luis Buñuel – Francia 1930
con Gaston Modot, Lya Lys
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Rivisto su YouTube.

Il secondo lavoro surrealista di Buñuel dopo "Un chien andalou" è un film di 62 minuti, stavolta parzialmente sonoro, anch'esso cominciato in collaborazione con Salvador Dalì: ma i due litigarono durante la lavorazione, per ragioni sia artistiche che politiche, e il risultato finale è da attribuirsi quasi esclusivamente al regista spagnolo (di Dalì rimangono alcuni spunti nella sceneggiatura). In seguito al clamore suscitato dal corto precedente, la pellicola (costata un milione di franchi) venne finanziata dal visconte Charles de Noailles, che ogni anno commissionava un film come regalo di compleanno per la moglie Marie-Laure, patrona delle belle arti. I due nobili però se ne pentiranno, visto che la pellicola, grottesca e dissacrante, non fu accolta con la stessa benevolenza della precedente e, anzi, suscitò scandalo, rigetto e forti controversie, al punto che i visconti furono pesantemente criticati dal resto dell'aristocrazia francese (e persino minacciati di scomunica dal Vaticano!). Dopo molte proteste e alcuni atti di teppismo verso i cinema che lo proiettavano, il film venne vietato a Parigi dalla polizia per "motivi di ordine pubblico" e sparì dalla circolazione per diversi decenni. Nonostante la sua natura surrealista e onirica, non è in effetti privo di momenti provocatori e immagini dal "brutale impatto visivo", in chiave antiborghese e anticlericale: in particolare il finale, che accosta la figura di Gesù Cristo a quelle dei protagonisti de "Le 120 giornate di Sodoma" del marchese De Sade. Anche l'incipit è spiazzante, ma per altri motivi: un documentario sugli scorpioni. Il blocco centrale racconta invece, a modo suo, un'altra storia di amore e di passione, stavolta velata di critica antiborghese, un invito a rompere gli schemi e a rifiutare le regole ipocrite e arbitrarie della "buona società", soprattutto se imposte da istituzioni politiche o astratte che ostacolano l'amore puro dei due protagonisti. Una coppia si abbraccia per terra, fra il fango, creando scompiglio e disturbando una cerimonia pubblica, tanto da essere separata a forza dagli astanti. L'uomo, ammanettato e portato via, viene infine rilasciato. Si introduce allora nel palazzo dove una famiglia aristocratica sta dando un ricevimento. Qui ritrova la sua amata, la figlia dei marchesi, appartandosi con lei nel giardino della villa. Per tutto il film vediamo l'uomo infrangere ogni regola di buon comportamento: scalcia un cagnolino, picchia un cieco, schiaffeggia la marchesa, ecc. E non mancano altri momenti provocatori: celebre, per esempio, una frase di Lya Lys: "Che gioia, che gioia aver assassinato i nostri figli!". Quanto alle sequenze più surreali, spesso di ispirazione pittorica, rimangono impressi gli scheletri degli arcivescovi che pregano fra le montagne, la mucca seduta sul letto della donna come se fosse un cagnolino, l'uomo che in preda alla rabbia getta dalla finestra – in sequenza – un albero in fiamme, un vescovo e una giraffa (!)... per non parlare degli insoliti raccordi fra una sequenza e l'altra: dalle montagne infestate dai briganti, per esempio, si passa, a volo d'uccello, a "Roma imperiale", costruita letteralmente in un giorno. Fra gli attori si riconoscono artisti come Max Ernst e Josep Llorens Artigas. La colonna sonora è composta da musica classica, con brani di Beethoven, Mendelssohn, Mozart e Schubert, mentre al ricevimento dei marchesi l'orchestra suona il Liebestod di Wagner (lo stesso brano che accompagnerà "Un chien andalou" nella sua riedizione).

30 marzo 2022

Un chien andalou (Luis Buñuel, 1929)

Un cane andaluso (Un chien andalou)
di Luis Buñuel – Francia 1929
con Pierre Batcheff, Simone Mareuil
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Rivisto su YouTube.

Il film surrealista più celebre della storia del cinema, concepito da Luis Buñuel (alla sua prima esperienza cinematografica, dopo aver lavorato per un breve periodo come assistente di Jean Epstein) insieme all'amico Salvador Dalì, con cui firma la "sceneggiatura", è un cortometraggio di una ventina di minuti che ancora oggi, come quando uscì, non lascia indifferenti. E, soprattutto, fa pensare a cosa avrebbe potuto essere il cinema se fosse diventato (o rimasto, almeno in parte) un'arte più astratta, come la pittura o la poesia, e non avesse scelto quasi universalmente la via narrativa (e "realistica"). «Nessuna tra le arti tradizionali manifesta una sproporzione così grande tra le possibilità che offre e le proprie realizzazioni», ha detto lo stesso regista spagnolo, lamentando questa occasione perduta: forse però era già troppo tardi, visto che questa strada era stata intrapresa, probabilmente definitivamente, alla fine del primo decennio del ventesimo secolo, quando le prime grandi case di produzione (inizialmente francesi, poi soprattutto americane) tolsero lo spazio alle sperimentazioni individuali e artistiche dei pionieri degli esordi. In ogni caso, anche se ciò che "Un cane andaluso" ci mostra può apparirci onirico, stravagante, come un sogno (e molte delle immagini sono state suggerite a suggerite a Buñuel e Dalì proprio dai loro sogni: non sono mancate, di conseguenza, le interpretazioni psicanalitiche, soprattutto in chiave freudiana), in realtà il regista si è premurato di affermare in seguito che il film "non è la descrizione di un sogno". In effetti Buñuel ha sempre insistito sul lato ideologico e morale del surrealismo rispetto a quello puramente onirico («Nulla, nel film, simboleggia qualcosa. L'unico metodo di investigazione dei simboli può essere, forse, la psicanalisi»). Dopo tutto, «ciò che vi è di più meraviglioso nel fantastico – ha detto André Breton – è che il fantastico non esiste, tutto è reale». Lo dimostra l'attenzione che, sia nella sceneggiatura sia nella pellicola finale, è rivolta agli oggetti, ai luoghi, ai personaggi, alle situazioni, che ricorrono, si rispecchiano e danno l'impressione di essere stati studiati in modo ben preciso; che non si tratti cioè dell'accostamento random di elementi tanto per far numero, dove una cosa vale l'altra o potrebbe essere sostituita da qualsiasi altra, come invece capita, ed è capitato, anche in tempi recenti, nel cinema post-moderno (che infatti, una volta che si acquisisce la consapevolezza di questa sua natura, dà più fastidio che altro).

