20 ottobre 2008

WALL-E (Andrew Stanton, 2008)

WALL-E (id.)
di Andrew Stanton – USA 2008
animazione digitale
***1/2

Visto al cinema Uci Bicocca, con Albertino e altra gente.

Ricordo che anni fa, quando "Il re leone" vinse l'Oscar per la miglior colonna sonora, sentii un (sedicente) critico cinematografico – che stava commentando i film premiati su un canale televisivo locale – sentenziare con sufficienza che quel premio era "un contentino dato ai bambini" e che "il cinema d'animazione non è nemmeno vero cinema". Chissà se quell'inetto ha cambiato opinione, ora che da qualche anno a questa parte proprio alcuni cartoni animati si ritrovano regolarmente fra i migliori film dell'annata, talvolta addirittura al primo posto. L'ennesimo capolavoro della Pixar è una pellicola che ci porta di quasi un migliaio di anni nel futuro, su un pianeta Terra ormai disabitato, distrutto dal consumismo e invaso dalla ruggine e da montagne di rifiuti. Il robottino Wall-E, l'unico ancora funzionante fra i tanti compattatori di rottami che avevano il compito di "fare pulizia", prosegue indefesso il proprio lavoro e nel frattempo ha sviluppato una coscienza, una passione per il modernariato e soprattutto la speranza di trovare, prima o poi, un'anima gemella. Il che puntualmente si verifica quando sul pianeta giunge un altro essere artificiale, la sofisticatissima e ultra-tecnologica Eve, alla ricerca di una forma di vita vegetale... Se i primi trenta-quaranta minuti di film, praticamente muti e con i due robottini che comunicano i propri sentimenti soltanto attraversi segnali e suoni in stile C1P8, dimostrano per l'ennesima volta come la casa di John Lasseter sia in grado di stimolare commozione, riflessioni e divertimento con una manciata di pixel, tante buone idee e senza bisogno di ricorrere a battutine e citazioni, proprio come il buon cinema d'intrattenimento dovrebbe fare (e fa sempre più raramente), la seconda parte è forse meno dirompente: lo scenario post-apocalittico lascia spazio all'avventura e il film si riduce a una (per quanto ottima) pellicola d'azione, anche se non mancano momenti emozionanti (come il balletto nello spazio o l'apparizione dei robot difettosi) e riflessioni sociali (l'attacco allo stile di vita sedentario e all'eccessivo uso di tecnologia, che porta gli uomini a diventare palle di grasso). Mitico anche il nuovo utilizzo in un contesto fantascientifico (e non credevo che fosse possibile) per l'incipit di "Also sprach Zarathustra", e belli i titoli di coda che mostrano l'evoluzione storica dell'arte, dai graffiti fino alla computer grafica degli anni ottanta. Forse non sarà all'altezza di "Ratatouille", ma resta comunque un film da non perdere, capace di dar vita a due personaggi che è difficile non farsi entrare nel cuore.

Humain, trop humain (L. Malle, 1974)

Humain, trop humain
di Louis Malle – Francia 1974
con attori non professionisti
**

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Girato in una fabbrica di automobili francese, questo documentario mostra gli operai che lavorano alla catena di montaggio e le varie fasi di assemblaggio delle vetture, senza alcun commento tranne il rumore di fondo. Gli unici dialoghi sono quelli che si sentono nella breve sequenza in cui i nuovi modelli vengono presentati al pubblico durante una fiera di settore. Anche se efficace nel mostrare da vicino le condizioni di lavoro nella fabbrica, dopo un po' si comincia a guardarlo distrattamente. Non manca però una certa suggestione ipnotica, e naturalmente in alcuni momenti non si può non pensare al Chaplin di "Tempi moderni".

19 ottobre 2008

Cacciatori di vampiri (W. Chin, 2002)

Cacciatori di vampiri (The era of vampires)
di Wellson Chin – Hong Kong 2002
con Ken Chang, Yu Rong Guang
*

Visto in DVD.

Scritta e prodotta da Tsui Hark, questa mediocre pellicola cerca inutilmente di riportare in auge, con una messinscena moderna e atmosfere da film horror, quel particolare genere fantastico incentrato sui "vampiri cinesi", che a dire il vero assomigliano più a zombi che ai succhiasangue cui siamo abituati noi occidentali. Quattro allievi di una setta che si dedica alla caccia di questi mostruosi non-morti, guidati dal loro anziano maestro, si fanno assumere come servitori nella dimora di una ricca famiglia che imbalsama i propri defunti trasformandoli in statue di cera. Dovranno fronteggiare un malvagio re vampiro in decomposizione, uno stregone in grado di animare i morti (trasformandoli in zombi saltellanti) e un avido maestro di arti marziali che spera di mettere le mani sul tesoro della famiglia. Se a questo aggiungiamo una doppia storia d'amore, la trama sembrerebbe sufficientemente complessa: peccato che la narrazione sia piatta e confusa e che le scene d'azione offrano più sbadigli che emozioni. "Mr. Vampire", nella sua ingenuità, era di ben altro livello. Oltre a Ken Chang, gli altri protagonisti sono Lam Suet, Michael Chow e Chan Kwok-Kwan (il portiere simil-Bruce Lee in "Shaolin Soccer"!).

18 ottobre 2008

La mia super ex-ragazza (I. Reitman, 2006)

La mia super ex-ragazza (My super ex-girlfriend)
di Ivan Reitman – USA 2006
con Luke Wilson, Uma Thurman
**1/2

Visto in divx.

Una ragazza scaricata, si sa, può diventare pericolosamente vendicativa. Ma se si tratta anche di una supereroina dotata di poteri straordinari e incredibilmente gelosa, possessiva e psicopatica, allora sono davvero guai. Lo scopre suo malgrado Matt, il protagonista di questo film, quando decide di troncare la relazione con la formidabile G-Girl, il cui amore nei suoi confronti si tramuta presto in un odio profondo e che comincia a perseguitarlo in tutti i modi (mandandogli l'automobile in orbita o gettandogli uno squalo vivo in camera). Da questo semplice spunto nasce un filmetto piacevole che gioca in maniera inedita con i cliché del supereroe – ci sono pure l'identità segreta, il nome allitterato (Jenny Johnson) e l'arcinemico (un genio del crimine segretamente innamorato di lei) – fondendoli con quelli della commedia romantica e mostrando persino i risvolti più problematici della vita sessuale di un supereroe. Pur non essendo un capolavoro, la pellicola mi ha divertito e i personaggi mi sono sembrati ben delineati: la Thurman dà vita a un'eroina ossessiva, nevrotica e un po' stronza, mentre Anna Faris è adorabile, come sempre, nei panni di una collega innamorata di Matt. Attenzione: a un certo punto, uno dei protagonisti spoilera "La moglie del soldato"! Sempre meglio di "Hancock", in ogni caso.

17 ottobre 2008

Love on a diet (Johnnie To, Wai Ka-Fai, 2001)

Love on a diet (Sau san naam neui)
di Johnnie To, Wai Ka-Fai – Hong Kong/Giappone 2001
con Andy Lau, Sammi Cheng
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Di solito non amo le commedie romantiche di To, ma questa mi è sembrata simpatica e sopra la media, anche per la trovata di "ingrassare" a dismisura i personaggi. Il film, curiosamente, non è ambientato a Hong Kong ma in Giappone e vede ancora una volta insieme la coppia Andy Lau/Sammi Cheng, già protagonisti l'anno precedente del grande successo "Needing you...". Questa volta i due super divi sono quasi irriconoscibili, grazie al trucco e alle protesi che li trasformano in due ciccioni sovrappeso! Lei è intenzionata a dimagrire di 90 chili in sei mesi per riconquistare il suo ex ragazzo, un affermato pianista; e lui, all'inizio un po' controvoglia, le dà una mano, la ospita in casa sua e coinvolge nella "missione impossibile" anche i suoi amici di Chinatown (fra cui Lam Suet e Wang Tian-Lin: e c'è pure una citazione/parodia della celebre scena della pallina di carta di "The Mission"). Com'era facile prevedere, fra i due "ciccioni" scatterà l'amore... Ovviamente in questo tipo di film è inutile cercare imprevedibilità e complessità, e alla fine la pellicola – dopo un buon inizio – diventa banalotta e un po' caricaturale. Ma come commedia romantica è sufficientemente sui generis e i due interpreti si rivelano davvero in forma, oltre che coraggiosi a mostrarsi per quasi tutto il film in versione XXL: mi è piaciuto soprattutto Andy Lau, che di solito non mi fa impazzire. Certo che sembra impossibile che si possa ingrassare così tanto con la cucina giapponese! Molto bella la canzone di Sammi Cheng "Forever beauty", che si sente sia durante il film sia sui titoli di coda.

15 ottobre 2008

Ed Wood (Tim Burton, 1994)

Ed Wood (id.)
di Tim Burton – USA 1994
con Johnny Depp, Martin Landau
***

Rivisto in DVD.

Considerato, forse immeritatamente, "il peggior regista della storia del cinema", Edward D. Wood jr. fu un cineasta di scarso talento ma di grande fantasia, la cui vita privata (fra feticismi personali e insolite frequentazioni) risulta essere certamente più interessante delle sue opere, per lo più pellicole di fantascienza e di exploitation a basso budget, girate in maniera pedestre (il suo motto, in ogni scena, era "buona la prima": non c'era il tempo o la voglia di girarne un'altra), con sceneggiature ridicole e interpretazioni dilettantesche. Circondato da una variopinta "corte dei miracoli" (Tor Johnson, un mostruoso wrestler; Vampira, una conduttrice televisiva dark; Criswell, un falso indovino; e soprattutto Bela Lugosi, il leggendario interprete del primo "Dracula") e disposto a qualsiasi compromesso pur di trovare fondi per il suo lavoro (dal lasciarsi imporre il figlio del produttore come attore protagonista al farsi battezzare perché i finanziatori facevano parte di una congregazione religiosa), il Wood ritratto con simpatia e un po' di superficialità da Depp e Burton ama indossare abiti femminili (con una passione particolare per i golfini d'angora) e vede Orson Welles come suo modello ispiratore (l'incontro fra i due cineasti, nel finale, vuole sottolineare i punti in comune fra il cinema "alto" e quello di serie Z: la passione e l'entusiasmo che muove gli uomini che ci stanno dietro e la loro lotta contro le imposizioni di major, produttori e mercato). Il vero punto di forza del film, però, è sicuramente l'anziano e morfinomane Bela Lugosi, interpretato in maniera stratosferica da Martin Landau, che non a caso vinse l'Oscar: a tratti si ha quasi l'impressione che la pellicola voglia essere più un'elegia del grande attore ungherese che di Wood stesso. Rigorosamente in bianco e nero, il film segue la lavorazione di lungometraggi del calibro di "Glen or Glenda", "Bride of the Monster" e il famigerato "Plan 9 from Outer Space" ("Lo sento... è per questo film che io sarò ricordato"). Nonostante il lieto fine che ci azzecca poco (ma non è una novità per Burton), in fondo "Ed Wood" resta uno dei migliori film del regista, forse addirittura il migliore dopo "Edward mani di forbice": ci si ritrova un amore sincero per il lato più oscuro, artigianale e meno gratificante della settima arte. Nel cast, molti nomi noti: da Bill Murray a Jeffrey Jones, da Sarah Jessica Parker a Patricia Arquette, da Vincent D'Onofrio a Lisa Marie. Buone le musiche di Howard Shore.

