16 gennaio 2010

Arizona dream (Emir Kusturica, 1992)

Arizona dream (id.)
di Emir Kusturica – USA 1992
con Johnny Depp, Faye Dunaway
***

Rivisto in DVD, con Marisa.

Il giovane Axel (Johnny Depp), introverso sognatore che dopo la morte dei genitori si è trasferito a New York a lavorare come catalogatore di pesci, viene richiamato in Arizona dallo zio Leo Sweetie (un sorprendente Jerry Lewis) per fare da testimone al suo imminente matrimonio. Lo zio, che agli occhi di Axel è l'incarnazione del successo e del sogno americano, vorrebbe che il nipote si stabilisse lì definitivamente per vendere cadillac nel suo salone di automobili: ma quando il ragazzo fa la conoscenza di due eccentriche donne che vivono in una casa nel deserto – la stravagante vedova Elaine (Faye Dunaway), appassionata di macchine volanti, e la sua gelosa e irrequieta figliastra Grace (Lili Taylor), allevatrice di tartarughe e aspirante suicida – si trasferisce da loro, innamorato della prima nonostante la differenza d'età. Dopo gli iniziali successi in Jugoslavia, Kusturica ha realizzato questo film insolito e surreale negli Stati Uniti per raccontare l'incontro fra una serie di personaggi bizzarri, vivaci o malinconici, alle prese con sogni e desideri che naturalmente non possono avverarsi, visto che sono fuorvianti, semplicemente assurdi o indice di scarsa maturità. Axel, infatti, è proprio come l'halibut, il pesce che – nei suoi sogni – gli eschimesi pescano dal ghiaccio e che da giovane ha entrambi gli occhi da un solo lato del corpo: solo quando raggiunge l'età adulta uno dei suoi occhi si sposta dall'altro lato, consentendogli così di avere una visione completa del mondo (ma, allo stesso tempo, perdendo qualcosa di sé). La pellicola, comunque, tocca di sfuggita molti altri temi, come l'amore, la morte e il rapporto con i genitori (metaforicamente, visto che in realtà né Axel né Grace sono davvero figli di Leo e di Elaine). Soffre però anche per una certa anarchia narrativa, per una caratterizzazione dei personaggi confusa e caotica e per la scarsa linearità della storia, i cui sviluppi si accavallano senza un vero senso logico, proprio come in un sogno: è un film da prendere o lasciare. Magnifica la colonna sonora di Goran Bregovic (con la collaborazione di Iggy Pop) e grandioso il cast. Fra le scene più memorabili, quella in cui Paul (uno straordinario Vincent Gallo), aspirante attore, appassionato cinefilo e commesso nel salone dello zio di Axel, sale sul palco durante l'ora del debuttante per mimare la sequenza di "Intrigo internazionale" in cui Cary Grant è alle prese con l'aereo che lo attacca nel deserto. Molto belle, comunque, anche le sequenze ambientate in Alaska fra gli eschimesi (in quella finale, Jerry Lewis e Johnny Depp sembrano esprimersi in una lingua inuit, ma in realtà sono parole inventate). In Italia la pellicola è uscita con qualche anno di ritardo, dopo essere stata inizialmente annunciata con il titolo "Il valzer del pesce freccia", e solo quando Kusturica era ormai noto presso il grande pubblico per i suoi capolavori "Underground" e "Gatto nero, gatto bianco". Depp, che avrebbe recitato con la Dunaway anche in "Don Juan DeMarco", viene citato nei dialoghi quando Paul lo nomina insieme ad altri grandi attori, chiedendo "Credi che qualcuno si permetta di toccare Johnny Depp in faccia?".

15 gennaio 2010

Max amore mio (Nagisa Oshima, 1986)

Max amore mio (Max mon amour)
di Nagisa Oshima – Francia 1986
con Charlotte Rampling, Anthony Higgins
***