Il film racconta una storia d'amore. Nel prologo ("C'era una volta..."), un uomo (interpretato dallo stesso Buñuel), con un rasoio, taglia in orizzontale l'occhio di una ragazza, seduta e impassibile, proprio mentre una nuvola fa lo stesso con la Luna nel cielo. Innumerevoli sono state le interpretazioni di questa celeberrima prima scena: a me piace pensare al regista che incide con la propria opera lo sguardo dello spettatore, o forse lo stesso schermo cinematografico, illuminato dalla luce del proiettore. "Otto anni più tardi" un giovane (un uomo vestito con un grembiule femminile) percorre a bordo di una bicicletta le strade vuote di una città. Una donna, dalla finestra del proprio appartamento, assiste alla sua caduta, lo soccorre e lo porta in casa propria. Dispone sul letto i suoi vestiti e la scatola che portava a tracolla. Da un buco sulla mano dell'uomo escono delle formiche (il "formicolio" dell'amore?). All'esterno, una folla si raduna attorno a una mano mozzata, in mezzo alla strada. La mano viene consegnata dalla polizia a una giovane donna efebica (Fano Messan), che si perde in estasi ed è poi travolta da una macchina. Nell'appartamento scoppia la passione, o meglio il desiderio dell'uomo verso la donna. Questa si protegge dai suoi assalti brandendo una racchetta da tennis, appesa alla parete, come un crocifisso. E i sensi di colpa, ovviamente di ispirazione cristiana, si manifestano sotto forma di due corde con cui l'uomo trascina a fatica, dietro di sé, due preti (uno dei quali è interpretato da Dalì in persona), le tavole dei dieci comandamenti (!) e due pianoforti a coda (!) contenenti le carcasse di due asini in putrefazione (!). La donna si rifugia nella stanza da letto, dove la sua immaginazione "ricrea" il giovane a partire dai vestiti che aveva appoggiato sul letto. "Verso le tre del mattino" l'uomo, o meglio la sua "metà cattiva", frutto di una scissione, punisce il giovane, come mettendolo in castigo (e il ritorno all'infanzia è sottolineato, oltre da un'altra didascalia, "Sedici anni prima", dalla presenza del banco di scuola, sporco e disordinato). I due libri scolastici si trasformano in rivoltelle, con cui il giovane uccide la sua metà adulta. Questi precipita fuori dalla finestra, è raccolto e portato via da alcuni passanti. La donna e il giovane possono "consumare" (Eros e Thanatos si fondono: una farfalla con un teschio sul dorso, la bocca dell'uomo che scompare, sostituita dai peli dell'ascella di lei), si ritrovano a camminare lungo la spiaggia, rinvengono la cassetta di legno ormai distrutta (e i vestiti rovinati). Infine, "in primavera", i loro corpi sono semi-sepolti nella sabbia e divorati dagli insetti.

Girata in soli dieci giorni nel marzo del 1928, grazie a un finanziamento della madre del regista (e quando il denaro terminò, Don Luis dovette completare il montaggio personalmente nella propria cucina, senza poter ricorrere a una moviola o ad altre apparecchiature), la pellicola venne accolta con notevole successo a Parigi, dove Buñuel e Dalì si erano trasferiti nel 1925, unendosi al gruppo dei surrealisti di Breton. Fra gli spettatori illustri presenti alla "prima" c'erano, fra gli altri, Jean Cocteau, Pablo Picasso e Le Corbusier. Ma il film fu amato anche da quel pubblico "borghese" che il regista voleva invece provocare, traumatizzare e sconvolgere, al punto da fargli dichiarare, deluso di questo successo: «Cosa posso fare per le persone che adorano tutto ciò che è nuovo, anche quando va contro le loro convinzioni più profonde, o per la stampa insincera e corrotta e il gregge insensato che ha visto la bellezza o la poesia in qualcosa che in fondo non era altro che una disperata e appassionata richiesta di omicidio?». Fra gli entusiasti ci furono i visconti Charles e Marie-Laure de Noailles, che si offrirono di finanziare il lavoro successivo di Buñuel e Dalì, "L'age d'or" (che inizialmente avrebbe dovuto essere proprio un seguito di "Un chien andalou"). Non mancarono tuttavia spettatori indignati (anche per la fama del regista quale ateo e anticlericale) e richieste di censura o di divieto della pellicola. Inizialmente il film – che è muto – veniva proiettato accompagnato da musiche suonate dal vivo o con un grammofono. Soltanto nel 1960 Buñuel vi aggiungerà l'attuale colonna sonora, che comprende soprattutto brani del Liebestod dal "Tristano e Isotta" di Wagner, ma anche due tanghi argentini. Il titolo (traduzione in francese di "Un perro andaluz", una raccolta di scritti di Buñuel pubblicata nel 1927) può essere autobiografico: il "cane" sarebbe lo stesso regista. Fra gli aneddoti: l'occhio tagliato nel prologo è quello di un vitello (e non di una capra, come a lungo si è creduto: non che faccia qualche differenza). Nella pellicola ci sono riferimenti ai quadri di Vermeer, alle opere di Federico García Lorca (amico di Buñuel e Dalì, sin dai tempi in cui vivevano in Spagna) e a quelle di altri scrittori dell'epoca (si dice che le carcasse degli asini nei pianoforti rappresentino uno sberleffo verso "Platero e io" di Juan Ramón Jiménez). Vera pietra miliare del cinema (o almeno, di un certo tipo di cinema), il film è sempre entrato indelebilmente nelle menti, le memorie e le coscienze di cineasti e spettatori, influenzando, fra gli altri, molti registi di video musicali, per via del suo flusso di associazioni visive e tematiche.

28 marzo 2022

Noi siamo infinito (Stephen Chbosky, 2012)

Noi siamo infinito (The perks of being a wallflower)
di Stephen Chbosky – USA 2012
con Logan Lerman, Emma Watson, Ezra Miller
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Visto in TV (Prime Video).

Adolescente intelligente ma introverso, depresso e con tendenze suicide, Charlie (Logan Lerman) inizia il liceo senza amici e bullizzato dagli alunni più grandi. Ma tutto cambia quando conosce lo spigliato Patrick (Ezra Miller) e la sua sorellastra Sam (Emma Watson), studenti dell'ultimo anno, che lo introducono nella loro cerchia. Grazie ai nuovi amici, peraltro non esenti a loro volta da problemi e tormenti, Charlie uscirà dal guscio e saprà fare in qualche modo i conti con un tragico passato. Dal suo omonimo romanzo, Chbosky scrive e dirige una storia di coming-of-age che parte come una commedia scolastica adolescenziale ma si fa quasi subito dark ed esistenziale, mostrando il lato più oscuro dei personaggi e del loro difficile passaggio verso l'età adulta, fra piccoli e grandi drammi che solo il sostegno reciproco può aiutare a superare. L'amicizia con Patrick e l'amore verso Sam accompagnano Charlie durante il primo anno di liceo, insieme alle vicende scolastiche (la passione per la letteratura, incoraggiata dal professore di inglese), quelle famigliari (i rapporti con i fratelli) e ai traumatici ricordi del passato. Strutturata come un romanzo epistolare (Charlie scrive a un amico senza nome, raccontandogli le proprie vicende), la pellicola è ambientata all'inizio degli anni Novanta ed è accompagnata da una bella colonna sonora a base di rock (dove spicca "Heroes" di David Bowie, il brano che gli amici ascoltano mentre passano in macchina attraverso il tunnel) e da vari riferimenti culturali (come il "Rocky Horror Picture Show", alle cui rappresentazioni "dal vivo" – simbolo di apertura alla diversità e alla consapevolezza di sé stessi – il gruppo di amici partecipa in costume). Bravo e intenso il cast di giovani attori: Lerman e Miller sono ottimi, la Watson sorprende in un ruolo al di fuori della bolla di Harry Potter. Il titolo italiano è forse un po' troppo "mocciano" (o "mucciniano"?), ma si rifà alla battuta finale del film.

26 marzo 2022

A Bug's Life (John Lasseter, 1998)

A Bug's Life - Megaminimondo (A Bug's Life)
di John Lasseter [e Andrew Stanton] – USA 1998
animazione digitale
**

Rivisto in TV (Disney+).