14 ottobre 2008

Una donna di Tokyo (Yasujiro Ozu, 1933)

Una donna di Tokyo (Tokyo no onna)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1933
con Yoshiko Okada, Kinuyo Tanaka
***

Visto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Con questo mediometraggio, girato da Ozu in soli otto giorni, per la prima volta nel cinema del grande maestro giapponese irrompono la morte e certi toni più forti e "mizoguchiani". La sorella maggiore Chikako, la protagonista, paga gli studi universitari al fratello Ryo lavorando come dattilografa durante il giorno e prostituendosi segretamente in un locale notturno la sera. Quando Ryo viene a saperlo, dapprima si scaglia contro di lei e poi sceglierà il suicidio, lasciando Chikako – e la fidanzata Harue – a piangerlo: "Non mi hai capita fino alla fine. Morire per una cosa del genere... che vigliacco!". Al tema del sacrificio femminile per la famiglia (classico sia per la cultura giapponese sia per il cinema di Ozu, come si vedrà in molte opere successive) si aggiunge qui quello dell'incapacità maschile di sopportare l'umiliazione, che invece mi sembra un po' distante dall'autore nipponico, di solito paladino della "rassegnazione". E infatti il soggetto risulta adattato (da Kogo Noda) da "Sedici ore", un dramma di un autore austriaco, tale Ernst Schwarz (di cui però non ho trovato notizie in rete: c'è addirittura chi ipotizza che si tratti di uno pseudonimo dello stesso Ozu: qualcuno sa qualcosa al riguardo?). Degna di nota la scena in cui Ryo e Harue vanno al cinema a guardare "Se avessi un milione": se in passato il regista aveva mostrato manifesti di pellicole americane appesi nelle stanze dei suoi personaggi, stavolta inserisce addirittura intere sequenze (e persino parte dei titoli di testa) dell'episodio di Lubitsch con Charles Laughton, che con la sua ambientazione da salaryman si sposa alla perfezione con il resto della pellicola. Stilisticamente si fanno notare numerose inquadrature che vedono i personaggi sfocati sullo sfondo e comuni oggetti in primo piano: oltre che con gli inserti, Ozu comincia a giocare con la profondità di campo.

13 ottobre 2008

Guida galattica per autostoppisti (G. Jennings, 2005)

Guida galattica per autostoppisti (The hitchhiker's guide to the galaxy)
di Garth Jennings – USA/GB 2005
con Martin Freeman, Mos Def
**

Rivisto in DVD, con Giovanni e Ilaria.

Sopravvissuto all'improvvisa distruzione della Terra (che è stata demolita dagli alieni Vogon per far posto a un'autostrada spaziale), l'everyman inglese Arthur Dent vaga per il cosmo in compagnia dell'amico Ford Prefect e di altri bizzarri compagni, facendo l'autostop e cercando di scoprire quale sia la domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto (la risposta invece è già nota: 42, come sa anche Google). In sé il film in fondo non è poi male: leggero e demenziale, divertente al punto giusto e con una buon mix fra effetti digitali e artigianali. Insomma, poteva andare peggio. Ma quando alle spalle c'è materiale di partenza del calibro della mitica serie radiofonica e dei romanzi di Douglas Adams, un po' di delusione è inevitabile. Gran parte dell'umorismo dell'autore inglese, paradossale e verbale, sullo schermo semplicemente non funziona: basti pensare a scene come quella del vaso di petunie e della balena, o al Vogon che declama le sue poesie. Come se non bastasse, molte gag sono troncate a metà, e a quel punto era quasi meglio che non fossero inserite affatto ("Per vedere i piani sono dovuto scendere in cantina". E stop, quel dialogo finisce qui, niente cartello "Attenti al leopardo"!). In compenso, c'è parecchio materiale ex novo (ideato in gran parte proprio dal compianto Adams, accreditato come co-sceneggiatore), come le sequenze che coinvolgono John Malkovich, quelle della fuga dal pianeta dei Vogon (mitici i battipanni viventi) e in generale la storia d'amore fra Arthur e Trillian. Nel complesso la comicità diventa più visiva che concettuale, il ruolo della Guida stessa risulta sminuito (non viene quasi mai consultata) e la sottotrama principale, quella dei topi, non è particolarmente convincente. Fra le cose migliori, invece, c'è la tecnologia: il computer Pensiero Profondo, l'astronave Cuore d'Oro e il robot depresso Marvin rimangono impressi sia per il design "arrotondato" sia per la loro personalità. A proposito, nella versione originale Marvin (al cui interno si muove Warwick Davis) ha la voce di Alan Rickman e Pensiero Profondo quella di Helen Mirren, mentre il narratore è Stephen Fry. Le differenze con la vecchia serie televisiva della BBC sono notevoli: più "inglese" e scalcinata quella, più "americana" e professionale questa (alcune scenografie, come l'officina di pianeti su Magrathea, sono spettacolari e lasciano davvero a bocca aperta!). Carina anche la sequenza di apertura, con i delfini che cantano "Addio e grazie per tutto il pesce". Fra gli attori spiccano per simpatia Zooey Deschanel nella parte di Trillian e Sam Rockwell in quella del folle Zaphod Beeblebrox.

Nota: i romanzi originali sono una fonte talmente smisurata di citazioni e di ispirazioni che molti spettatori, guardando il film, in certe scene avranno creduto di trovarsi di fronte a omaggi o parodie, senza sapere che invece è proprio la Guida a essere all'origine di termini, frasi e concetti poi utilizzati da altri (per fare un solo esempio, il nome del traduttore automatico Babelfish). Un po' come era accaduto con i film del Signore degli Anelli, che qualcuno ha accusato di poca originalità perché troppo pieni di quei cliché fantasy che proprio Tolkien aveva invece creato, cinquant'anni prima.

12 ottobre 2008

L'idiota (Akira Kurosawa, 1951)

L'idiota (Hakuchi)
di Akira Kurosawa – Giappone 1951
con Masayuki Mori, Setsuko Hara
**1/2

Rivisto in DVD alla Fogona, con Marisa, in originale con sottotitoli.

Questo adattamento del romanzo di Dostoevskij – di cui sposta l'ambientazione in Hokkaido (non a caso la regione nipponica più settentrionale e vicina alla Russia, annessa al resto del paese soltanto nel diciannovesimo secolo) e nell'immediato dopoguerra – rappresentò un momento particolarmente delicato della lunga storia conflittuale fra Kurosawa e i suoi produttori. L'intenzione del regista era quella di realizzare un film di largo respiro, da distribuire nelle sale in due parti separate. A sua insaputa, invece, la Shochiku tagliò quasi un'ora e mezza delle quattro che costituivano il montaggio originale e ne distrusse i negativi per evitare eventuali ripensamenti. Il film, così, risulta decisamente monco, con cartelli e didascalie che cercano di chiarire gli eventi mancanti. Anche il cast non è del tutto convincente, nonostante i grandi nomi che lo compongono. Masayuki Mori, nei panni di Kameda, il protagonista "positivamente buono", demente ed epilettico, scampato al plotone d'esecuzione come lo stesso Dostoevskij, recita in maniera piuttosto monocorde e sembra quasi uscito da una pellicola muta. La brava Setsuko Hara, la musa di Ozu, qui alla sua seconda collaborazione con Kurosawa, non era forse l'attrice più adatta per una parte come quella della "donna perduta" Taeko Nasu, innamorata di Kameda ma che non ritenendosi degna di lui preferisce sposare il rissoso e passionale Akama. E Toshiro Mifune, che interpreta quest'ultimo (che corrisponde al Rogozhin del romanzo originale) recita come sempre sopra le righe e pare poco in sintonia con gli altri personaggi. Eppure il film ha anche i suoi pregi, dalle suggestive scenografie (magnifica la dimora di Akama, per esempio) all'ambientazione perennemente innevata, dal ritratto di una borghesia ipocrita e dedita alla compravendita di sentimenti e persone, al tragico destino di personaggi folli e autodistruttivi. La cultura russa e quella giapponese sembrano sposarsi perfettamente, e la mano del regista si intravede in molte scene memorabili, come quella iniziale in cui i volti di Mifune e di Mori si specchiano nella vetrina a incorniciare il ritratto della Hara, o la lunga sequenza della festa di compleanno di Taeko.

11 ottobre 2008

Rissa fra amici in stile giapponese (Y. Ozu, 1929)

Rissa fra amici in stile giapponese, aka Fighting Friends (Wasei tenka tomodachi)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1929
con Atsushi Watanabe, Hisao Yoshitani
**1/2

Visto in divx.

Tomekichi e Hozo, due meccanici, vivono sotto lo stesso tetto e dividono tutto da veri amici. Ma l'arrivo di una ragazza in casa incrina la loro armonia. Ritorneranno amici soltanto quando la giovane si fidanzerà con uno studente. Riscoperto soltanto di recente – e infatti nel Castorino di Dario Tomasi veniva dato per perduto – questo cortometraggio di 14 minuti (o si tratta del frammento di un lungometraggio? Dai dati forniti dal Castorino stesso si deduce che il film doveva durare almeno un'ora) è di fatto il secondo lavoro più antico di Ozu a essere sopravvissuto, e in quanto tale ha naturalmente poco a che vedere con lo stile che contraddistinguerà la maturità artistica del regista. Con il precedente, "Giorni di gioventù", condivide a grandi linee il soggetto, quello di due amici che scoprono di essere innamorati della stessa ragazza, ma il fatto che i protagonisti in questo caso siano operai e non studenti cambia di molto le cose, a partire dal setting "proletario". Pur nella sua brevità, il film è parecchio movimentato dal punto di vista stilistico: molto bella, per esempio, la sequenza in cui il camion dei due protagonisti travolge la ragazza, così come quella conclusiva con la vettura che corre parallela al treno. Divertente anche la scena in cui il loro superiore impedisce agli altri operai di dividerli mentre si azzuffano, dicendo: "La lotta è sacra, non intervenite!".

Un grazie a Dan per i sottotitoli in italiano.

9 ottobre 2008

I racconti del cuscino (P. Greenaway, 1995)

I racconti del cuscino (The pillow book)
di Peter Greenaway – GB/Olanda/Francia 1995
con Vivian Wu, Yoshi Oida, Ewan McGregor
***

Rivisto in DVD.

Ho voluto rivedermi questo lungometraggio per ricordare l'attore Ken Ogata, scomparso qualche giorno fa, protagonista di molte pellicole di Shohei Imamura e che qui interpreta il ruolo del padre di Nagiko.

Fondendo insieme "le ossessioni per il corpo e per la calligrafia, i piaceri della sessualità e della letteratura", questo bellissimo film (una delle pellicole esteticamente più gradevoli di Greenaway) prende spunto dal celebre testo di Sei Shōnagon, dama di corte imperiale del Giappone dell'undicesimo secolo e contemporanea di Shikibu Murasaki. I suoi "racconti del cuscino" erano un diario intimo nel quale l'autrice riversava i propri pensieri, compilava liste ed elenchi di "cose che fanno palpitare il cuore" e raccontava delle sue numerose avventure galanti. La giovane Nagiko, protagonista della pellicola, cresce con il culto di quel libro – che le veniva letto dalla zia sin da quando era piccola – e della scrittura, anche perché il padre, a ogni suo compleanno, le impartiva una "benedizione" disegnandole con l'inchiostro ideogrammi giapponesi sul volto e sulla pelle. Una volta adulta e diventata una modella (c'è un bel parallelo fra lo sfarzo dell'antica corte imperiale e le moderne sfilate), la ragazza si mette alla ricerca di un amante che sia abile tanto nell'arte erotica quanto in quella calligrafica, e che possa usare la sua pelle come carta per sempre più raffinati esercizi di scrittura. Forse lo troverà nel giovane inglese Jerome, ma il tradimento e la gelosia glielo porteranno via. Si vendicherà infine del malvagio editore omosessuale che aveva ricattato suo padre e che ha profanato il corpo di Jerome utilizzando la sua pelle per farne un diario intimo "definitivo", ossessionandolo con una serie di tredici racconti, ciascuno dei quali scritto sul corpo di un uomo differente. Il film, ricco e complesso, si avvale di una tecnica già sperimentata ma che qui esplode in tutta la sua efficacia: l'utilizzo di frame con spezzoni e filmati paralleli che si sovrappongono all'inquadratura principale. In questo modo lo spettatore può seguire contemporaneamente tre linee di racconto (quella che mostra la vita di corte di Sei Shōnagon, quella che parla dell'infanzia di Nagiko e quella ambientata nel presente), ciascuna con un approccio cinematografico differente (ambientazione teatrale e camera bassa alla Ozu, bianco e nero e penombra, colori forti e fotografia vivace) e condita da una colonna sonora ad hoc (musica tradizionale, brani popolari di inizio novecento – come la bellissima canzone cinese "Rose, Rose, I Love You" di Lee Yao, la stessa che veniva cantata da Anita Mui nel film "Miracles - The canton godfather" di Jackie Chan! – e moderno techno-pop giapponese: ma non mancano un paio di suggestive canzoni francesi). Le ossessioni di Greenaway ci sono tutte: la morte, il sesso, la catalogazione, l'arte. E non si erano mai sposate così bene.

