24 maggio 2019

Dolor y gloria (Pedro Almodóvar, 2019)

Dolor y gloria (id.)
di Pedro Almodóvar – Spagna 2019
con Antonio Banderas, Penélope Cruz
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Visto al cinema Colosseo.

Il regista e scrittore Salvador Mallo (Antonio Banderas), che convive con la depressione e con dolori e malattie croniche, fatica a uscire dal guscio in cui si è rinchiuso negli ultimi anni. Un'opportunità gliela offre il restauro di una sua pellicola di 32 anni prima, "Sabor", alla cui presentazione viene invitato insieme all'attore protagonista, Alberto Crespo (Asier Etxeandía), con il quale non si parla da allora dopo aver litigato per divergenze sulla sua interpretazione. Riallacciare i rapporti con Alberto lo porta a ritrovare anche l'amante di un tempo, Federico (Leonardo Sbaraglia), di passaggio a Madrid da Buenos Aires, che assiste alla recita di un monologo incentrato proprio sulla loro vita insieme. E nel frattempo, mentre sperimenta pericolosamente con l'eroina nel tentativo di sopportare il dolore che lo attanaglia (cosa curiosa, visto che i rapporti con Alberto e con Federico furono messi a repentaglio proprio dalle loro tossicodipendenze), rivive la propria infanzia in una serie di sogni o di ricordi a occhi aperti: i momenti trascorsi insieme alla madre, il trasferimento con la famiglia in una "grotta" a Paterna, le prime pulsioni omosessuali verso il giovane imbianchino Eduardo (César Vicente)... Siamo di fronte all'"Otto e mezzo" (o "Lo specchio") di Almodóvar: un film praticamente autobiografico (il regista ha detto: "il tasso di autobiografia sul fronte dei fatti è del 40 per cento, ma per quello che riguarda un livello più profondo, si tratta del 100 per cento. In tutti i posti dove il personaggio di Antonio è stato, ci sono stato anche io, la casa di Salvador è una copia della mia, ci sono i miei mobili, i miei quadri, tutto quello che nel film non ho vissuto potrei però averlo vissuto"). E dunque c'è tutto quello che avevamo visto (o intravisto) nei precedenti film: l'amore per l'arte (che si fonde con la vita), o meglio la potenza salvifica dell'espressione artistica (il cinema, la scrittura, il teatro, il disegno), che permea non solo Salvador ma un po' tutti i personaggi; il fascino del cinema, in particolare quello della Hollywood classica (Natalie Wood in "Splendore sull'erba", Marilyn Monroe in "Niagara"); e ancora, le esperienze infantili e formative, la povertà, la scuola dai preti, la sofferenza della malattia. Non a caso Almodóvar fa ricorso ai suoi attori feticcio: un Banderas barbuto, mai così sofferto e misurato (all'ottavo film con il regista), una splendida Penélope Cruz nel ruolo della madre Jacinta da giovane (o forse, come ci rivela l'ultima inquadratura, è soltanto l'attrice che la interpreta nel nuovo film di Salvador: si spiegherebbe così la mancata somiglianza con Julieta Serrano, che interpreta invece Jacinta da anziana), e Cecilia Roth nel breve ruolo di Zulema. Nora Navas è la manager tuttofare Mercedes, Asier Flores è Salvador bambino. A livello di perfezione la regia, grazie anche a una fotografia che dona una concretezza eterea e iperrealista ai colori, ai materiali, alle scenografie, agli oggetti di scena.

2 commenti:

Marisa ha detto...

Più si invecchia e più riaffiorano le immagini dell'infanzia e per un artista, soprattutto per un regista che vive di immagini, è quasi inevitabile che esse diventino protagoniste del proprio lavoro.
Molto toccante la rivelazione della propria omosessualità al bambino ancora del tutto ignaro. Lo svenimento davanti alla prorompente bellezza del corpo maschile, una specie di bronzo di Riace che emerge dall'acqua, fa da precursore a tutta la futura vita sentimentale e ai suoi dolori...

Christian ha detto...

Banderas qui è magistrale nel dare espressione al dolore e alla sofferenza di un Almodóvar riflessivo e invecchiato. Meritato il premio a Cannes come miglior attore.