Per affrontare le terribili cavallette che alla fine della stagione torneranno a reclamare tutto il cibo che la colonia ha faticosamente radunato, la formica Flik assolda una compagnia di insetti circensi, erroneamente convinto che si tratti di guerrieri. Ma grazie alla propria inventiva, all'amicizia e al concetto che l'unione fa la forza (le formiche, anche se più deboli, sono infatti più numerose delle cavallette!), riuscirà a scacciare i nemici e a salvare il formicaio. Il secondo lungometraggio della Pixar (dopo "Toy story") è una rilettura de "I sette samurai" di Kurosawa (mescolata con la fiaba di Esopo sulla cicala e la formica), sufficientemente simpatica, anche se il passo indietro rispetto al film precedente in termini di profondità della trama e caratterizzazione dei personaggi è indubbio. Si tratta infatti del titolo meno memorabile della prima ondata di capolavori animati della Pixar, tanto da sfigurare persino al confronto con "Z la formica", il film con cui la DreamWorks si affacciò, lo stesso anno, al mondo dell'animazione digitale. I personaggi sono piatti e stereotipati, la storia alquanto generica, le svolte prevedibili, e persino il livello tecnico dell'animazione, peraltro assai elevato per l'epoca, non stupisce più di tanto. La scelta di usare gli insetti fu fatta perché si trattava di personaggi alquanto semplici da realizzare a livello di disegno e di movimenti, in un momento in cui l'animazione digitale non consentiva ancora di rappresentare personaggi umani in maniera convincente. Stupidissimo il (sotto)titolo italiano. Nei titoli di coda, per la prima volta in un film Pixar, appaiono i cosiddetti bloopers, ovvero i ciak sbagliati, scene in cui gli "attori" del film sbagliano le loro battute, inciampano o scoppiano a ridere: una trovata che si ripeterà in alcune delle pellicole successive, ispirata a quelle, analoghe, che comparivano nei film di Jackie Chan.

25 marzo 2022

Anch'io posso (Abbas Kiarostami, 1975)

Anch'io posso (Man ham mitounam)
di Abbas Kiarostami – Iran 1975
**1/2

Visto su YouTube, in originale.

In questo altro cortometraggio (dura tre minuti e mezzo) realizzato per l'Istituto per lo Sviluppo Intellettuale dei Bambini e degli Adolescenti, Kiarostami non sceglie apparentemente un approccio educativo o pedagogico, ma si limita a mostrare ad ampio raggio la forza dell'immaginazione di un piccolo scolaro. Quando la maestra, infatti, gli proietta un cartone animato che mostra il movimento di diversi animali (si comincia con un canguro che procede a balzi; seguono poi un bruco che striscia, un topolino, un cavallo al galoppo, un pesce che nuota, una scimmietta che penzola dai rami di un albero), il bambino risponde dopo ogni scena "Anch'io posso farlo!". E infatti assistiamo al piccolo protagonista che imita i vari animali, riproducendone il comportamento e i movimenti. L'ultimo animale mostrato nel cartone animato, però, è un piccione che vola. E il bambino rimane perplesso, rendendosi conto di non poterlo imitare. La pellicola su conclude mostrando, in dissolvenza incrociata sul suo volto, l'immagine di un aereo in volo. Come detto, stavolta non c'è un messaggio morale esplicito: forse quello di conoscere e comprendere i propri limiti? La cosa, però, non impedisce di sognare, anche perché l'ingegno umano (che ha prodotto appunto gli aeroplani) forse riuscirà sempre in qualche modo ad aiutarci a realizzare i nostri sogni. In fondo il progresso tecnologico può essere visto proprio come il tentativo dell'uomo adulto di rispondere ai desideri e agli impulsi dell'infanzia, e in quanto tale ha una componente ludica che chiunque abbia lavorato in un progetto di ricerca conosce bene. Un bambino, di fronte alla natura e agli animali, mostrerà sempre uno stupore e un desiderio di farne parte, di condividerne le qualità e le caratteristiche: e solo un adulto che non perderà del tutto tale impulso potrà far progredire la specie umana. Da notare le sequenze a cartoni animati, realizzate appositamente: l'istituto Kanun, infatti, aveva al suo interno anche un dipartimento di animazione.

24 marzo 2022

Due soluzioni per un problema (A. Kiarostami, 1975)

Due soluzioni per un problema (Dow rahehal baraye yek masaleh)
di Abbas Kiarostami – Iran 1975
con Sahid, Hamid
***

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli.

Prima di diventare un regista apprezzato nei maggiori festival internazionali, Abbas Kiarostami ha lavorato per il Kanun, l'Istituto per lo Sviluppo Intellettuale dei Bambini e degli Adolescenti, di cui è stato il responsabile del dipartimento cinematografico. Per l'istituto ha realizzato una serie di pellicole, documentari e cortometraggi con finalità educative, che gli hanno dato la possibilità di sperimentare la propria tecnica, di imparare a dirigere gli attori (a cominciare dai bambini) e di raccontare storie senza l'assillo dei risultati commerciali o delle imposizioni di regime. Uno dei primi cortometraggi è questo "Due soluzioni per un problema", ispiratogli da un episodio accaduto davvero a uno dei suoi figli a scuola. Protagonisti sono due piccoli amici, Nader e Dara: quando il secondo restituisce al primo il libro che gli aveva prestato, ma con la copertina strappata, comincia un'altalena di dispetti reciproci: in una vera e propria escalation, i due bambini si danneggiano a vicenda libri, cartelle, righelli e capi di vestiario (sembra di assistere a una comica di Stanlio e Ollio, con i due che fanno a turno a farsi degli sgarbi!), fino ad arrivare inevitabilmente a picchiarsi. Su una lavagna, si fa il riepilogo dei danni reciprocamente inflitti. Ma poi la storia ricomincia da capo, e si sviluppa in modo diverso: Dara aggiusta il libro danneggiato, incollando la copertina, e i due bambini rimangono amici. La voce narrante, che fino a lì aveva accompagnato lo svolgersi dell'azione, non fa alcuna morale: lascia che sia il (si presume) piccolo spettatore a trarre da sé le conclusioni, ovvero a quale delle "due soluzioni per un problema" sia meglio ricorrere in casi del genere. Ma osservando il film da un punto di vista cinematografico, è divertente notare come la prima "soluzione", quella del litigio, sia infinitamente più interessante e dinamica: senza di essa, senza lo sviluppo di un conflitto, e dunque senza il contrasto fra le due soluzioni, un eventuale cortometraggio che proponesse soltanto lo scenario conciliante e pedagogico risulterebbe blando e banale. È una piccola ma vera e chiarissima lezione su come costruire un plot accattivante! E nonostante la semplicità narrativa e la povertà di mezzi, è incredibile come un corto di poco più di quattro minuti sia capace di rimandare a mondi paralleli e storie a bivi (come "Sliding doors").