8 ottobre 2008

Il colore dei soldi (M. Scorsese, 1986)

Il colore dei soldi (The color of money)
di Martin Scorsese – USA 1986
con Paul Newman, Tom Cruise
***

Rivisto in VHS.

Dopo non aver più toccato una stecca da anni, nel corso dei quali si è arricchito con la gestione di un locale e scommettendo sulle giocate degli altri (perché "il denaro vinto dà più soddisfazione di quello guadagnato"), Eddie Felson "lo svelto" torna ad entusiasmarsi per il biliardo grazie al talento di un giovane giocatore, Vincent, che diventa il suo protetto. Ma l'impetuosità del ragazzo, incapace di "saper perdere" al momento giusto, spingerà Eddie a iscriversi personalmente a un torneo per sfidare il suo nuovo pupillo. Chi vincerà, il giovane emergente o la vecchia gloria? Sequel de "Lo spaccone", ambientato in tempo reale 25 anni dopo la pellicola precedente, ne è quasi un remake con Paul Newman nel ruolo del manager che era di George C. Scott e un Tom Cruise tutto sommato non inadeguato nei panni del giovane sbruffone che rischia di rimanere schiacciato dal mondo delle scommesse, ma che alla fine saprà cavarsela molto meglio di quanto non avesse fatto Eddie a suo tempo. La fotografia scura e colorata di Michael Ballhaus, la buona regia (con quei movimenti di macchina attorno al tavolo dal gioco), le atmosfere retrò, la malinconia di un mondo che cambia (vedi i videogiochi che si fanno largo nelle sale un tempo dedicate solo al biliardo), la bella colonna sonora, le interpretazioni dei protagonisti (c'è anche una brava Mary Elizabeth Mastrantonio, ragazza di Vincent e complice di Eddie), e una sceneggiatura scoppiettante ("Sei stato fortunato" - "Sì, a incontrare te.") lo rendono un titolo tutt'altro che minore nella filmografia di Scorsese, anche se il regista ha dichiarato di averlo girato soltanto per racimolare i fondi necessari a produrre "L'ultima tentazione di Cristo". Newman, comunque, ci guadagnò il suo unico Oscar come miglior attore. Brevi comparsate per John Turturro e Forest Whitaker.

7 ottobre 2008

Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo (Don Siegel, 1971)

Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo (Dirty Harry)
di Don Siegel – USA 1971
con Clint Eastwood, Andy Robinson
**

Rivisto in DVD alla Fogona, con Monica e Marisa

Il tarrissimo "Harry la carogna" Callaghan, ispettore della polizia di San Francisco, è sulle tracce di un pazzo assassino che si firma "Scorpio" e che ha minacciato di uccidere una persona al giorno se la città non gli pagherà una grossa cifra. Ispirato al vero caso di Zodiac, il serial killer la cui storia è stata brillantemente portata sullo schermo di recente da David Fincher, il primo episodio delle avventure di "Dirty Harry" è un thriller poliziesco che ha fatto storia e ha influenzato l'intero genere del poliziottesco all'italiana, a base di tutori della legge che mal sopportano le regole e che spesso si scontrano con i propri superiori o si fanno giustizia da soli. Ma a parte il personaggio interpretato da Eastwood e l'atmosfera urbana anni settanta, non è che la pellicola offra poi molto: mi è sembrata datata e poco coinvolgente, e lo testimonia il fatto che non ricordavo assolutamente di averla già vista non più di tre-quattro anni fa! Molti sono i personaggi inutili (come l'aiutante messicano) e le scene tirate per le lunghe (come l'inseguimento notturno). Alla fine del film, Callaghan getta via il distintivo (un omaggio a "Mezzogiorno di fuoco"?): evidentemente ci ripenserà, visto che sarà poi protagonista di ben altre quattro pellicole, nessuna delle quali girata però da Siegel. Com'è noto, il personaggio in originale si chiama Callahan (senza la "g").

3 ottobre 2008

Sotto gli ulivi (A. Kiarostami, 1994)

Sotto gli ulivi (Zire darakhatan zeyton)
di Abbas Kiarostami – Iran 1994
con Mohamad Ali Keshavarz, Hossen Rezai
****

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Con questo indimenticabile film sull'amore e sull'arte (la sua visione in sala rappresentò il mio primo incontro con Kiarostami e in generale con il cinema iraniano: fu un colpo di fulmine) il gioco di scatole cinesi della trilogia di Koker giunge a compimento: ciascuno dei tre lungometraggi costituisce un elemento di finzione all'interno della "realtà" rappresentata dal film successivo. "Sotto gli ulivi", infatti, finge di essere il making of di "E la vita continua...", il protagonista del quale, a sua volta, era il regista di "Dov'è la casa del mio amico?". Sullo schermo agiscono dunque contemporaneamente ben due alter ego di Kiarostami: Farhad Kheradmand, protagonista del film precedente che qui deve recitare nella parte di sé stesso, e Mohamad Ali Keshavarz, che nella scena iniziale (rompendo il quarto muro) mette subito in chiaro di essere solo un attore che "interpreta il ruolo del regista del film". La lavorazione di "E la vita continua...", fra le macerie del terremoto del Gilan, trova però un inatteso ostacolo nel delicato rapporto fra due attori (non professionisti: lui è muratore, lei studentessa) di una scena marginale: il giovane Hossein è innamorato di Tahereh, che sullo schermo interpreta sua moglie, e attende da lei una risposta alla sua richiesta di matrimonio. Questa giungerà solo della fine del film, ma noi non la conosceremo mai perché la macchina da presa si terrà pudicamente a distanza, intrattenendoci con un campo lunghissimo nel quale i personaggi si riducono a due puntini visti da lontano: nel frattempo risuonano le note di un concerto di Cimarosa, nella cui gioiosità risiede forse la soluzione al dilemma fornito dal finale aperto. "Sotto gli ulivi" è un film unico nel suo genere, poetico e stimolante, esteticamente gradevolissimo, costruito su soluzioni cinematografiche insolite e coraggiose (la lunga soggettiva dell'automobile guidata dalla signora Shiva, l'assistente del regista; la ripetizione, quasi allo sfinimento, della scena minimalista recitata da Hossein e Tahereh), scenografie intriganti (i cespugli fioriti che costeggiano l'ormai celebre sentiero a zig-zag; la verde collina costeggiata dagli ulivi mossi dal vento, dove pernotta la troupe cinematografica), spunti filosofici o a sfondo sociale (le ingenue ma profonde riflessioni di Hossein sulla necessità di far sposare i ricchi con i poveri e gli istruiti con gli analfabeti; l'incapacità dei giovani attori di separare il ruolo che recitano dalla realtà), e come tale è godibile anche trascurando l'autoreferenzialità. Però, tra le righe, offre molto di più: in diverse scene, per esempio, rivediamo Babak e Ahmed Ahmadpur, i protagonisti di "Dov'è la casa del mio amico?", la cui sorte era rimasta in sospeso alla fine di "E la vita continua...": il sollievo nel saperli vivi non può essere colto da chi non ha visto entrambi i film precedenti.

2 ottobre 2008

Dove sono finiti i sogni di gioventù? (Y. Ozu, 1932)

Dove sono finiti i sogni di gioventù? (Seishun no yume imaizuko)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1932
con Ureo Egawa, Kinuyo Tanaka
**1/2

Visto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Alla morte del padre, il ricco e spensierato studente Tetsuo Horino è costretto ad abbandonare anzitempo l'università per assumere la carica di direttore dell'azienda di famiglia. I suoi tre migliori amici, Kumada, Shimazaki e Saeki (rispettivamente Kenji Oyama, Chishu Ryu e Tatsuo Saito), portano invece a termine gli studi e una volta laureati vengono assunti proprio dalla ditta di Tetsuo, che li "aiuta" durante il test di ammissione. Il ragazzo, proiettato troppo presto nel mondo degli affari e delle responsabilità da adulto, vorrebbe trovare in loro ancora i compagni di svago dei bei tempi andati, ma è evidente che non tutto è come prima e che il rapporto fra datore di lavoro e dipendenti non gioca a favore della loro amicizia. A ingarbugliare la situazione ci si mette anche una ragazza: Oshige, di cui Tetsuo è innamorato ma che è promessa in matrimonio a Saeki. In un film caratterizzato dai consueti cambi di registro (si veda, per esempio, come si passi rapidamente dalle gag del compito in classe al dramma dell'annuncio della morte del padre di Tetsuo), Ozu affronta il tema dello scarto e dell'incompatibilità fra il periodo della gioventù (spensierato e felice) e quello dell'età adulta (dominato dalle responsabilità e dai doveri sociali che non lasciano spazio alla felicità individuale). Il passaggio dal primo al secondo rappresenta un fase cruciale e ineludibile (soprattutto in Giappone) e non può che comportare la rinuncia, volontaria o meno, a una parte di sé, che si tratti dell'amicizia o dell'amore.

1 ottobre 2008

Accattone (Pier Paolo Pasolini, 1961)

Accattone
di Pier Paolo Pasolini – Italia 1961
con Franco Citti, Franca Pasut
***1/2

Rivisto in VHS, con Marisa.

Il bel film d'esordio di Pasolini, se da un lato sembra debitore del neorealismo italiano (la descrizione non edulcorata della miseria e della piccola delinquenza, lo sfondo delle desolate periferie di Roma, la fotografia in bianco e nero di Tonino Delli Colli), dall'altro si pone nel solco di una poetica del tutto personale, la stessa che l'autore portava avanti con le sue opere letterarie come i romanzi "Ragazzi di vita" e "Una vita violenta", ambientati fra la gioventù sottoproletaria delle borgate romane e capaci di dare voce (anche attraverso l'uso della parlata dialettale) a fasce di popolazione che il cinema e la letteratura sembravano voler ignorare perché troppo squallide, umili oppure scomode in un periodo storico dominato dalla piccola borghesia che stava "ricostruendo" l'Italia e che mal sopportava di veder elevati a protagonisti di opere d'arte i reietti e gli "scarti" della società. Il protagonista Vittorio, chiamato da tutti "Accattone" (soprannome che lui stesso sfoggia orgogliosamente: "Di Vittorio ce ne sono tanti, di Accattone uno solo"), si vanta di non aver mai lavorato nella propria vita. Trascorre le giornate in strada o al bar in compagnia di amici della stessa risma e si mantiene facendo il "pappone", sfruttando Maddalena, una prostituta: quando questa verrà arrestata, cercherà di mettere sulla stessa strada anche la più ingenua Stella, della quale finirà forse per innamorarsi. Il proposito di trovarsi un lavoro "onesto" durerà una sola giornata: dopo un inquietante sogno premonitore, morirà in un incidente in seguito a un tentativo di rapina, e le sue ultime parole saranno: "Mo' stò bene". Più che sulla trama, la pellicola punta tutto sulle atmosfere e sullo scenario di una Roma che sembra uscita da poco dalla guerra, fra case diroccate, discariche abusive, campi incolti, strade dissestate e quartieri poveri non ancora raggiunti dal boom economico i cui frutti si intravedono sullo sfondo, sotto forma dei primi condomini e casermoni di cemento. In un mondo che poggia le proprie fondamenta sulla miseria e la prostituzione, Accattone e i suoi compari cercano di mantenersi a galla fra scherzi e scommesse, lavori malpagati e bighellonaggio, mentre i loro canti popolari e gli stornelli in romanesco si intrecciano con la musica "religiosa" di Johann Sebastian Bach che sembra voler nobilitare un mondo privo di Dio ed esistenze senza un futuro (l'uso della musica classica in un contesto così povero mi ha ricordato quello che farà Kiarostami nei suoi film iraniani). Bernardo Bertolucci (che l'anno seguente avrebbe esordito a sua volta filmando un soggetto di Pasolini, "La commare secca") figura come aiuto regista e forse ha contribuito all'impronta tecnica del film, visto che PPP era un assoluto neofita della macchina da presa: per sua stessa ammissione, la decisione di dedicarsi all'attività di regista cinematografico era nata per esprimersi "in una tecnica diversa, di cui non sapevo nulla e che imparai in questo primo film". Certo, il linguaggio cinematografico è spesso "sgrammaticato" (eccesso di primi piani statici, montaggio confuso, inquadrature e "salti" da film muto) ma il risultato è eccellente, crudo e realistico. Anche per questo motivo non mancarono violenti polemiche da parte di politici e di benpensanti, che osteggiarono in ogni modo il film: "Accattone" fu la prima pellicola, nella storia del cinema italiano, a essere vietata per decreto ai minori di 18 anni (all'epoca la normativa prevedeva al massimo il divieto ai minori di 16 anni).

