20 febbraio 2019

King Kong (Cooper, Schoedsack, 1933)

King Kong (id.)
di Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack – USA 1933
con Fay Wray, Robert Armstrong, Bruce Cabot
***1/2

Rivisto in divx.

"Then something went wrong
for Fay Wray and King Kong
they got caught in a celluloid jam..."

Carl Denham (Armstrong), eccentrico produttore cinematografico, guida una spedizione sulla misteriosa Isola del Teschio, lembo di terra non segnato sulle mappe, anche perché popolato da dinosauri e mostri giganti. Il re di tutti questi è Kong, colossale gorilla temuto e idolatrato dai locali indigeni, che gli dedicano sacrifici umani e pensano bene di donargli in sposa Ann Darrow (Wray), la bionda protagonista del film che Denham intendeva girare. La ragazza viene salvata dall'intrepido primo ufficiale Jack Driscoll (Cabot), e lo scimmione è catturato e condotto a New York per essere esibito nei teatri di Broadway come "ottava meraviglia del mondo". Ma riuscirà a liberarsi dalle catene che lo tenevano imprigionato (suscitando il panico fra la folla), a catturare Ann e ad arrampicarsi con lei in cima all'Empire State Building, dove sarà abbattuto dall'aviazione. Il padre di tutti i film di mostri, una pellicola seminale e influente che non solo ha generato innumerevoli imitazioni, sequel e remake (basti citare le versioni del 1976 di John Guillermin e del 2005 di Peter Jackson), ma ha creato una vera e propria icona massmediale (lo scimmione King Kong, appunto) e ha addirittura dato vita a un intero genere cinematografico di successo a livello globale (basti pensare al giapponese "Godzilla"). La sceneggiatura di James Ashmore Creelman e Ruth Rose (oltre che di Horace McCoy e Leon Gordon, non accreditati), da un soggetto del regista Cooper e di Edgar Wallace, insiste a più riprese sul tema de "La bella e la bestia": non solo Kong agisce perché invaghito della bella Ann, ma la frase finale di Denham sugella in questo modo il suo destino: "Oh, no, it wasn't the airplanes. It was Beauty killed the Beast". Il tutto rende Kong un personaggio tragico, quasi un antieroe, e non un semplice cattivo da film horror: e dunque gli spettatori arrivano a provare una certa empatia nei suoi confronti, creatura strappata al proprio mondo selvaggio per essere trasportata nella "civiltà" ed esibita come un fenomeno da baraccone (qui c'è anche una metafora dello schiavismo).

L'avvincente lungometraggio, che si dipana senza un attimo di tregua, ha tutte le stimmate dei film (o dei fumetti o romanzi) d'avventura ambientati nella giungla o in luoghi esotici, compreso qualche stereotipo coloniale. In particolare è fortemente debitore al classico racconto di Arthur Conan Doyle "Il mondo perduto", da cui provengono i dinosauri, e che pochi anni prima – nel 1925 – era stato portato sullo schermo con gli effetti speciali di Willis O'Brien, responsabile anche di quelli di "King Kong". E proprio l'eccezionale (per l'epoca) resa del gorilla gigante, modellato da Marcel Delgado e animato a passo uno, che interagisce lungamente con gli attori in carne e ossa (per non parlare degli altri mostri e dei dinosauri con i quali si batte: memorabile soprattutto lo scontro con il tirannosauro con cui si contende Ann, ma sullo schermo compaiono anche uno stegosauro, un brontosauro, uno pterodattilo, un'iguana e un serpente gigante), fu uno dei segreti dell'enorme successo del film. C'è poi la trovata di spostare, nel finale, il setting in un ambiente urbano, lasciando che lo scimmione si aggiri per le strade di New York, distruggendo treni e ferrovie e arrampicandosi sui palazzi, fino al catastrofico e celeberrimo finale sulla cima di quello che allora era il grattacielo più alto del mondo (a questo proposito, uno dei tanti lasciti del film nella cultura di massa è anche l'ispirazione per il videogioco "Donkey Kong", dal quale proviene il popolarissimo personaggio di Super Mario). Da notare che nel film non viene data nessuna spiegazione (scientifica o di altro tipo) per l'esistenza di Kong e dei dinosauri. Il fatto che lo scimmione compaia soltanto a film già inoltrato (dopo un'attesa di oltre 40 minuti) non fa altro che accrescere la suspense. Cooper e Schoedsack si divisero equamente i compiti di regia: il primo si occupò delle sequenze d'azione, il secondo di quelle di dialogo. Nel ruolo più celebre della sua carriera, Fay Wray (che aveva già lavorato con Cooper, Schoedsack e Armstrong l'anno prima ne "La pericolosa partita") divenne la prima scream queen del cinema horror. Già nove mesi più tardi, in quello stesso 1933, Schoedsack realizzava un seguito, "Il figlio di King Kong". Il film originale fu ridistribuito più volte nelle sale (fino al 1956), con varie censure, e nel 1989 venne colorizzato per la televisione.

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