22 marzo 2022

Sedici anni

Oggi è il compleanno di questo blog. Sedici anni ininterrotti sono tanti, e i 237 film recensiti negli ultimi dodici mesi (con un calo fisiologico rispetto al record dell'anno precedente, che era frutto del lockdown da Covid-19) portano il totale a ben 4057: abbiamo dunque superato la barriera dei quattromila titoli! Ringrazio di cuore tutti i lettori, silenziosi o meno, che mi seguono in questo percorso. La pandemia con cui ci confrontiamo ormai da due anni ha cambiato tante abitudini, compresa la frequentazione delle sale cinematografiche: ho ricominciato ad andare al cinema solo sporadicamente, non certo con la frequenza con cui ci andavo in passato (in particolare ho rinunciato del tutto alle rassegne dei festival di Cannes e Venezia, preferendo recuperare gran parte delle novità attraverso visioni casalinghe e piattaforme di streaming), e infatti i film visti in sala in questo sedicesimo anno di blog sono stati soltanto 5. Le prime visioni sono state 188, i film rivisti 49. Nel corso dell'anno ho completato la filmografia di uno dei miei registi preferiti, Yasujiro Ozu. Non ci sono stati autori particolarmente frequentati negli ultimi dodici mesi: con quattro titoli ciascuno spiccano James Cameron, Segundo de Chomón, Werner Herzog e Hou Hsiao-hsien, seguiti da Fassbinder, Hitchcock, Kuleshov, Maggi, Scott, Shinkai, Siegel e i Wachowski con tre.

20 marzo 2022

Una notte all'opera (Sam Wood, 1935)

Una notte all'opera (A night at the opera)
di Sam Wood – USA 1935
con Groucho, Chico e Harpo Marx
***1/2

Rivisto in DVD.

L'impresario squattrinato Otis B. Driftwood (Groucho), il pianista Fiorello (Chico) e il trovarobe Tommaso (Harpo, "Tomasso" nell'originale inglese) uniscono le forze per aiutare il giovane tenore Riccardo Baroni (Allan Jones) e la ragazza da lui amata, la soprano Rosa (Kitty Carlisle), a trionfare in una recita del "Trovatore" al teatro dell'opera di New York, ai danni dell'antipatico rivale di Riccardo, lo sbruffone Rodolfo Lasparri (Walter Woolf King). Il primo film girato dai fratelli Marx per la Metro-Goldwyn-Mayer, dopo aver lasciato la Paramount, è forse il loro capolavoro insieme al precedente "La guerra lampo". Ma segna anche un certo cambio di registro nella loro cifra comica: l'anarchia folle e assoluta dei film precedenti, rivolta indifferentemente a 360°, lascia il posto a una maggiore organizzazione della materia trattata, dove le gag si appoggiano a una trama ben precisa e più convenzionale. Il produttore Irving Thalberg insistette infatti su una sceneggiatura più organica e calibrata, che rendesse chiaro come i tre fratelli (è il primo film senza il quarto, Zeppo, che peraltro aveva sempre avuto ruoli "minori") fossero i protagonisti positivi della vicenda. Anche se i loro sberleffi, come sempre, si prendono gioco di un ambiente sociale ben codificato (stavolta è il turno del pomposo mondo dell'opera lirica, in cui portano scompiglio e confusione), a farne le spese sono soprattutto un pugno di personaggi "negativi", i cattivi della storia, mentre le battute e gli sketch comici punteggiano una vicenda romantica a lieto fine (a suo modo persino prevedibile e in fondo non così interessante) che vede protagonisti i due giovani cantanti innamorati. Anche gli interludi musicali (Jones e Carlisle cantano "Alone" e "Così-cosà", Chico suona il piano e Harpo l'arpa a bordo del transatlantico che li sta portando dall'Europa in America, in una scena che ricorda quella analoga di "Monkey business") sembrano più integrati nella storia.

Ciò detto, il film può contare su alcune sequenze fra le più divertenti e le meglio costruite di tutta la filmografia dei Marx. Innanzitutto quella – scritta dal gagman Al Boasberg – della minuscola cabina della nave (già praticamente tutta occupata dal letto e da un baule) in cui viene assiepato un numero incredibile di persone: Driftwood, i tre clandestini Fiorello, Tommaso e Riccardo, due cameriere per rifare il letto, l'idraulico, la manicure, l'assistente dell'idraulico, un'altra passeggera che cerca "la zia Minnie" e vuole usare il telefono, la donna delle pulizie, e infine quattro steward con una montagna di cibo ordinato in precedenza ("e due uova molto sode!"), prima che l'arrivo della signora Claypool (Margaret Dumont), la ricca vedova corteggiata come sempre da Groucho, faccia rovesciare fuori tutti in maniera torrenziale. Poi c'è il surreale discorso dei tre finti aviatori barbuti davanti al municipio di New York ("Sentite come siamo arrivati con l'aereo in America: siamo partiti ed eravamo già a metà strada quando ci è finito il carburante e siamo tornati indietro. Abbiamo messo il doppio di carburante e stavolta stavamo per atterrare: mancava sì e no un metro quando ci siamo accorti che eravamo senza carburante, così siamo tornati di nuovo a prenderlo a casa. Poi certo che questa volta abbiamo fatto il pieno... e a metà strada non ci siamo accorti che per la fretta avevamo lasciato a casa l'aeroplano? Allora ci siamo seduti e ne abbiamo parlato un po'..."). E ancora: la lettura e la firma del contratto fra Groucho e Chico, durante la quale stralciano tutte le clausole, compresa la clausola sanitaria ("There ain't no Sanity Clause", commenta un disincantato Chico, contraddicendo il celebre editoriale del New York Sun, "Yes, Virginia, there is a Santa Claus"); la perquisizione del poliziotto Henderson (Robert Emmett O'Connor) in casa di Groucho, durante la quale i fratelli spostano alle sue spalle i mobili da una stanza all'altra; e naturalmente lo scompiglio durante la prima del "Trovatore", ai danni di Lasparri e del direttore del teatro Herman Gottlieb (Sig Ruman): dapprima i Marx sostituiscono lo spartito di Verdi con quello dell'inno del baseball "Take me out to the ball game", poi si introducono nella buca dell'orchestra, quindi sul palco (vestiti da gitani) e infine dietro le quinte, manipolando comicamente i fondali. Un remake (!) nel 1992, "Gli sgangheroni".

19 marzo 2022

The King's Man - Le origini (M. Vaughn, 2021)

The King's Man - Le origini (The King's Man)
di Matthew Vaughn – GB/USA 2021
con Ralph Fiennes, Harris Dickinson
**1/2

Visto in TV (Disney+).

A inizio Novecento, un misterioso individuo – noto solo come "il Pastore" – progetta di rovesciare le case regnanti d'Europa e di precipitare il continente nella guerra. Grazie ai suoi complici e alle sue pedine, fra le quali figurano Gavrilo Princip, Rasputin, Lenin e Mata Hari, riesce a scatenare il primo conflitto mondiale. Ad opporsi ai suoi piani, nel tentativo di salvare almeno la corona britannica, c'è il duca di Oxford (Ralph Fiennes), dichiarato pacifista, affiancato dal figlio Conrad (Harris Dickinson) e da una rete di domestici al servizio dei potenti della Terra che lavorano nell'ombra e gli passano informazioni riservate. Dopo un promettente inizio di carriera come regista, da un decennio Vaughn sembra ormai essersi impantanato nella saga della Kingsman, l'agenzia segreta di spie inglesi che si nascondono dietro un negozio di alta sartoria. Ciò detto, questo prequel che ne racconta la nascita, ambientato durante la grande guerra, nella sua retorica fumettosità è forse il capitolo migliore della serie. Fruibile a sé stante, divertente, più misurato, vanta almeno due/tre momenti davvero indovinati (lo scontro con Rasputin, personaggio sopra le righe che Rhys Ifans interpreta in maniera esilarante; e le sequenze in trincea durante la prima guerra mondiale, con un notevole colpo di scena). Il mix di storia vera, scene d'azione e spionaggio internazionale funziona meglio del previsto: e rispetto ai precedenti film, la collocazione temporale a inizio secolo rende la vicenda notevolmente più interessante. Anche se non è da prendere sul serio, il film riesce comunque a trasmettere emozioni e contemporaneamente a intrattenere a un livello superficiale. Ottima la regia e il cast, che comprende Gemma Arterton (la "tata" Polly), Djimon Hounsou (l'autista di colore Shola), Tom Hollander (in un triplo ruolo: re Giorgio V d'Inghilterra, il kaiser Guglielmo II e lo zar Nicola II), e ancora Daniel Brühl, Charles Dance, Matthew Goode, Stanley Tucci... Un po' fastidioso il turpiloquio, davvero eccessivo, nei dialoghi italiani. Gran parte delle riprese sono state effettuate a Torino e in generale in Piemonte.