27 settembre 2008

Lo spaccone (Robert Rossen, 1961)

Lo spaccone (The hustler)
di Robert Rossen – USA 1961
con Paul Newman, Piper Laurie
***1/2

Rivisto in DVD.

La scomparsa di Paul Newman, annunciata oggi, priva Hollywood di un altro pezzo della sua storia. Per ricordare il grande attore mi sono rivisto uno dei suoi film più belli, quello "Spaccone" il cui sequel "Il colore dei soldi", girato 25 anni dopo da Martin Scorsese, gli sarebbe anche valso l'Oscar.

Eddie Felson, detto "lo svelto", è un abile giocatore di biliardo che bazzica le sale da gioco in compagnia del socio Charlie, fingendosi inesperto e spennando i "polli" che hanno la sventura di sfidarlo. Ma il suo sogno è quello di battere con la stecca il campionissimo Minnesota Fats (Jackie Gleason). Purtroppo per lui, Eddie ha la stoffa ma non il temperamento adatto: incapace di fermarsi al momento giusto e di dosare le proprie energie, viene surclassato dal rivale. Per rifarsi, accetterà di mettersi al servizio dello spregiudicato manager Bert Gordon (un grande George C. Scott), ma nella sua foga di raggiungere il successo non si accorgerà di aver sacrificato l'amore della fragile e alcolizzata Sarah fino a quando non sarà troppo tardi. La regia solida di Rossen, la fotografia da film noir del veterano Eugen Schüfftan, la musica di Kenyon Hopkins, l'ambientazione iperrealista (a base di oscure bettole oscure, squallide stanze d'albergo, desolate stazioni dei pullman, e naturalmente ampie sale da biliardo come la celebre Ames di New York dove si svolge l'incontro fra Eddie e Minnesota) rendono imprescindibile questa amara parabola sul gioco e sul successo: un tema, quest'ultimo, che dà sempre attraversa la cultura americana ma del quale raramente è stato mostrato in maniera così lucida e pessimista il rovescio della medaglia. Newman, al culmine della sua prestanza fisica, dà vita a un personaggio "ribelle e maledetto", che – come gli dice lo "sfruttatore" Bert – nella vita vuole perdere perché ha paura di vincere.

Una pallottola per Roy (R. Walsh, 1941)

Una pallottola per Roy (High Sierra)
di Raoul Walsh – USA 1941
con Humphrey Bogart, Ida Lupino
***

Visto in divx.

Roy Earle, attempato rapinatore appena uscito di galera, si trasferisce sui monti della California per progettare un colpo in un albergo di lusso di una ricca località turistica. Mentre attende il momento giusto, si innamora – non ricambiato – della semplice figlia di un contadino, alla quale paga di tasca propria un'operazione chirurgica alla caviglia senza rivelarle la propria identità. A infatuarsi di lui è invece Maria, anima "perduta" ben più affine e sincera. Dopo il colpo, i due amanti si separano: braccato dalla polizia, Roy è però costretto a rifugiarsi sulle montagne, dove verrà ucciso sotto gli occhi di Maria. Questo insolito incrocio fra il film di gangster, il noir e il melodramma (e mettiamoci pure il western, già che ci siamo), sceneggiato da John Huston a partire da un romanzo di William R. Burnett che verrà portato altre volte sullo schermo, diede un formidabile impulso alla carriera di Bogey, che dal canto suo recita alla grande e mette in mostra tutto il proprio carisma. Il suo personaggio, disilluso e romantico, tormentato da incubi notturni e alla disperata ricerca di una vita normale che però gli viene negata, è perennemente proteso verso la libertà, al punto da preferire la morte piuttosto che perderla di nuovo. Che l'attore non fosse ancora una star (il suo ruolo era stato proposto in precedenza a Paul Muni e George Raft, che lo avevano rifiutato) lo dimostra il fatto che quello di Ida Lupino è il primo nome nei titoli di testa. L'inseparabile (e iettatore) cane Pard è "interpretato" da Zero, il vero cane di Humphrey Bogart. All'epoca la pellicola si fece apprezzare anche per le scene girate in esterni, in particolare per la sequenza finale dell'inseguimento e della caccia all'uomo nella Sierra Nevada, da Lone Pine a Mount Whitney, "la più alta vetta degli Stati Uniti".

26 settembre 2008

Kebab connection (Anno Saul, 2004)

Kebab connection
di Anno Saul – Germania 2004
con Denis Moschitto, Nora Tschirmer
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

In un ristorante di kebab ad Amburgo, due uomini si affrontano a colpi di spada e arti marziali per contendersi l'ultimo panino rimasto. Il violento scontro si dipana fra ralenti alla John Woo, riprese alla Tsui Hark e musica da wuxiapian: ma si tratta soltanto di uno spot pubblicitario che il giovane Ibrahim, detto "Ibo", turco-tedesco di seconda generazione nonché cineasta dilettante e appassionato di film orientali, ha girato per il ristorante dello zio. Lo spot è un successo e il locale si riempie, con grande scorno del proprietario della taverna greca che si trova proprio di fronte. Ma Ibo, che spera di girare un giorno "il primo film di kung fu tedesco", fatica a concentrarsi sul cinema perché ha altri problemi per la testa, ben più pressanti: la sua ragazza, Titzi, è rimasta incinta e lui non sa se è pronto per diventare padre. Come se non bastasse, la famiglia lo ripudia perché ha scelto una ragazza tedesca e non turca, e il rapporto con Titzi sembra precipitare a più riprese. Sceneggiata fra gli altri da Fatih Akin, futuro regista di ottimi film come "La sposa turca" e "Ai confini del paradiso", è una commedia romantica e multietnica (con un'insolita commistione culturale turco-tedesco-cinese), che illustra in maniera forse un po' ingenua ma frizzante il microcosmo degli immigrati turchi in Germania (in maniera non dissimile dai quei film britannici che ritraggono le comunità indiane e pakistane) e che attorno ai personaggi principali ne fa agire molti altri: la coinquilina di Titzi, Nadine, impegnata a superare un difficile esame di ammissione a una scuola di teatro; gli amici di Ibo, il vegetariano Ela (che ha aperto un take-away arabo) e il tedesco Valid (che si innamora in una ragazza-madre italiana); Stella, la disinibita nipote del proprietario del ristorante greco; il padre di Ibo, tassista burbero ma in fondo buono; altri parenti assortiti; un gruppo di teppisti che terrorizza il quartiere e i proprietari dei negozi; e persino Bruce Lee, punto di riferimento spirituale del protagonista, in un'apparizione onirica.

24 settembre 2008

Sono nato, ma... (Yasujiro Ozu, 1932)

Sono nato, ma... (Umarete wa mita keredo)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1932
con Tomio Aoki, Hideo Sugawara
***1/2

Rivisto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Una famiglia (padre, madre e due figli piccoli) si trasferisce dal centro città in periferia: in questo modo il genitore potrà abitare vicino al suo capufficio e frequentarlo più facilmente, favorendo così la propria carriera. I due figli faticano inizialmente ad adattarsi al nuovo ambiente e si "scontrano" ripetutamente con i ragazzini del vicinato, finendo però per diventarne i leader riconosciuti. Ma le dinamiche e i rapporti di forza fra i bambini, seppur ignote e "invisibili" agli adulti, si rispecchiano in quelle fra i loro genitori. Quando i due bimbi assistono alla proiezione di un film amatoriale nel quale il padre si comporta da buffone per compiacere il direttore, perdono ogni fiducia in lui e ne disconoscono l'autorità. Per ribellione iniziano uno sciopero della fame, che però sarà destinato a concludersi rapidamente. Una volta accettato il fatto che il padre "non è un uomo così importante", si consolano dominando a loro volta il figlio del direttore. Forse il primo vero capolavoro di Ozu, è il film con cui inizia una fase della sua carriera contraddistinta da un maggior riscontro da parte della critica giapponese (che gli attribuirà ripetutamente premi e riconoscimenti) e soprattutto dalla progressiva semplificazione della tecnica cinematografica, che si farà sempre più minimalista ed essenziale. Gia qui, per esempio, scompaiono dissolvenze e rapide transizioni da una scena all'altra, anche se rimangono i movimenti di macchina (fra cui quello, eccezionale, che segue gli impiegati che sbadigliano: quando uno di essi rimane impassibile, la macchina da presa torna indietro, aspetta che sbadigli anche lui e poi riprende la carrellata!). La pellicola, molti dei cui temi torneranno nei film successivi (in particolare in "Buon giorno"), è quasi divisa in due parti: la prima, del tutto comica, vede i due bambini interagire quasi esclusivamente con i loro coetanei; la seconda, più drammatica, è invece incentrata sul rapporto con il padre (interpretato da Tatsuo Saito). In entrambe, comunque, lo sviluppo delle gerarchie sociali svolge un ruolo fondamentale: i bambini, che tanto hanno faticato per prendere il sopravvento sui loro compagni (esilarante il rito della "morte e resurrezione" imposta con le mani), non capiscono perché il padre accetti di sottomettersi agli altri senza lottare. Davvero ottimi i piccoli attori (ma bravo anche il regista a dirigerli con tale efficacia e spontaneità), uno dei quali è il Tomio Aoki/Tokkan Kozo già visto in "Un bambino che non si ferma mai". Curiosamente le didascalie della versione italiana che ho visto, che comprendeva una colonna sonora realizzata ad hoc da Gino Peguri, non erano sottotitolate ma lette ad alta voce da un narratore, come si usava in Giappone all'epoca dei benshi.

