23 maggio 2019

La vita agra (Carlo Lizzani, 1964)

La vita agra
di Carlo Lizzani – Italia 1964
con Ugo Tognazzi, Giovanna Ralli
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Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Luciano Bianchi (Tognazzi), intellettuale di provincia, lascia il paese natìo per trasferirsi a Milano dopo che un'esplosione ha devastato la miniera locale, causando 43 morti (il riferimento reale è alla tragedia di Ribolla, avvenuta nel 1954). La sua intenzione è quella di farsi giustizia, distruggendo con il tritolo l'enorme grattacielo (il “torracchione”) in cui ha sede la compagnia mineraria. Ma nel corso di un anno (raccontato tutto in un lungo flashback), la sua spinta rivoluzionaria si esaurirà e lui finirà con rientrare nei ranghi e farsi riassorbire dal “sistema”. Dal romanzo semi-autobiografico di Luciano Bianciardi, sceneggiato con Luciano Vincenzoni, una pellicola antropologica, dai toni a tratti surreali (Tognazzi parla in prima persona direttamente allo spettatore) e satirici, che riflette sull'Italia moderna, sulle conseguenze del miracolo economico, sulla trasformazione della società e della cultura (per mantenersi Luciano cambia diversi lavori, da consulente culturale a traduttore di romanzi dall'inglese, trovando infine successo come ideatore di slogan pubblicitari (ovvero “persuasore occulto”), finendo col tornare a lavorare come responsabile del marketing proprio per quella compagnia che lo aveva licenziato in precedenza). Se in provincia ha lasciato una moglie e un figlio, nonché il ruspante amico Libero (Giampiero Albertini) con il quale si è accordato per distruggere il grattacielo, in città si trova un'amante, la giornalista Anna (Giovanna Ralli), anch'essa inizialmente contestatrice e poi riassorbita pian piano in un ruolo borghese. Insieme a lei si trasformerà proprio in quell'“italiano medio” verso il quale provava insofferenza: passa da una squallida pensione a una camera in affitto (nell'appartamento di una bizzarra coppia “svizzera”), fino all'acquisto di una casa propria nelle periferie in via di sviluppo (oltre a un'automobile, passando dalla condizione di “pedone” schiacciato ai margini della strada a quella di “autista” che la strada la occupa, sia pure imbottigliato nel traffico). Nel complesso, un film dai toni acuti che ritrae in modo emblematico (e senza retorica passatista) un periodo storico-culturale ben preciso, quello in cui l'Italia stava diventando un paese moderno, con tutte le contraddizioni del caso: molti temi anticipano addirittura “Fight Club” (benché la costellazione psicologica sia ben diversa). In alcune sequenze c'è un giovane Enzo Jannacci che canta in trattoria un paio di canzoni poco note (fra cui "L'ombrello di mio fratello"). Nel romanzo (e nella realtà), Bianchi/Bianciardi proveniva da Grosseto e non da Guastalla.

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