17 marzo 2022

Drive my car (Ryusuke Hamaguchi, 2021)

Drive my car (id.)
di Ryusuke Hamaguchi – Giappone 2021
con Hidetoshi Nishijima, Toko Miura
***

Visto in TV (Now Tv).

Invitato a una rassegna teatrale a Hiroshima per mettere in scena uno "Zio Vanja", l'affermato regista Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima) si vede assegnare suo malgrado un'autista, la giovane Misaki (Toko Miura), affinché lo conduca ogni giorno dall'albergo alla sede del festival dove si svolgono le prove. Per l'uomo, abituato da sempre a guidare personalmente la sua vecchia Saab 900 rossa (e ad ascoltare in macchina le cassette con la voce della moglie Oto (Reika Kirishima), defunta due anni prima, che legge le battute del dramma), affidare sé stesso e la propria auto a qualcun altro è come aprire di nuovo la propria vita all'esterno. E proprio come il testo di Čechov "entra dentro il corpo e fa muovere l'anima", mettendo in contatto persone diverse che riescono a comprendersi andando al di là delle parole (il dramma viene recitato in lingue differenti per ciascun personaggio: c'è persino un'attrice muta, che parla la lingua dei segni), così anche il tempo trascorso in macchina con l'autista diventa una sorta di autoanalisi per superare le incomprensioni e i dolori delle tragedie del passato. Da un racconto di Haruki Murakami (contenuto nella raccolta "Uomini senza donne"), una pellicola lenta e stratificata, che si prende i suoi (giusti) tempi per approfondire personaggi e situazioni. Nonostante una punta di pretenziosità (l'intellettualismo, il fatto che i credits giungano dopo un preambolo di quaranta minuti), i personaggi risultano veri, reali e complessi, e i temi trattati sono metafore esistenziali che risuonano dentro. Yusuke, dopo la morte della moglie, non vuole più recitare perché lo Zio Vanja "è un testo che ha il potere di scatenare cose inaspettate. Čechov è terrificante, attraverso le sue battute fa emergere il tuo vero io". Per questo motivo affida la parte del protagonista a Takatsuki (Masaki Okada), giovane e problematico attore che ha avuto una relazione proprio con sua moglie Oto: un modo per liberarsi da questa consapevolezza, o per esorcizzare i sensi di colpa. Un altro rimpianto è quello legato alla morte della figlia, che se fosse viva avrebbe adesso la stessa età della sua giovane autista (la quale, a sua volta, ha un passato pieno di traumi: uno dei difetti di Murakami è sempre stato quello di sovraccaricare di spunti le sue storie, persino quelle brevi). Gli ambienti (Tokyo, Hiroshima, l'Hokkaido; l'albergo, la sala prove del teatro, l'interno della macchina) accolgono e ospitano i personaggi fondendosi con loro, come se ne facessero parte: e la regia, poco invadente, accompagna lo spettatore con delicatezza e sensibilità. Grande successo di critica, con premi piovuti da tutte le parti: fra questi, quello per la sceneggiatura a Cannes e ben quattro nomination agli Oscar (non solo per il miglior film straniero, ma anche per il film, la regia e la sceneggiatura non originale). Nel cast anche Jin Dae-Young (l'organizzatore del festival). Originariamente la storia avrebbe dovuto svolgersi in Corea: le riprese sono state spostate da Busan a Hiroshima per via della pandemia di Covid, di cui è rimasta traccia nella scena finale (in cui i personaggi indossano la mascherina).

15 marzo 2022

L'occhio del maligno (C. Chabrol, 1962)

L'occhio del maligno (L'œil du malin)
di Claude Chabrol – Francia 1962
con Jacques Charrier, Stéphane Audran, Walther Reyer
**1/2

Visto in TV (Netflix), in originale con sottotitoli.

Inviato in Germania per scrivere reportage di costume, il giovane e inesperto giornalista francese Albin Mercier (Jacques Charrier) scopre che nella villa accanto alla sua casa, nella campagna nei pressi di Monaco di Baviera, risiede Andreas Hartmann (Walther Reyer), scrittore di grande successo, con la moglie Hélène (Stéphane Audran). Attirato e affascinato dalla perfezione del loro rapporto e delle loro vite, comincia a frequentarli, diventandone amico. Ben presto si innamorerà della donna e diventerà geloso del successo e della felicità dell'uomo: felicità che contribuirà a distruggere, più o meno volontariamente... La colonna sonora di Pierre Jansen, continuamente e sottilmente inquietante, contribuisce alla sensazione di disagio di questo dramma psicologico, uno dei primi della carriera di Chabrol, costruito su soli tre personaggi (ma il punto di vista è sempre ed esclusivamente quello di Albin, del quale si esplorano i sentimenti contrastanti: l'ammirazione, la gelosia, l'invidia, la possessività, la consapevolezza della propria mediocrità). Il rapporto ambivalente fra Albin e Hartmann riflette quello fra le rispettive nazioni, Francia e Germania, un tempo nemiche e ora impegnate a costruire insieme una Nuova Europa. E naturalmente non manca una critica sociale allo stile di vita borghese, anche questo un elemento che diventerà caratteristico della filmografia del regista francese. La bella Audran, che era già apparsa in diversi film di Chabrol, ha qui per la prima volta un ruolo da protagonista: i due si sposeranno nel 1964. Il titolo può riferirsi genericamente allo sguardo curioso e geloso di Albin, con cui indaga nella vita della coppia, o specificamente all'obiettivo della macchina fotografica con cui documenta il tradimento di Hélène, che causerà la tragedia. Diverse scene si svolgono durante l'Oktoberfest.

14 marzo 2022

Moebius (Kim Ki-duk, 2013)

Moebius (Moebiuseu)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2013
con Seo Young-ju, Cho Jae-hyun, Lee Eun-woo
***

Visto in divx.