23 settembre 2008

E la vita continua... (A. Kiarostami, 1991)

E la vita continua... (Zendegi va digar hich)
di Abbas Kiarostami – Iran 1991
con Farhad Kheradmand, Buba Bayour
***1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Nel giugno del 1990 un devastante terremoto colpì le regioni settentrionali dell'Iran, distruggendo interi villaggi e uccidendo decine di migliaia di persone. Preoccupato per la sorte dei piccoli fratelli Ahmadpur, interpreti del suo precedente film "Dov'è la casa del mio amico?", un regista (Kiarostami stesso?) parte in macchina da Teheran insieme al proprio figlio per raggiungere il villaggio di Koker, dove i bambini abitavano, e scoprire se sono sopravvissuti. Il viaggio si rivela però ben più difficile del previsto: l'unica strada è impraticabile e l'automobile con i due protagonisti a bordo è costretta a innumerevoli deviazioni fra colline e macerie. Con un'insolita commistione fra finzione e documentario, al punto che non è facile capire dove finisca la prima e inizi il secondo, in questa eccezionale pellicola la macchina da presa si sostituisce spesso all'occhio dei personaggi o degli spettatori, mostrando in soggettiva gli effetti del terremoto (con panoramiche delle strade e delle case in rovina, riprese dal finestrino dell'automobile) e come la gente comune affronti con la catastrofe disperazione o rassegnazione. In quegli stessi giorni si svolgevano i campionati mondiali di calcio (in Italia), e anche fra i profughi e gli sfollati c'è chi si preoccupa di trovare un modo di seguire le partite: i morti sono morti, ora bisogna pensare alla vita. La scenetta con i due novelli sposini che hanno deciso di unirsi immediatamente in matrimonio il giorno dopo il sisma sarà alla base del successivo film della trilogia. Non mancano riflessioni su Dio (il terremoto è stato voluto da lui?) e la morte ("Se i morti potessero resuscitare, apprezzerebbero di più la vita"). Inquantificabile l'importanza del paesaggio, fra colline spoglie (si rivede brevemente anche la celebre strada a zig zag sormontata dall'albero solitario), alture rocciose, strade polverose, piantagioni di ulivi, greggi di pecore, e squarci poetici come l'improvvisa apparizione di un campo verde attraverso la finestra di una casa semidistrutta. A sguardi ravvicinati su mura, crepe, fessure, intonaci e mattoni si alternano campi lunghi o lunghissimi, come quello della strada in ripida salita che chiude il film e che prefigura, naturalmente, il magnifico finale di "Sotto gli ulivi".

22 settembre 2008

Tony Takitani (Jun Ichikawa, 2004)

Tony Takitani
di Jun Ichikawa – Giappone 2004
con Issei Ogata, Rie Miyazawa
**1/2

Visto al Mifed 2004, in originale con sottotitoli inglesi.

Qualche giorno fa, il 19 settembre, è morto Jun Ichikawa, regista giapponese forse non molto noto in Italia (da non confondere con Kon Ichikawa, l'autore de "L'arpa birmana"!), scomparso a soli 59 anni mentre stava lavorando al montaggio di un suo nuovo film. Delle sue venti pellicole, l'unica che ho visto è proprio la più famosa, tratta da un racconto breve di Haruki Murakami (lo scrittore di "Tokyo Blues" e "Dance! Dance! Dance!"). Vista l'origine, non c'è da stupirsi che il film appaia molto "letterario" e teatrale. È praticamente privo di dialoghi, ma con un narratore onnipresente le cui frasi, a volte, vengono completate dai personaggi sullo schermo. A parte queste finezze registiche, comunque, è un film delicato, piuttosto intimista e incentrato su pochi personaggi: in particolare il protagonista, che a causa del suo nome occidentale vive un'infanzia triste e solitaria prima di diventare un illustratore tecnico; e la sua giovane moglie Eiko, che non riesce a fare a meno di acquistare un'enorme quantità di vestiti e capi d'abbigliamento di marca. Quando Eiko muore, Tony assume come propria assistente una donna che le assomiglia come una goccia d'acqua (l'attrice è la stessa) e le impone di indossare i vestiti della sua sposa defunta: il tema dell'ossessione materialistica si intreccia così con quello della perdita di identità.

20 settembre 2008

Dov'è la casa del mio amico? (A. Kiarostami, 1987)

Dov'è la casa del mio amico? (Khane-ye doust koudjast?)
di Abbas Kiarostami – Iran 1987
con Babek Ahmadpur, Ahmed Ahmadpur
****

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Prima pellicola della trilogia metacinematografica composta anche da "E la vita continua..." e "Sotto gli ulivi" (nota anche come "trilogia di Koker", dal nome del villaggio nel quale si svolgono le vicende, situato in una regione sperduta dell'Iran settentrionale), questo meraviglioso film ha fatto conoscere al pubblico internazionale sia Kiarostami sia il cinema iraniano, ovvero la cinematografia più sorprendente e notevole di tutto il panorama mondiale a cavallo fra gli anni ottanta e novanta (si pensi anche a Makhmalbaf, a Naderi, a Panahi). La minimalistica vicenda – un inno all'amicizia e alla solidarietà disinteressata – vede come protagonista il piccolo Ahmad, un ragazzino di otto anni che cerca disperatamente di riportare all'amico Mohamed Reza – che abita in un altro villaggio – il suo quaderno, che per errore aveva infilato nella propria cartella: il maestro aveva infatti minacciato di espellere Mohamed Reza se si fosse dimenticato ancora il quaderno a casa. Fra l'indifferenza degli adulti, che sembrano non rendersi conto del piccolo dramma che i bambini stanno vivendo, e l'ostilità di una natura che si manifesta nel buio della notte, nello sferzare del vento, nell'ululato dei cani e nella desolazione delle labirintiche strade del villaggio di montagna, con le sue case di fango e roccia e quelle splendide porte azzurre, Ahmad cercherà inutilmente di rintracciare "la casa del suo amico". Il bellissimo finale, con il fiore che compare all'improvviso fra le pagine del quaderno, chiude in maniera sublime una pellicola leggera e profonda al tempo stesso. Aspirante regista di film pubblicitari, Kiarostami ha potuto coltivare la propria arte in patria grazie all'Istituto per lo Sviluppo Intellettuale dei Bambini e degli Adolescenti, un ente dotato fra le altre cose anche di un centro cinematografico i cui prodotti – avendo scopi pedagogici e quasi esclusivamente bambini come protagonisti – ottenevano facilmente il via libera dalla censura degli ayatollah. Con pochissimi mezzi a disposizione, memore della lezione del neorealismo italiano ma capace anche di sviluppare un approccio artistico del tutto personale, Kiarostami ha saputo creare opere affascinanti e intellettualmente stimolanti, dove il senso del bello e l'idea che la poesia possa nascondersi ovunque non hanno affatto bisogno di affidarsi al patetismo, al pauperismo o a una concezione umanitaria distorta. E non è nemmeno vero che il regista si limiti a riprendere la realtà, come in un documentario: lo dimostra – oltre alle vertiginose riflessioni metanarrative dei film successivi – il fatto che persino l'ambiente descritto in questo e in altri suoi film è in realtà tutt'altro che "vergine". Una delle scene più celebri, per esempio, mostra il piccolo protagonista salire e poi scendere più di una volta lungo una collina, dove una strada a zig zag conduce a un albero solitario. Ebbene, quella strada fu fatta realizzare appositamente da Kiarostami, che chiese anche di piantare l'albero dove il terreno era del tutto spoglio.

18 settembre 2008

Il papà di Giovanna (Pupi Avati, 2008)

Il papà di Giovanna
di Pupi Avati – Italia 2008
con Silvio Orlando, Alba Rohrwacher
*1/2

Visto al cinema Plinius.

Siamo a Bologna, negli anni del fascismo. Per troppo amore nei confronti della figlia Giovanna (che frequenta lo stesso liceo nel quale lui insegna), un docente di storia dell'arte fà di tutto perché la ragazza, bruttina e introversa, riesca a socializzare con i compagni. Quando la psicolabile Giovanna ucciderà per gelosia la sua migliore amica e verrà internata in manicomio, il professore continuerà a starle vicino, forse perché nel frattempo si è reso conto che la colpa è proprio delle false illusioni che lui le aveva inculcato. Nel frattempo la guerra cambierà molte cose... Una discreta ricostruzione ambientale (ma la sceneggiatura cerca senza troppo successo di fondere i drammi privati con i grandi eventi storici) e l'ottima prova di Silvio Orlando (premiato a Venezia, in un ruolo che qualche decennio fa sarebbe stato di Carlo Delle Piane) salvano solo in parte un film che nella seconda metà si sfilaccia fra banalità psicologiche sui rapporti familiari e anonimi quadretti dell'Italia del dopoguerra. Brava anche la giovane Rohrwacher, mentre Francesca Neri (nei panni della madre di Giovanna) non aggiunge nulla alla pellicola ed Ezio Greggio (il poliziotto amico di famiglia) mostra tutta la sua inadeguatezza come attore drammatico: sembra sempre sforzarsi per mantenere sul viso un'espressione seria, e la scena in cui i partigiani lo processano è talmente fuori posto che forse Avati avrebbe fatto meglio a toglierla dal film (anche perché, come in fondo tutto il personaggio di Greggio, c'entra poco con il resto della storia). Da sottolineare un fastidioso product placement relativo a una marca di olio, visibile più di una volta sulla tavola del protagonista: al bando la pubblicità dal cinema!

17 settembre 2008

Il coro di Tokyo (Yasujiro Ozu, 1931)

Il coro di Tokyo (Tokyo no korasu)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1931
con Tokihiko Okada, Emiko Yagumo
***

Visto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Nonostante proprio con questo lungometraggio Ozu cominci ad affrancarsi dai generi che avevano caratterizzato i primi anni della sua carriera, ironicamente la pellicola sembra riunire al suo interno tutte le tipologie di film che il regista aveva affrontato fino ad allora: dal gakusei-mono, il film sugli studenti, a quello sui salarymen, gli impiegati; dal cinema di denuncia sociale (shomingeki), che parla di povertà e disoccupazione, a quello incentrato sui rapporti familiari. I continui cambi di registro (si passa dal comico al drammatico nel giro di pochi minuti), anziché rendere la storia poco compatta, ne accrescono l'intensità nei momenti più importanti. Anche stilisticamente il film rappresenta un punto di passaggio dai codici del cinema americano (ci sono ancora echi di Lubitsch e dei grandi comici di Hollywood) verso un approccio più personale (cominciano ad apparire stacchi, ellissi e pause più espressionistiche che motivate da esigenze narrative). La pellicola vede come protagonista un giovane che si chiama Okajima (proprio come il protagonista de "La signorina e la barba", sempre interpretato da Okada, che in altri due film di Ozu si chiamerà invece Okamoto): lo vediamo da studente ribellarsi all'autorità del professore di ginnastica e poi, da impiegato, protestare con il capufficio per l'ingiusto licenziamento di un collega. Otterrà però soltanto di essere licenziato a sua volta. Di fronte alle difficoltà della vita (la scena in cui la figlia si ammala non può non ricordare "La moglie di quella notte", fra l'altro interpretato dagli stessi attori) accetterà un lavoro umile e degradante. La moglie all'inizio se ne vergognerà, ma poi accetterà la situazione con serenità e rassegnazione. E non mancherà un lieto fine, seppur velato di malinconia: per trovare un nuovo lavoro, grazie a una raccomandazione dell'ex professore, la famiglia dovrà abbandonare Tokyo. Molti sono i temi, come detto, che anticipano "l'Ozu che verrà": su tutti, quelli delle dinamiche interne alla famiglia, del rapporto fra padri e figli, dell'umiliazione sociale e della serena accettazione del proprio destino. Fra le scene più memorabili, quella (comica) degli impiegati che si nascondono in bagno per controllare la propria busta paga, e quella (toccante) dei coniugi che nonostante la difficile situazione finanziaria si sforzano di cantare e di giocare con i bambini. Il coro che dà il titolo alla pellicola è intonato dagli ex compagni di Okajima in occasione della riunione scolastica.

Nota: l'attore protagonista, vera e propria star dell'epoca, dopo aver interpretato cinque film per Ozu (questo è l'ultimo, due sono andati perduti), morirà di tubercolosi nel 1934 all'età di soli 31 anni. Il suo ultimo film sarà "Gion matsuri" (1933) di Kenji Mizoguchi. Sua figlia Mariko Okada, nata nel 1933, diventerà a sua volta una celebre attrice e reciterà per Ozu in "Tardo autunno" e "Il gusto del sakè".

16 settembre 2008

Hancock (Peter Berg, 2008)

Hancock (id.)
di Peter Berg – USA 2008
con Will Smith, Jason Bateman, Charlize Theron
*1/2

Visto al cinema Colosseo, con Albertino e altra gente.

