9 settembre 2021

Il bandito delle 11 (Jean-Luc Godard, 1965)

Il bandito delle 11 (Pierrot le fou)
di Jean-Luc Godard – Francia 1965
con Jean-Paul Belmondo, Anna Karina
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Intellettuale e insegnante di spagnolo, sposato a Parigi con una ricca italiana, l'insoddisfatto Ferdinand (Belmondo) ritrova per caso una sua ex studentessa, Marianne (Karina), con cui aveva avuto in passato una relazione e che si ostina a chiamarlo Pierrot (per via della canzone "Au clair de la lune"), e decide di mollare tutto per scappare insieme a lei. Durante la rocambolesca fuga verso il sud della Francia, i due commetteranno furti e rapine, intrecceranno una relazione romantica che procederà fra alti e bassi, e saranno implicati in un misterioso intrigo internazionale. Già protagonista del film d'esordio di Godard (l'iconico "Fino all'ultimo respiro", di cui questo è un discendente diretto), Belmondo torna in una pellicola decostruita e che sembra improvvisata sul momento, senza una trama in mente (anche se in realtà non è così, e la pellicola porta avanti il discorso artistico del regista). E infatti ogni sequenza pare virare il film in una direzione diversa, o addirittura appartenere a un genere cinematografico differente: si passa dal descrivere l'alienazione e la noia della borghesia, al gangster movie con tradimenti e omicidi, dalla fuga romantica e liberatoria (con echi delle vicende di Bonnie e Clyde) alla ricerca di vita in mezzo alla natura, dal musical – con un paio di graziose canzoni intonate all'improvviso dalla ragazza, in particolare la bella "Ma ligne de chance" nella pineta – alla commedia sofisticata, dal thriller politico e legato all'attualità – il misterioso fratello di Marianne è in qualche modo coinvolto nei tumulti in Medio Oriente – al surrealismo con la scena conclusiva, quasi da fumetto, in cui Ferdinand si dipinge il volto di blu e si fa saltare in aria con la dinamite, in quella che qualcuno ha definito "la conclusione esplosiva del primo periodo godardiano". A legare il tutto, i pensieri e le parole dei due protagonisti che, come voci narranti (e spesso intersecanti o alternate), commentano ogni scena, le introducono come se fossero capitoli di un romanzo (ma la numerazione dei suddetti capitoli è del tutto incoerente: a volte si salta un numero, a volte lo si ripete, a volte si torna indietro), ci appiccicano citazioni letterarie, artistiche o cinematografiche, e persino slogan e spot pubblicitari. In piu, a un certo punto Ferdinand comincia a tenere un diario (che diventa filo conduttore delle vicende) e, in un'occasione, si rivolge direttamente agli spettatori (come Belmondo aveva già fatto in "À bout de souffle"). Il risultato è un film libero, disorganizzato, caleidoscopico, sperimentale: da un lato come la vita vera (che infatti è tutt'altro che "chiara, logica, organizzata", dice Marianne), dall'altro ammantato di artificialità (sottolineata dalla fotografia di Raoul Coutard, ricca di colori primari: Pierrot descrive Marianne come "una ragazza in un film di Hollywood, in technicolor", mentre altri passaggi citano i dipinti di Velázquez, Van Gogh, Renoir). Peccato solo che la storia si faccia così incoerente, caotica, disordinata e confusa che dopo un po' si rinuncia del tutto a seguirla con attenzione: chi guardasse un film solo per la trama, dunque, si astenga. Fra le scene iconiche, quella dell'auto che finisce in mare. All'inizio, alla festa, appare il regista Sam Fuller nel ruolo di sé stesso (dicendo "Un film è come una battaglia"). L'uomo al porto, nel finale, che afferma di udire la musica extradiegetica, è invece Raymond Devos. "Pierrot le fou" (Pierrot il pazzo) era il nomignolo di un vero bandito degli anni quaranta, Pierre Loutrel. Il titolo italiano è invece incomprensibile.

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