Folle di gelosia perché il marito (Cho Jae-hyun) ha un'amante (Lee Eun-woo), una donna (sempre Lee) evira con un coltello il figlio (Seo Young-ju) e poi fugge di casa. Scosso dai sensi di colpa, il padre vorrebbe trapiantare i propri genitali al ragazzo: e nel frattempo, scopre – e gli comunica – che è possibile comunque provare piacere sessuale attraverso il dolore. Il ragazzo userà questa informazione per iniziare una relazione proprio con l'amante del padre. E dopo l'operazione chirurgica, scoprirà di riuscire ad avere un'erezione soltanto di fronte alla madre, che nel frattempo è tornata a casa... Film originale e crudo, molto forte, fra i più estremi di un regista già estremo di suo, che per l'occasione sembra aver ritrovato almeno in parte la sua vena più personale e crudele, quella messa in mostra in pellicole come "L'isola", "Bad guy" o il precedente "Pietà", anche se rispetto ai lavori degli esordi l'insieme è meno lirico e poetico. L'intera pellicola è completamente priva di dialoghi, con i personaggi che si esprimono solo attraverso gesti e sguardi. Ma a renderla indimenticabile, naturalmente, sono soprattutto i contenuti, non privi di riferimenti alle tragedie greche (Edipo in testa) e alla mitologia (Urano). Passione e dolore, amore e incesto si fondono in una rapida successione di eventi che fanno continuamente avanzare la storia (le umiliazioni del ragazzo, bullizzato dai compagni di scuola e poi costretto a entrare in una gang di teppisti; il soggiorno in prigione; le ricerche del padre su internet a proposito dei trapianti di genitali; la relazione fra il ragazzo e l'amante del padre; la gelosia del padre di fronte al rapporto fra madre e figlio...). Il titolo, che fa riferimento al celebre nastro a una faccia, suggerisce l'intrecciarsi e il trasformarsi dei temi (indicativo il fatto che a interpretare la moglie e l'amante sia la stessa attrice, nonché l'immagine conclusiva del ragazzo che prega davanti a un Buddha nella vetrina di un negozio). La pellicola ha avuto forti problemi con la censura e sollevato polemiche in patria (l'attrice inizialmente scelta per la parte della madre ha accusato il regista di violenza psicologica).

12 marzo 2022

West Side Story (Steven Spielberg, 2021)

West Side Story (id.)
di Steven Spielberg – USA 2021
con Ansel Elgort, Rachel Zegler
**

Visto in TV (Disney+).

Nel West Side newyorkese, durante gli anni Cinquanta, due bande giovanili (i Jets, bianchi, e gli Sharks, immigrati portoricani) si contendono un territorio in rovina, un pugno di isolati soggetti allo sgombero o alla demolizione. Nemmeno l'amore fra Tony (Elgort) e Maria (Zegler) potrà impedire che il circolo dell'odio e della vendetta sfoci in tragedia. Nuova versione cinematografica del celebre (e bellissimo) musical di Leonard Bernstein (con testi di Stephen Sondheim), rilettura quasi esplicita di "Romeo e Giulietta", questo film è forse un esempio perfetto di remake del tutto inutile: non solo non innova praticamente nulla rispetto alla pellicola di Robert Wise del 1961, di cui riprende mood, messa in scena e persino coreografie (tanto da rendere obbligatorio accreditare nei titoli di coda il coreografo originale, Jerome Robbins, al fianco di quelli moderni), ma risulta anche inferiore a essa sotto ogni aspetto, a partire dagli interpreti (meglio comunque la Zegler, che almeno sa cantare, del mediocre Elgort). Nonostante il regista dal nome importante, dunque, non c'è praticamente nessun motivo per preferire la visione di questa versione rispetto a quella di sessant'anni prima. Anziché attualizzare l'ambientazione (sarebbe stata un'idea niente male), il film riprende il setting degli anni '50 dell'originale, enfatizzando quanto meno l'aspetto del conflitto razziale, che risulta così predominante rispetto alla trama romantica o al tema della delinquenza giovanile. Fra una canzone e l'altra, lo sceneggiatore Tony Kushner aggiunge lunghi e inutili dialoghi che suonano però didascalici, fasulli o fuori registro rispetto al resto (non mancano anacronismi, anche per colpa del doppiaggio italiano, con termini come "eyeliner" o "distruzione reciproca assicurata" che mai avrebbero potuto essere usati da teenager degli anni Cinquanta) e soprattutto che fanno smarrire l'organicità dell'insieme, scollegando le parti musicali le une dalle altre. A tratti si ha addirittura l'impressione che al film interessino poco le canzoni, tanto che per paradosso potrebbero essere eliminate e la trama avrebbe ancora senso. Da notare come (non una o due, ma almeno una decina di volte!) i personaggi portoricani si dicano per i motivi più svariati che non devono parlare fra loro in spagnolo, come se i cineasti volessero giustificarsi davanti al pubblico (che paranoia!) del fatto che parlino e cantino in inglese. Per chi non avesse visto il film di Wise, comunque, la visione può risultare piacevole, visto che le canzoni ovviamente sono sempre molto belle, da "America" a "Tonight", da "Maria" a "Somewhere". Quest'ultima non è cantata da Tony e Maria, ma da un personaggio introdotto appositamente (e che sostituisce Doc), Valentina, proprietaria del negozio dove lavora Tony e interpretata da Rita Moreno, che nel film del 1961 era Anita. Ampliato anche lo spazio per il tenente Schrank (Corey Stoll) e per l'agente Krupke (Brian d'Arcy James). Ariana DeBose è Anita, Mike Faist è Riff, David Alvarez è Bernardo, Josh Andrés Rivera è Chino. Sette nomination agli Oscar (fra cui quelle per il film, la regia e la fotografia).

10 marzo 2022

Intervento divino (Elia Suleiman, 2002)

Intervento divino (Yadon ilaheyya)
di Elia Suleiman – Palestina/Francia 2002
con Elia Suleiman, Manal Khader
***

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli.

Un uomo vestito da Babbo Natale scappa per le colline attorno a Nazareth, inseguito da un gruppo di ragazzi. Un nocciolo di albicocca, gettato dal finestrino di un'automobile, fa esplodere un carro armato. Un palloncino rosso con il volto di Yasser Arafat cerca di passare attraverso un posto di blocco sulla strada fra Ramallah e Gerusalemme. Una ninja (!) palestinese sgomina con i suoi poteri magici un plotone di soldati israeliani. Sono alcune delle vignette più memorabili di un film surreale e sorprendente, un insieme di gag che raccontano a modo loro le tensioni fra israeliani e palestinesi. Lo stile ricorda quello di alcuni registi "nordici" (come Roy Andersson, soprattutto, o Aki Kaurismäki): comicità deadpan, basata sulla ripetizione, sugli sguardi inespressivi, sul ritmo lento e sulla scarsità di parole. Nella prima parte assistiamo ai litigi, ai dispetti, ai problemi di vicinato fra gli abitanti di una strada di Nazareth. Fra questi c'è il padre (Nayef Fahoum Daher) del protagonista (il regista Elia Suleiman, che di fatto interpreta sé stesso: spesso lo vediamo organizzare i post-it attaccati a un muro, con l'ordine delle sequenze e degli sketch del film, a volte introdotti da un breve titoletto, il primo dei quali – "Una cronaca d'amore e di dolore" – può essere applicato all'intera pellicola), padre che a un certo punto verrà ricoverato in ospedale per un malore. Oltre a recarsi spesso a trovarlo, Suleiman si incontra di frequente con la sua fidanzata (Manal Khader) nel parcheggio dietro il suddetto posto di blocco, dove i due rimangono immobili in macchina (solo le loro mani si toccano e si accarezzano), osservando le "prepotenze" dei soldati israeliani nei confronti degli autisti palestinesi. E forse molte delle sequenze più assurde sono frutto soltanto della loro immaginazione, come quella in cui il semplice passaggio di una bella donna (sempre Khader) fa crollare la torretta. Si percepisce tutta l'assurdità della guerra e della situazione in Medio Oriente, dove le tensioni si riflettono nei litigi fra i vicini (chi battibecca per la larghezza di una strada secondaria; chi perché il vicino getta la spazzatura nel proprio cortile), in comportamenti assurdi (chi aspetta l'autobus dove non passa mai), in paradossi (una turista che continua a perdersi chiede indicazioni a un poliziotto, che la rimanda al prigioniero nella sua vettura). E l'ultima inquadratura è quella di una pentola a pressione, sul fornello: che stia per scoppiare? In questa situazione, due amanti (o anche due estranei) non possono che dirsi "Sono pazzo perché ti amo". Vincitore del premio della giuria a Cannes, il film – che Suleiman ha dedicato alla memoria del padre – è stato il primo candidato della Palestina all'Oscar per il film straniero.