Hancock, supereroe brutto, sporco, volgare, donnaiolo, attaccabrighe e spesso ubriaco, non è decisamente amato dalla popolazione di Los Angeles, anche perché ogni suo intervento produce milioni di dollari di danni. Ma quando salva la vita a un addetto alle pubbliche relazioni, costui decide di ricambiarlo lavorando sulla sua immagine e trasformandola in positivo. Hancock accetta di sottoporsi al "restyling", anche perché attratto dalla bella moglie dell'uomo, che però nasconde un segreto... Lo spunto iniziale, abbastanza originale e intrigante, riesce a malapena a reggere la prima metà del film. Poi una sceneggiatura incoerente (la pellicola sembra divisa in due, e persino la caratterizzazione del protagonista cambia di punto in bianco, per non parlare dei numerosi passaggi illogici) e una regia mediocre (che eccede in primi piani e nel movimento senza senso della macchina da presa persino in scene "normali" come quella della riunione dei dirigenti d'azienda) portano il film alla rovina. Disastroso il climax finale, con uno scontro con un "cattivo" che più scialbo non si può. Non si capisce perché gli sceneggiatori, a un certo punto, abbiano sentito il bisogno di dover illustrare le origini dei poteri di Hancock (una delle cose belle della prima parte del film era proprio la mancanza di spiegazioni), trasformando quella che era una parodia del genere in una pellicola di supereroi vera e propria, peraltro mediocre. Nel complesso, un'occasione sprecata: a questo punto, meglio "Mystery Men" o "Sky High".

Pranzo di ferragosto (G. Di Gregorio, 2008)

Pranzo di ferragosto
di Gianni Di Gregorio – Italia 2008
con Gianni Di Gregorio, Valeria De Franciscis
**1/2

Visto al cinema Colosseo.

Già assistente di Matteo Garrone, Gianni Di Gregorio esordisce alla regia con questa commedia molto carina che a Venezia è stata presentata fuori concorso, ricevendo meritati consensi (come l'anno scorso con "Non pensarci", sembra proprio che le migliori pellicole italiane si debbano cercare nelle sezioni collaterali del festival). Lo spunto proviene da un episodio capitato veramente al regista: costretto a rimanere a casa a ferragosto per badare alla madre anziana, il disoccupato Gianni riceve una proposta insolita da parte dell'amministratore del suo condominio: se ospiterà in casa anche la madre dell'uomo, lasciandolo libero di partire per le vacanze, lui in cambio gli abbuonerà le spese condominiali arretrate. Nella realtà pare che Di Gregorio abbia rifiutato una simile proposta, ma nel film le cose vanno diversamente, anche perché Gianni (con un debole per il vino bianco) si trova in ristrettezze economiche: e così, nella sua casa di Trastevere, alla raffinata mamma Valeria (che si esprime con francesismi e ha una passione per Dumas) si aggiungono prima Marina (la scostante madre dell'amministratore, in cerca di una botta di vita e di una storia romantica), poi la zia Maria (arteriosclerotica ma grande appassionata di cucina), e infine Grazia (la madre del medico di famiglia, di buon cuore e di grande appetito nonostante le proibizioni alimentari impostele dal figlio): ottantenni e novantenni che vivacizzano le giornate del pover'uomo fra chiacchiere e ricordi, ripicche e dispetti, amicizia e convivialità. Il regista, anche sceneggiatore oltre che interprete, ha lasciato molta libertà alle anziane attrici (non professioniste) e ne è stato ripagato con dialoghi, battute e situazioni spumeggianti, condite da toni surreali e realistici al tempo stesso, ironici e irresistibili, senza buonismo o retorica. Bella anche l'ambientazione, in bilico tra una Roma calda e deserta e un appartamento vetusto ma accogliente.

15 settembre 2008

$E11.OU7! – Sell Out! (Yeo Joon Han, 2008)

$E11.OU7! – Sell Out!
di Yeo Joon Han – Malesia 2008
con Jerrica Lai, Peter Davis
**1/2

Visto al cinema Plinius, in originale con sottotitoli inglesi (rassegna di Venezia).

La cinica giornalista televisiva Rafflesia Pong, conduttrice di una rubrica culturale poco seguita, prova a rilanciare la propria carriera ideando un reality show... sulla morte. Come fare, però, per trovare sempre nuovi moribondi? Contemporaneamente, il timido ingegnere Eric viene licenziato dalla Fony Corporation, l'azienda di elettrodomestici che controlla anche il canale televisivo per il quale lavora Rafflesia, perché le sue invenzioni sono troppo originali e non si guastano mai. Dopo che un esorcista ha separato la parte creativa e "sognatrice" di Eric da quella pratica, dando vita a due individui distinti, il ragazzo si accorda con la giornalista: lui le procurerà nuove partecipanti al suo show se lei farà una telepromozione in diretta per le sue invenzioni.
Una demenziale pellicola malese, sorprendente e grottesca, che ha saputo ravvivare il panorama di un festival veneziano piuttosto deludente. Se proprio bisogna trovargli un difetto, sta forse nel fatto di voler dirigere i propri strali contro così tanti bersagli da correre il rischio di non colpirne "mortalmente" nessuno, rivelandosi alla fine dei conti abbastanza innocua, anche se parecchio divertente. Si comincia con un attacco al cinema asiatico d'autore (non è difficile riconoscere in Tsai Ming-Liang il bersaglio dell'esilarante parodia) e si prosegue prendendo di mira il mondo dei media e dello spettacolo, i programmi televisivi che "falsificano" i sentimenti; le multinazionali interessate solo a far soldi, la società dei consumi, la dittatura dei telefonini, i rapporti familiari e quelli romantici, e lo stesso linguaggio cinematografico, in particolare quello del musical, del quale si mettono a nudo tutti i cliché (il massimo lo si raggiunge quando una canzone, anziché essere cantata dal protagonista, è presentata in forma di karaoke per invitare il pubblico in sala a partecipare). Peter Davis recita in maniera atroce, ma c'è il forte dubbio che la cosa sia voluta (all'inizio il regista viene accusato di fare film con i sottotitoli in modo che il pubblico, impegnato a leggerli, non si accorga di quanto gli attori recitino male!). Da vedere, almeno una volta nella vita.

12 settembre 2008

Il segreto di una donna (O. Preminger, 1949)

Il segreto di una donna (Whirlpool)
di Otto Preminger – USA 1949
con Gene Tierney, José Ferrer
**1/2

Visto in DVD.

Anna, bella e fragile moglie di un ricco psicanalista, è segretamente una cleptomane: pur di non rivelarlo al marito, preferisce affidarsi alle cure di un misterioso individuo, il dottor Korvo, astrologo e ipnotizzatore. Costui la plagia lentamente e riesce addirittura a farla accusare di omicidio, ma il marito (Richard Conte) e un anziano poliziotto (Charles Bickford) cercheranno di scoprire la verità. Raffinato noir che difetta forse di tensione (l'innocenza di Anna, per gli spettatori, non è mai in dubbio come invece per i personaggi della pellicola) ma è girato con grande stile da parte del regista, che fa abbondante uso dei primi piani e può contare sull'ottima fotografia in bianco e nero di Arthur Miller. Ingenuità psicanalitiche a parte, la sceneggiatura (di Ben Hecht) punta tutto sulla descrizione dei rapporti di forza e di debolezza fra i personaggi: nella prima parte mette al centro dell'attenzione quello interpretato da Gene Tierney e rivela come il suo matrimonio apparentemente perfetto non sia tutto rose e fiori. Nella seconda sale invece alla ribalta il folle Korvo, disposto ad auto-ipnotizzarsi pur di sopportare il dolore di un'operazione chirurgica necessaria per crearsi un alibi. Bello il finale, con la figura della donna uccisa che torna a vivere e a confrontarsi con l'assassino attraverso il suo ritratto e la sua voce, incisa su un disco. Cinque anni prima la Tierney aveva già collaborato con Preminger nel ben più memorabile "Vertigine" (e anche lì c'era di mezzo un ritratto...).

11 settembre 2008

La signorina e la barba (Yasujiro Ozu, 1931)

La signorina e la barba (Shukujo to hige)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1931
con Tokihiko Okada, Hiroko Kawasaki
***

Visto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Il barbuto Okajima, campione di kendo e studente appena laureato, viene deriso dalle ragazze "moderne" per i suoi atteggiamenti antiquati e fatica a trovare lavoro a causa del suo aspetto trasandato. La timida Hiroko, da lui salvata dall'aggressione della perfida Satoko, gli suggerisce allora di radersi. Nonostante sia convinto che "tutti i grandi uomini avevano la barba" (e per dimostrarlo mostra ritratti di Lincoln, Ibsen e Marx!), Okajima segue il consiglio e la sua vita cambia subito: viene assunto e soprattutto fa innamorare di sé sia la vendicativa Satoko sia la pretenziosa Ikuko, che in precedenza l'aveva sempre snobbato. Ma il suo cuore è tutto per Hiroko. Film strano, ma parecchio gradevole: la prima parte è decisamente molto divertente, con Okajima protagonista di numerose gag comiche, alcune delle quali tra le più spudorate mai viste nel cinema di Ozu: dal buffo incontro iniziale di kendo al colloquio di lavoro (con Okajima e il capoufficio, entrambi barbuti, che compiono gli stessi movimenti, quasi allo specchio), dalle sorprendenti associazioni di idee (barba -> Lincoln -> automobile) alle situazioni "chapliniane" (Okajima che cerca di nascondere i difetti del proprio abbigliamento). La seconda parte, incentrata sulle tre "pretendenti", è invece più melodrammatica e sfocia nella duplice scena in cui prima Ikuko e poi Hiroko sorprendono Satoko in casa di Okajima. La prima fuggirà scandalizzata, la seconda avrà invece fiducia in lui e spingerà anche la "bad girl" Satoko sulla strada della redenzione. Nel film spiccano molti dei temi dell'Ozu di questo primo periodo, su tutti il contrasto fra tradizione e modernità che risulta evidente dalla caratterizzazione dei personaggi, in particolare di quelli femminili, quasi stereotipati: Hiroko è umile e "tradizionale", Ikuko è snob e raffinata, Satoko è "moderna" e poco di buono (dicotomia già vista, con solo due personaggi, in "Passeggiate allegramente!"). Sarebbe sbagliato però leggere il film in chiave esclusivamente conservatrice: Ozu, proprio con le disavventure del protagonista, mostra anche le contraddizioni e gli svantaggi sociali che nascono dal mantenere uno stile di vita troppo fedele alla tradizione in un mondo in rapido cambiamento.

10 settembre 2008

La moglie di quella notte (Yasujiro Ozu, 1930)

La moglie di quella notte (Sono yo no tsuma)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1930
con Tokihiko Okada, Emiko Yagumo
**1/2

Rivisto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Sceneggiato da Kogo Noda a partire da "Dalle nove alle nove" di tale Oscar Shisgall, uno dei tanti racconti mystery all'americana che in quel periodo spuntavano come funghi sulle riviste giapponesi (in fondo erano gli anni di Edogawa Rampo), è un film che si dipana nell'arco di una sola notte e che nella seconda parte si svolge addirittura in una sola stanza. All'inizio, immerso nelle tenebre, vediamo un uomo mascherato compiere una rapina in un ufficio postale per procurarsi il denaro necessario per pagare le cure alla figlioletta, gravemente malata. Nel frattempo il dottore ha spiegato alla madre che la bambina sopravviverà soltanto se riuscirà a passare la notte. Un ostinato detective riesce a seguire il rapinatore fino a casa, ma dapprima verrà disarmato e preso "in ostaggio" dalla moglie del ladro, che lo terrà sotto tiro tutta la notte mentre il marito veglia amorevolmente la bambina, e poi – quando la donna cederà al sonno – commosso dalla situazione familiare, si rivelerà intenzionato a lasciarlo fuggire. Ma all'alba questi preferirà consegnarsi alla giustizia per espiare la propria colpa. Velato di umanesimo e di melodramma, il film è quasi un precursore del genere noir e costituisce senza dubbio un oggetto singolare all'interno della filmografia di Ozu. Bravi e adeguati i tre interpreti (il poliziotto è Fuyuki Yamamoto), soprattutto Emiko Yagumo nei panni della moglie. Nella casa dove vive la famiglia si intravedono stampe, scritte in inglese e numerose locandine cinematografiche: una costante delle prime opere di Ozu.