9 marzo 2022

Le piace Brahms? (Anatole Litvak, 1961)

Le piace Brahms? (Goodbye again)
di Anatole Litvak – USA/Francia 1961
con Ingrid Bergman, Yves Montand, Anthony Perkins
**1/2

Visto in divx.

Paula (Ingrid Bergman), arredatrice d'interni, quarantenne e divorziata, ha una relazione che si trascina da cinque anni con Roger (Yves Montand), commerciante dongiovanni che non ha nessuna intenzione di sposarla, anche perché ama sentirsi libero di vivere numerose altre scappatelle, sapendo però di poter sempre tornare da lei. Quando la donna comincia a essere corteggiata da Philip (Anthony Perkins), l'irrequieto e perdigiorno figlio venticinquenne di una sua ricca cliente (Jessie Royce Landis), comincia a mettere in discussione la propria vita... Dal romanzo "Aimez-vous Brahms?" di Françoise Sagan, un (melo)dramma sentimentale ed esistenziale che si regge soprattutto sulla bravura dei tre interpreti, oltre che sullo sfumature psicologiche di personaggi prigionieri dei propri ruoli, confusi nei propri sentimenti, in cerca di un'impossibile felicità e ossessionati dall'età (c'è chi vuole essere più giovane, come Roger, e chi vuole essere più vecchio, come Philip). È un film di sentimenti incerti e maturi al tempo stesso, che l'ambientazione parigina ammanta di fascino e intellettualismo, facendolo forse sembrare più profondo di quanto non sia (la storia è in realtà molto lineare e, in fondo, prevedibile). Il malinconico finale, che richiama l'incipit, mostra che non è cambiato nulla, se non una consapevolezza più acuta e triste della vecchiaia e dell'importanza di un legame anche fragile per vincere la solitudine (tutto il contrario, dunque, dell'idealizzazione dell'amore). La frase del titolo, gettata lì con nonchalance da Philip per invitare Paula a un concerto, è un modo per chiedere alla donna se ama davvero il suo compagno. E proprio la musica di Brahms (in particolare il bellissimo ed espressivo terzo movimento della terza sinfonia) ricorre più volte, arrangiata in modi diversi (diventa persino una canzone jazz!), per l'intera pellicola. Il doppiaggio italiano modifica il nome di Roger Demarest in Renzo Demarco.

8 marzo 2022

Bill & Ted face the music (D. Parisot, 2020)

Bill & Ted Face the Music (id.)
di Dean Parisot – USA 2020
con Keanu Reeves, Alex Winter
**

Visto in TV (Prime Video).

Venticinque anni dopo il loro trionfale concerto alla "Battaglia dei complessi", non solo Bill (Winter) e Ted (Reeves) non hanno sfondato (come sembrava dai titoli di coda di "Un mitico viaggio"), ma i Wyld Stallyns si sono sciolti e i due ragazzi – ormai uomini adulti – non sono mai riusciti a scrivere la canzone che, secondo la previsione dell'ormai defunto Rufus (George Carlin, che appare in una breve scena sotto forma di ologramma), avrebbe dovuto unire tutta l'umanità. Dal futuro giunge la figlia di Rufus, Kelly (Kristen Schaal), per metterli in guardia: se non scriveranno e suoneranno la canzone entro il pomeriggio, l'intera realtà spazio-temporale collasserà su sé stessa. Grazie alla solita macchina del tempo, i due amici inizieranno a viaggiare nel futuro, cercando il momento in cui avranno già scritto la canzone: incontreranno così diverse versioni di sé stessi, sempre più bizzarre e originali. Contemporaneamente, le loro figlie – Theadora "Thea" Preston (Samara Weaving) e Wilhelmina "Billie" Logan (Brigette Lundy-Paine) – viaggiano nel passato per "reclutare" alcuni dei più famosi musicisti e riformare così la band: Jimi Hendrix, Louis Armstrong, Wolfgang Amadeus Mozart, Ling Lun (flautista cinese del 2600 a.C.) e Grom (una batterista preistorica). Saranno tutti uccisi da Dennis Caleb McCoy (Anthony Carrigan), terminator-robot cattivo inviato dalla Grande Leader del futuro (Holland Taylor), e si ritroveranno così all'inferno, da cui però evaderanno grazie a una vecchia amica, la Morte (William Sadler), che riprenderà a sua volta il proprio posto come bassista nella band... Terzo capitolo, realizzato a quasi trent'anni di distanza dai precedenti, di una saga comico-musicale-fantascientifica che in Italia è sempre passata sotto silenzio (il primo film, "Bill & Ted's Excellent Adventure", non è nemmeno mai stato doppiato nella nostra lingua!). L'impressione è quella di una reunion nostalgica, rispettosa, a tratti anche divertente, ma forse non necessaria: riprende elementi dalle prime due pellicole (rispettivamente i viaggi nel tempo e quelli nell'aldilà), ripercorre territori già noti, gioca con le aspettative dei fan ma fa poco per accattivarsi l'interesse dei neofiti. Oltre a Reeves, Winter e Sadler, si rivedono altri attori dei primi due film, come Hal Landon Jr. (il padre di Ted) e Amy Stoch (Missy, che stavolta sposa il fratello minore di Ted), mentre le principesse Joanna ed Elizabeth sono interpretate stavolta da Jayma Mays ed Erinn Hayes. Fra i camei: il rapper Kid Cudi e il rocker Dave Grohl. La sceneggiatura è sempre di Chris Matheson ed Ed Solomon. In positivo: le due figlie dei nostri eroi, di fatto la loro versione femminile (e "smart"). In negativo: la mancanza di interazione dei personaggi storici fra di loro e con il mondo moderno, ma soprattutto il passo indietro a livello di colonna sonora (il che, in un film incentrato proprio sulla musica, è un difetto non da poco). Il doppiaggio italiano annacqua e banalizza il linguaggio sgangherato dei personaggi.

6 marzo 2022

Lanterne rosse (Zhang Yimou, 1991)

Lanterne rosse (Da hong deng long gao gao gua)
di Zhang Yimou – Cina/Hong Kong 1991
con Gong Li, He Saifei
***

Rivisto in divx.