9 settembre 2008

Ghost Rider (M. S. Johnson, 2007)

Ghost Rider (id.)
di Mark Steven Johnson – USA 2007
con Nicolas Cage, Eva Mendes
*1/2

Visto in DVD, con Albertino e Ghirmawi.

Johnny Blaze, spericolato motociclista acrobatico, fa un patto con il diavolo (Peter Fonda) e si trasforma nel suo "cacciatore di taglie", un centauro dal teschio infuocato dotato dello "sguardo della penitenza". Mefistofele lo invierà contro suo figlio Blackheart e altri tre demoni che intendono impossessarsi delle anime degli abitanti di un antico villaggio. Diretto dallo stesso regista di "Daredevil" (che comunque era peggio, soprattutto considerando il materiale di partenza), è un film brutto ma meno di quanto mi sarei aspettato. Se lo si guarda con il cervello spento, tra amici, senza attendersi altro che un vendicatore infernale che sfreccia in moto di notte e senza lamentarsi di non averci trovato di più, si riesce anche a goderselo. Anche il fumetto, a ben pensarci, non è che avesse tutta questa profondità, e il film ne rispetta abbastanza lo spirito, mentre l'atmosfera "maledetta" e le suggestioni alla Robert Johnson sono apprezzabili. In ogni caso la sceneggiatura (dello stesso regista) è confusa, ai limiti dell'assurdo e piena di buchi e di contraddizioni (perché ai poliziotti è sufficiente trovare la sua targa bruciata per accusare Johnny di omicidio? Perché il vecchio cowboy si può trasformare solo una volta, e spreca questa occasione solo per accompagnare Johnny al villaggio? Perché i demoni possono entrare in alcune chiese e non in altre?), indice di una scarsa cura per la storia e per i collegamenti logici fra una scena e l'altra, per non parlare ovviamente dell'assenza di ogni tipo di caratterizzazione psicologica. Le fattezze di Ghost Rider, con tuta di pelle, borchie e catena, vengono dalla seconda serie a fumetti (quella disegnata da Mark Texeira, per intenderci), ma il nome del personaggio è invece quello della prima. Apprezzabile l'omaggio al Ghost Rider western, anch'egli protagonista di una serie Marvel, mentre la scena in cui Blackheart si fa chiamare Legione non è un riferimento all'omonimo mutante, figlio di Charles Xavier, ma una citazione biblica. Gli attori scelti per interpretare Cage (soprattutto) e la Mendes da giovani non assomigliano per niente alle loro controparti adulte.

8 settembre 2008

La fortezza nascosta (A. Kurosawa, 1958)

La fortezza nascosta (Kakushi toride no san akunin)
di Akira Kurosawa – Giappone 1958
con Toshiro Mifune, Misa Uehara
***1/2

Rivisto in DVD, con Marisa.

Nel Giappone feudale funestato dalle guerre civili, dopo la sconfitta del regno di Akizuki a opera delle truppe del clan Yamana, due poveri contadini e aspiranti soldati sfuggono alla prigionia e scoprono per caso l'ubicazione del tesoro reale: l'oro è stato nascosto dal samurai Rokurota Makabe, da loro ritenuto un semplice brigante, all'interno di fascine di legno custodite in una fortezza celata fra le montagne. Spinti dall'avidità, i due contadini (interpretati da Minoru Chiaki e Kamatari Fujiwara e veri protagonisti del film, sebbene restino personaggi alquanto passivi e costantemente all'oscuro di gran parte delle vicende) si uniscono a lui per aiutarlo a trasportare la legna fino al paese amico di Hayakawa, attraversando il territorio presidiato dai nemici: il viaggio ha però anche lo scopo di condurre in salvo la principessa Yuki, ultima superstite della famiglia reale di Akizuki, camuffata come una ragazza semplice e muta, visto che il suo modo di parlare ne tradirebbe le origini regali. Anche senza rinunciare al suo tocco umanista (l'intera vicenda è un lungo viaggio di iniziazione e di crescita per quasi tutti i personaggi: la principessa impara a conoscere il mondo; i contadini devono fare i conti con la loro avidità e litigiosità; Rokurota impara ad apprezzare l'aiuto dei compagni; il suo rivale Tadokoro sceglierà di fuggire con l'amico dopo essere stato umiliato dal suo padrone), con questo film Kurosawa realizza un'opera più divertente, semplice e accessibile rispetto ai suoi lavori precedenti, il che naturalmente non ne riduce il valore. Più racconto d'avventura che film di samurai, la pellicola è stata definita giustamente da più critici "picaresca" e addirittura "ariostesca" per la leggerezza e l'efficacia della narrazione e i personaggi variopinti e spesso sopra le righe (dai samurai come Rokurota e Tadokoro, il cui eroismo è a volte così esagerato da sembrare una parodia dei jidai-geki dell'epoca, ai due meschini popolani con i loro continui battibecchi; dalla principessa orgogliosa e nobile – indimenticabile nella sua apparizione 'mascolina' con frustino e pantaloni corti, sembianze che potrebbero aver ispirato quelle del personaggio di "Final Fantasy VII" Tifa Lockhart – all'umile e coraggiosa serva che viene acquistata lungo la strada). La ricostruzione storica, lungi dall'essere accurata, è quasi fiabesca: non a caso i nomi dei tre clan coinvolti – Akizuki, Yamana e Hayakawa – sono immaginari, o almeno così mi risulta. Toshiro Mifune ruba la scena a tutti e la sua figura imponente incute timore al solo guardarlo. Si dice che il film abbia ispirato George Lucas per il primo "Guerre stellari" (ma solo superficialmente: la principessa da portare in salvo, i posti di blocco da superare con tecniche "psicologiche", i due contadini che hanno la stessa funzione narrativa dei due androidi...), e la cosa è stata messa in risalto nel remake giapponese del 2008, dove il cattivo (un Tadokoro che stavolta non si pente) indossa addirittura un elmo nero in stile Darth Vader. Da notare che si trattava del primo film di Kurosawa girato in cinemascope, opportunità che il regista sfrutta benissimo e che gli permette di esibire tutte le sue notevoli doti scenografiche.

6 settembre 2008

Sono stato bocciato, ma... (Yasujiro Ozu, 1930)

Sono stato bocciato, ma... (Rakudai wa shita keredo)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1930
con Tatsuo Saito, Kinuyo Tanaka
**1/2

Rivisto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Seconda di tre pellicole di Ozu con un titolo simile (dopo "Mi sono laureato, ma..." e prima di "Sono nato, ma..."), anche questo, come "Giorni di gioventù", è un gakusei-mono, ovvero un film sugli studenti, sulla loro vita, gli scherzi goliardici, i rapporti con i professori. Il protagonista Shomachi divide la stanza con quattro compagni di studi ma preferisce bighellonare con un gruppo di amici che escogitano ogni possibile trucco per passare gli esami universitari senza dover studiare. La tattica di Shomachi è quella di scriversi gli appunti sulla camicia: ma quando la padrona di casa manda l'abito in lavanderia, il ragazzo non ha più scampo e viene inesorabilmente bocciato. I suoi compagni di stanza, invece, si laureano tutti. Faticano però a trovare lavoro e si ritrovano a rimpiangere gli anni spensierati dell'università: "vista la situazione, che bisogno c'era di laurearsi così in fretta?". Il film è ricco di numerose gag (come quella del foglio di appunti appeso alla schiena del professore durante gli esami), con alcuni debiti verso Harold Lloyd ("The freshman") e Buster Keaton. Quando Shomachi viene bocciato, si vede per un attimo l'immagine di un cappio (ma è solo la corda di una lampada) e poi il ragazzo che afferra un paio di forbici (ma solo per tagliarsi le unghie dei piedi!). Nella seconda parte, Ozu indugia a scrutare i pensieri dei personaggi, ma si diverte anche a filmare i loro movimenti "di gruppo", all'unisono. Molto bella la scena in cui, con due carrellate, mostra l'elenco dei nomi dei promossi appeso alla parete e i volti degli studenti che lo leggono con apprensione. Nel cast ricompaiono anche il piccolo Tomio Aoki/Tokkan Kozo (da "Un bambino che non si ferma mai"), Chishu Ryu (uno dei compagni di classe) e Kinuyo Tanaka (la cameriera del bar che regala la cravatta a Shomachi).

5 settembre 2008

Venezia e Locarno 2008

Ho appena letto il programma della Panoramica dei film di Venezia (e Locarno) in programma la prossima settimana a Milano e ho deciso che quest'anno non acquisterò l'abbonamento, nonostante fino a oggi fossi assolutamente deciso a farlo. Dopo la delusione della rassegna di Cannes dello scorso giugno, speravo infatti di rifarmi la bocca con quella di Venezia, e invece niente, il programma della rassegna sembra fatto apposta per lasciar fuori i film più interessanti. Niente Kitano, niente Oshii, niente Miyazaki (vabbè, tanto questo l'ho già visto in Giappone), niente Naderi, niente Kiarostami, e in generale nessuno dei tanti film orientali presenti al Lido e che mi interessava vedere.
Fra i film del concorso ci sono soltanto i quattro italiani (dei quali l'unico che forse mi interessava era quello di Bechis) e ciofeche più o meno annunciate come i film di Arriaga o di Schroeder (per non parlare del solito “capolavoro” dei fratelli Coen, fuori concorso). Per vedere 'sta roba e Ozpetek, 40 euro non li sborso nemmeno in sogno. Peccato: nei due anni precedenti la rassegna mi aveva dato modo di vedere e scoprire ottime pellicole, ma l'impressione è che stavolta avrei rimediato soltanto arrabbiature.

4 settembre 2008

Kung Fu Panda (Osborne, Stevenson, 2008)

Kung Fu Panda (id.)
di Mark Osborne, John Stevenson – USA 2008
animazione digitale
***

Visto al cinema Odeon, con Saveria e Stefano.

Il malvagio Tai Lung è fuggito dalla prigione dove era stato rinchiuso ed è assetato di vendetta. La valle è in pericolo! Per fortuna, il saggio Ogwei ha designato il "guerriero dragone" che, secondo la tradizione, dovrà salvare tutti. Per sfortuna, questo guerriero è un panda obeso e imbranato... ma gli insegnamenti del vecchio maestro Shifu riusciranno a compiere il miracolo di trasformarlo in brevissimo tempo in un abile atleta di arti marziali. Normalmente i film animati della DreamWorks non mi piacciono (e non soltanto perché viene naturale paragonarli con quelli della Pixar): li trovo troppo leggerini nella storia, caratterizzati da un umorismo adolescenziale e troppo concentrati a costruire personaggi "simpatici" ma poco profondi, difetti che a ben vedere non sono assenti nemmeno in "Kung Fu Panda". Però questa volta mi sono decisamente divertito: merito di un atteggiamento più affettuoso che parodistico verso il genere del kung fu movie, che fra l'altro era già stato dissacrato a volontà dagli stessi cantonesi (le scene dei duri allenamenti cui è sottoposto il panda non possono non ricordare quelle dei vecchi film di Jackie Chan dei primi anni ottanta). La trama è semplice e leggera, è vero, e il tema di fondo scontatissimo (il loser che trova in sé stesso la forza per diventare un eroe), ma il ritmo è efficace, i personaggi azzeccati, le gag divertenti, e pure i tòpoi del genere sono sfruttati in maniera adeguata, a volte persino sottile, e non semplicemente accatastati l'uno sull'altro. Anche gli animali sono usati in maniera geniale e a suo modo sofisticata: la valle è popolata da centinaia di conigli, maiali e paperi, ossia animali da cortile e di poco valore, mentre i grandi maestri di kung fu appartengono a specie più rare o più preziose; i cinque guerrieri addestrati da Shifu corrispondono alle tecniche tradizionali del kung fu (tigre, gru, serpente, scimmia, mantide); la scena in cui sembra che il padre del panda (un papero!) stia per rivelare al figlio di non essere il suo genitore naturale è esilarante; e così via... Se i momenti comici non mancano, non sono assenti nemmeno quelli drammatici, legati soprattutto al rapporto di Shifu con il figlio adottivo Tai Lung. La cultura cinese e i "messaggi" zen non sono banalizzati, e infine i combattimenti, pur buffi, sono dinamicissimi e "fisici" (come è giusto che sia) e strizzano l'occhio persino alle pellicole degli Shaw Brothers. Dispiace solo che il film sia così breve: certi passaggi narrativi sono troppo repentini e alcuni personaggi (le "cinque furie" per esempio, con l'eccezione forse di Tigre) non caratterizzati a sufficienza. Peccato infine non averlo visto in lingua originale (dove spiccavano le voci di Jack Black, Dustin Hoffman, Angelina Jolie, Jackie Chan, Lucy Liu), ma rimedierò con il DVD.

3 settembre 2008

Passeggiate allegramente! (Yasujiro Ozu, 1930)

Passeggiate allegramente!, aka Spensierato (Hogaraka ni ayume)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1930
con Minoru Takada, Hiroko Kawasaki
***

Rivisto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

"Kenji il coltello", elegante gangster di strada che si dedica a piccoli furtarelli con la complicità degli amici Senko e Gunpei, si innamora di Yasue, una normale dattilografa. Per amor suo decide di cambiar vita e di diventare onesto, accettando un lavoro umile come lavavetri, ma gli amici di un tempo – e soprattutto la sua precedente ragazza, la spregiudicata Chieko – vorrebbero riportarlo nel "giro". Un brillante gangster movie, un genere insolito per Ozu (anche se, come ricordato, nei suoi primi anni di carriera il regista era un accanito frequentatore del cinema di genere). L'ottima costruzione dei personaggi e l'atmosfera moderna lo rendono uno dei lavori più accattivanti di questo primo periodo della sua carriera. I film sugli yakuza "all'americana", all'epoca, erano piuttosto popolari e costituivano un filone a sé stante, spesso ambientati fra i locali notturni e i jazz club nel quartiere di Asakusa (non lontano da Ginza, dove si svolge la scena dell'incontro fra Kenji e Yasue). Stilisticamente, il film è fra i più "movimentati" di Ozu: la macchina da presa fa continue carrellate (come quella all'indietro che apre la pellicola) e segue i personaggi nelle loro camminate e nelle gite in macchina, anche se già l'uso del montaggio, con i continui stacchi e i numerosi inserti (vedi le inquadrature sui piedi, sulle pareti – come nella scena in cui gli impiegati appendono i cappelli al muro – e sugli ambienti circostanti) suggerisce quale piega il regista prenderà in futuro. Anche a livello di sceneggiatura il film mi pare ottimo, con continui rimandi e riferimenti interni: le automobili, per esempio, sono un tema ricorrente sin dalla prima scena: a un certo punto Senko afferma "Che bella auto! Un giorno mi piacerebbe guidarne una così!", e in effetti più avanti lo vediamo proprio al volante di una macchina di lusso... peccato però che faccia solo l'autista! E non male le scenografie: nell'appartamento che Kenji divide con Senko vediamo locandine di incontri di boxe, poster, disegni e testi di canzoni in inglese scritti sulla parete. Da notare la contrapposizione fra le due donne: quella "buona", Yasue, è umile, sempre vestita in kimono e pronta al sacrificio; quella "cattiva", Chieko, è vestita all'occidentale, fuma, ha un'acconciatura alla Louise Brooks. Una curiosità: durante la loro scampagnata, Kenji e Yasue vanno a fare un picnic in macchina ai piedi della statua del Grande Buddha di Kamakura!

2 settembre 2008

Triangle (Tsui Hark, Ringo Lam, Johnnie To, 2007)

Triangle (Tie saam gok)
di Tsui Hark, Ringo Lam, Johnnie To – Hong Kong 2007
con Simon Yam, Louis Koo, Sun Honglei
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Curioso esperimento, questa pellicola realizzata a sei mani: non si tratta di un film a episodi, bensì di un lungometraggio in cui ciascun regista ha a propria disposizione trenta minuti e deve proseguire la vicenda (lavorando in tutta autonomia con la propria troupe e i propri sceneggiatori) dal punto in cui è stata interrotta dal collega precedente, mantenendo naturalmente gli stessi attori e la stessa ambientazione. Tsui Hark, responsabile della parte iniziale, ha il compito di presentare i personaggi e di mettere in moto la storia; Ringo Lam, cui tocca il segmento centrale, porta avanti la pellicola e la lascia con un cliffhanger; Johnnie To (la cui casa di produzione Milkyway è alla base del progetto) la conclude alla sua maniera. Naturalmente lo stile, il mood, le atmosfere e persino le caratterizzazioni dei protagonisti variano sensibilmente al passaggio della macchina da presa da una mano all'altra, al punto da lasciare alla fine quasi l'impressione di aver visto tre film diversi. Il risultato comunque non è spiacevole: vuoi per la novità dell'operazione, vuoi per il valore qualitativo che i tre registi, in ogni caso, riescono a garantire.

Nel segmento di Tsui Hark facciamo la conoscenza con Sam (un impiegato in difficoltà finanziarie), Fai (un giovane tassista che frequenta gli ambienti della malavita) e Mok (un misterioso antiquario): imbeccati da uno strano individuo incontrato in un bar, i tre amici scoprono un antico tesoro ma faticano a fidarsi l'uno dell'altro (bella la scena in cui si fotografano a vicenda con i cellulari). Nel frattempo la moglie di Sam rivela al suo amante, il poliziotto Wen, che il marito sta tentando di ucciderla. La fotografia è oscura e notturna, i dialoghi rapidi, la carne al fuoco molta e i personaggi ambigui e misteriosi a sufficienza da permettere ai registi successivi, se lo vogliono, di ampliarne o di modificarne il background. Ed è infatti quello che succede.
Nel segmento di Ringo Lam, il più tradizionale dal punto di vista cinematografico, i personaggi agiscono maggiormente alla luce del sole. I riflettori si spostano decisamente su Sam (interpretato da Simon Yam), che acquista una personalità più vigorosa e decisa. Scopriamo che sua moglie Ling è una paranoica: né la sua gravidanza, né i tradimenti del marito né tantomeno i suoi tentativi di ucciderla erano reali. Il subdolo Wen, approfittando della situazione, si impossessa del tesoro e fugge per la campagna, mentre i tre protagonisti si lanciano al suo inseguimento.
Johnnie To si rivela subito il più "autore" dei tre registi, nel bene e nel male: gli bastano pochi minuti per risolvere alcune delle situazioni lasciate in sospeso da Lam, scegliendo bellamente di ignorarne altre. Fra tocchi surreali (vedi l'ingresso in scena di Lam Suet) e un'ambientazione sospesa e fuori dal mondo (quasi una parodia di "Dragon Inn"), conduce il film verso strade inaspettate ed è sicuramente il più attento al lato cinematografico dell'operazione, a scapito magari della caratterizzazione dei singoli personaggi: ma in fondo l'aspetto interessante del film consiste proprio nelle sue differenze e contraddizioni interne, altrimenti l'intero esperimento non avrebbe avuto senso. Per citare il mio amico Ernesto, "tre registi che girano a partire da un'unica sceneggiatura, pensata in anticipo, fondamentalmente rischiano di fare come i registi di seconda o terza unità, quelli che lavorano quando il regista principale è occupato altrove seguendo pedissequamente le sue direttive. Mentre in questo caso dovevano anche scrivere la storia, con i propri sceneggiatori, e questo da una parte crea una specie di slegatura, ma dall'altra è proprio il bello di un lavoro del genere".

Un bambino che non si ferma mai (Y. Ozu, 1929)

Un bambino che non si ferma mai (Tokkan kozo)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1929
con Tomio Aoki, Takeshi Sakamoto, Tatsuo Saito
**1/2

Rivisto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Anche di questo film, che fino al 1990 si credeva perduto, non rimangono che 14 minuti (ovvero il primo e l'ultimo dei quattro rulli: in tutto la pellicola originale doveva durare 37 minuti). La storia vede una coppia di scalcinati rapitori di bambini alle prese con una "vittima" fin troppo vivace. Il bambino rapito, infatti, si fa dapprima regalare cibo e giocattoli minacciando di fare i capricci e di richiamare l'attenzione dei poliziotti, e poi farà impazzire i malviventi con le sue continue marachelle, al punto che i due, disperati, preferiranno riportarlo nella strada dove lo avevano prelevato. Non particolarmente interessante dal punto di vista registico (ma le prove degli attori sono buone), si tratta di un cortometraggio comico e slapstick che ha poco a che spartire con il resto dell'opera di Ozu. La sceneggiatura è ispirata a un racconto di O. Henry ("The ransom of Red Chief") e forse anche ai film muti americani della serie "Our gang/Little rascals". Il piccolo protagonista, Tomio Aoki, che qui aveva sei anni, diventerà popolare proprio con il nome d'arte di Tokkan Kozo (il titolo del film) e interpreterà diverse pellicole dello stesso genere, specializzandosi nel ruolo del "monello" e lavorando ancora per Ozu in svariati film (fra cui "Sono nato, ma...", "Capriccio passeggero", "Storia di erbe fluttuanti" e "Una locanda di Tokyo"), ma anche per Naruse.

1 settembre 2008

Mi sono laureato, ma... (Yasujiro Ozu, 1929)

Mi sono laureato, ma... (Daigaku wa deta keredo)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1929
con Minoru Takada, Kinuyo Tanaka
**1/2

Rivisto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Di questo film sono sopravvissuti soltanto 12 minuti, che però sono sufficienti a "ricostruire" la trama, visto che si tratta di frammenti sparsi e non di una sequenza unitaria. La storia è quella di Tetsuo, un ragazzo che fatica a trovare un lavoro adeguato a Tokyo, nonostante abbia brillantemente terminato gli studi. Gli vengono infatti offerti soltanto impieghi non qualificati, che lui rifiuta sdegnosamente. Ma quando scoprirà che la giovane moglie – che lo ha raggiunto dal paese perché lui aveva nascosto alla famiglia la sua condizione di disoccupato – è costretta a lavorare come intrattenitrice in un bar pur di racimolare il denaro necessario per vivere, Tetsuo chinerà la testa e accetterà anche un incarico umile: verrà ricompensato dal datore di lavoro, che aveva soltanto voluto metterlo alla prova: "ora hai capito le difficoltà della vita". Molto più delle altre girate in questo primo periodo, la pellicola sembra avvicinarsi al genere di film che Ozu realizzerà nella sua maturità, incentrati su rapporti familiari e borghesi. Non a caso la scena della visita della madre può già evocare, molto alla lontana, "Viaggio a Tokyo". Peccato non poterlo vedere nella sua integrità, ma anche così sembra una pellicola interessante e piacevole, attento all'osservazione sociale (già allora i laureati faticavano a trovare lavoro!), e con molte inquadrature e scelte registiche interessanti e moderne per quei tempi. Nella stanza di Tetsuo, sullo sfondo, viene mostrato più volte il poster di un film con Harold Lloyd. Kinuyo Tanaka, nei panni della moglie, inaugura la sua lunga collaborazione con Ozu.

Una curiosità: in una scena si vede una scritta in katakana, ma i caratteri in orizzontale sono scritti da destra a sinistra! La stessa cosa l'avevo notata nel precedente "Giorni di gioventù" (il nome della stazione ferroviaria della località sciistica). Che a quei tempi si usasse così?