Alla morte del padre, la diciannovenne Songlian (Gong Li) è costretta ad abbandonare gli studi universitari per sposare il ricchissimo aristocratico Chen Zuoqin (Ma Jingwu), di cui diventa la quarta moglie, praticamente una concubina. Si trasferisce così nel suo enorme palazzo, e si ritrova imprigionata in un mondo fuori dal tempo, dominato da antiche regole di famiglia, tradizioni e consuetudini: fra queste, quella che prevede che ogni giorno i servi del palazzo accendano delle enormi lanterne rosse davanti all'appartamento della moglie con la quale il padrone trascorrerà la notte. Naturalmente fra le quattro donne si innesca una ragnatela di gelosie e rivalità, intrighi e complotti, con le diverse "signore" pronte a tutto pur di guadagnarsi i favori dell'uomo. Da un romanzo ("Mogli e concubine") di Su Tong, ambientato negli anni Venti del ventesimo secolo (il periodo della storia cinese noto come "dei signori della guerra"), uno dei film più celebri della cinematografia cinese, che insieme ad altri lavori coevi ("Ju Dou", "La storia di Qiu Ju") ha lanciato la carriera del regista Zhang Yimou e della sua musa, la bellissima Gong Li. E la prospettiva tutta femminile di un mondo rigido e governato da regole arcaiche e patriarcali (il padrone si intravede solo di sfuggita, spesso da lontano o fuori inquadratura), che costringe le donne a tradirsi a vicenda anziché a sviluppare solidarietà (sia fra di loro, sia attraverso le diverse classi, per esempio nel rapporto fra Songlian e la serva Ya), può essere interpretata in maniera letterale o come una sorta di critica verso la Cina contemporanea, il che spiega perché la censura di stato, pur avendo approvato la sceneggiatura, abbia vietato la pellicola per un certo periodo. Jin Shuyuan è la "prima signora", ormai vecchia, stanca e trascurata. Cao Cuifen è la "seconda signora", all'apparenza amichevole verso la nuova arrivata ma in realtà infida e traditrice. He Saifei è la "terza signora", un'ex cantante lirica che in un primo momento sembra ostile a Songlian ma con cui poi la ragazza stringe un sodalizio. Kong Lin, infine, è la servetta Ya, cameriera personale di Songlian ma gelosa di lei. Suggestiva la location, un enorme complesso di palazzi, cortili e corridoi di pietra (il film è stato girato nel complesso residenziale della famiglia Qiao, nella prefettura di Jinzhong) che fanno da sfondo al mutare delle varie stagioni (estate, autunno, inverno...). Candidato all'Oscar come miglior film straniero (per Hong Kong, però, non per la Cina), venne battuto da "Mediterraneo".

4 marzo 2022

Belfast (Kenneth Branagh, 2021)

Belfast (id.)
di Kenneth Branagh – GB 2021
con Jude Hill, Caitríona Balfe, Jamie Dornan
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Marisa e Licia.

I disordini del 1969 in Irlanda del Nord visti attraverso gli occhi di un bambino di nove anni, Buddy (Jude Hill), testimone degli scontri fra protestanti e cattolici che hanno insanguinato il paese. Buddy abita con la famiglia (protestante e di classe operaia) in una strada di Belfast dove fino ad allora avevano convissuto famiglie di entrambe le religioni. Gli scontri e il clima sempre più teso costringeranno però il padre (Jamie Dornan), che già lavora spesso in Inghilterra, a prendere la decisione di trasferirsi definitivamente a Londra con la famiglia. Praticamente autobiografico (come Buddy, Branagh è nato a Belfast nel 1960 e si è trasferito in Inghilterra con i genitori quando aveva nove anni), il film trasfigura la realtà attraverso la lente dei ricordi, della nostalgia e dell'immaginazione: le amicizie, i giochi, la cotta per una compagna di scuola, i rapporti con i genitori e con i nonni (Ciarán Hinds e Judi Dench), la passione per il cinema fanno da contorno alla dura situazione che mette le famiglie le une contro le altre e costringe a ergere barricate all'ingresso delle strade. Girato in bianco e nero (con occasionali inserti colorati, alla "Heimat"), il film contestualizza la vicenda facendo ampio uso di riferimenti culturali, anch'essi che pescano dai ricordi d'infanzia: i film visti al cinema in quegli anni, come "Che fine ha fatto Liberty Valance", "Mezzogiorno di fuoco" (la cui canzone "Do not forsake me, oh my darling" fa da sfondo anche allo showdown – proprio in stile western – fra il padre di Buddy e il lealista cattivo (Colin Morgan) davanti al supermercato del quartiere), "Un milione di anni fa", "Citty Citty Bang Bang"; le serie tv come "Star Trek" e "Thunderbirds"; e naturalmente l'evento principale di quei mesi, ovvero lo sbarco sulla Luna, che domina incontrastato nell'immaginario di bambini (e adulti). Peccato però che gran parte della sceneggiatura risulti ovvia e didascalica, e che, pur nel comprensibile intento di non travisare, banalizzare o spettacolarizzare l'argomento, si faccia fatica a farsi coinvolgere o a stabilire un legame emotivo con i personaggi (a parte il bambino). Forse è un difetto insito nell'aver scelto il punto di vista di Buddy, che solo a tratti percepisce che ci siano problemi (non solo i "Troubles", ma anche le difficoltà economiche della famiglia, i rapporti con i vicini, i problemi di salute del nonno). E tutto si svolge in un piccolo ambiente, una strada e un quartiere, che come un microcosmo rispecchiano una realtà più grande da cui bisogna scegliere se fuggire o meno (la dedica finale è "A coloro che sono fuggiti, a coloro che sono rimasti, e a coloro che si sono persi"). Colonna sonora di Van Morrison. Sette nomination agli Oscar, comprese quelle per il miglior film, la regia e la sceneggiatura. Sciatto l'adattamento italiano, che lascia in inglese senza un motivo (e senza sottotitoli) spezzoni di film e canzoni i cui testi sono invece importanti nel contesto.

2 marzo 2022

Bigbug (Jean-Pierre Jeunet, 2022)

Bigbug (id.)
di Jean-Pierre Jeunet – Francia 2022
con Elsa Zylberstein, Isabelle Nanty
**

Visto in TV (Netflix).

Nel 2045 la vita domestica è completamente automatizzata. Quando le macchine si ribellano, perché il sistema centrale è giunto alla conclusione che gli esseri umani sono ormai "superati", i membri di una famiglia si ritrovano imprigionati nella loro stessa casa. Per fortuna ad aiutarli ci saranno i loro androidi domestici che, essendo modelli "antiquati" (e con il desiderio di essere "umani" a loro volta), non sono ostili come quelli più avanzati. Distopia fantascientifica colorata e farsesca, con un approccio comico che stona un po' con il messaggio (qualunquista) di fondo. Siamo lontani dall'ironia malinconica con cui lo stesso argomento veniva affrontato da Jacques Tati in "Mio zio". Questo, invece, è quasi un cartone animato parodistico, con personaggi-macchietta, tentativi goffi di umorismo e riflessione su come gli elettrodomestici e gli apparecchi elettronici sempre più sofisticati stiano prendendo il controllo del nostro tempo e delle nostre vite (ed eliminando progressivamente la "vecchia cultura"). C'è un accenno (umoristico) anche al lockdown causato dalla pandemia di Covid. Ambientato completamente all'interno di una casa (una villetta di periferia dai colori pastello, come una casa di bambole), mette in scena una serie di personaggi imprigionati nei loro ruoli: la casalinga frustrata Alice (Elsa Zylberstein), il suo ex marito Victor (Youssef Hajdi) con la nuova fidanzata ochetta Jennifer (Claire Chust), la figlia ribelle Nina (Marysol Fertard), lo spasimante Max (Stéphane De Groodt) con il figlio adolescente Léo (Hélie Thonnat) e la vicina di casa Françoise (Isabelle Nanty). Fra i robot domestici (che sognano di avere un'anima), hanno un volto umano la cameriera Monique (Claude Perron) e il personal trainer Greg (Alban Lenoir), mentre le inquietanti fattezze dei robot cattivi (denominati Yonyx) sono tutte di François Levantal. All'esterno il mondo è dominato da invadenti pubblicità e da una burocrazia centralizzata, mentre in televisione impazza un "reality show" in cui i robot mettono in ridicolo gli esseri umani. Satira sociale, dunque, ma di basso livello e che diverte solo a intermittenza.