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Peter, diplomatico inglese presso l'ambasciata britannica di Parigi, viene a sapere che la moglie Margaret ha un amante; quando però scopre che si tratta di Max, uno scimpanzé, decide di accoglierlo in casa propria per indagare meglio la natura del loro strano rapporto. L'animale porta scompiglio nel mondo alto-borghese della coppia, entusiasmando il figlioletto, scandalizzando o incuriosendo gli amici, scatenando l'allergia della cameriera e rendendo il povero Peter sempre più frustrato. Ma alla fine l'armonia tornerà e si darà vita a una "famiglia allargata", con una sorta di ménage à trois. Il giapponese Oshima, i cui precedenti lavori "Ecco l'impero dei sensi" e "L'impero della passione" erano già stati coprodotti dalla Francia, sbarca in occidente per dirigere una bizzarra pellicola ideata da Jean-Claude Carrière (lo sceneggiatore degli ultimi film di Buñuel), che in un certo senso ne è il vero autore. Ma non si tratta, nonostante il tema, di un film scabroso o scandaloso: la provocazione resta confinata sul piano intellettuale, mentre il tono paradossale della situazione è stemperato da una messa in scena fredda e algida come la recitazione della Rampling, dove non c'è posto per la passione, almeno a livello esplicito. Al pari di Peter, lo spettatore vorrebbe trasformarsi in voyeur e scoprire qualcosa di più sulla relazione sessuale fra la donna e la scimmia, ma viene costantemente tenuto a distanza e non può nemmeno sbirciare dal buco della serratura come i titoli di testa del film lasciavano presagire. L'unica inquadratura dei due personaggi ripresi nell'intimità – dall'alto, nella stanza chiusa – li mostra teneramente abbracciati ma non svela altri dettagli. E quando Peter assolda una prostituta per osservarla mentre fa l'amore con Max, l'animale rifiuta ogni contatto perché non la trova di suo gusto: nonostante la donna si spogli davanti alla scimmia, lo stimolo visivo si rivela per l'animale meno importante di quello olfattivo o soprattutto di quello uditivo, visto che sono proprio i rumori – i latrati dei cani, il fragore dei tuoni, le grida dei commensali, la canzoncina di Margaret – a stimolare le sue reazioni. La sceneggiatura, al cui servizio si mette una regia classica ed essenziale, sembra più interessata a spingere sui pedali della satira e del paradosso (come nel finale, quando la scimmia è acclamata dalla folla come se si trattasse di quella regina d'Inghilterra il cui viaggio a Parigi è stato pianificato dal diplomatico) che ad indagare in profondità possibili temi come la natura bestiale dell'uomo, il rapporto di coppia o la rottura delle consuetudini sociali e sessuali. E la natura sovversiva della situazione viene via via fatta rientrare nell'alveo della normalità. Nella versione originale il film è parlato per metà in inglese e per metà francese (persino della scimmia si dice che è "bilingue"!). Nel cast ci sono anche Victoria Abril (la cameriera Maria) e Milena Vukotic (la madre di Margaret).

14 gennaio 2010

La leggenda del re pescatore (T. Gilliam, 1991)

La leggenda del re pescatore (The fisher king)
di Terry Gilliam – USA 1991
con Jeff Bridges, Robin Williams
***1/2

Rivisto in DVD, con Ginevra, Giovanni e Rachele.

La carriera di Jake Lucas, speaker radiofonico cinico e rampante, si arresta bruscamente quando spinge senza volerlo uno dei suoi ascoltatori a compiere una strage in un locale di Manhattan frequentato da yuppie. Sconvolto dai sensi di colpa, Jake finisce col ritirarsi dal mondo: ma verrà scosso dall'incontro con l'eccentrico Parry, ex professore di storia trasformatosi in un barbone e precipitato nella follia dopo aver perso la moglie proprio in quella sparatoria. Convinto di essere un cavaliere medievale e di avere il compito di recuperare il Santo Graal (in realtà un trofeo custodito nella libreria di una casa sulla quinta avenue), Parry chiede l'aiuto di Jake, il quale – sentendosi responsabile del suo stato – se ne prende a cuore le sorti e cerca di ripagare il proprio debito aiutandolo a conquistare il cuore della goffa impiegata Lydia, di cui Parry è invaghito. Ma chi ha veramente bisogno di aiuto è Jake, non Parry: e per risorgere dall'inferno in cui è precipitato dovrà fare ben di più, calandosi fino in fondo nel mondo irreale e fiabesco dell'amico e lasciandosi guidare da lui fino a riscoprire la semplicità della vita e la bellezza del mondo che lo circonda. Uno dei migliori film di Terry Gilliam, nonostante si tratti di un progetto non suo (è il primo lungometraggio al quale non ha collaborato a livello di scrittura – anche se il Santo Graal, la follia e gli elementi fantastici in un contesto urbano sono elementi tipici delle sue opere – nonché il primo in cui non figura nessuno degli ex membri dei Monty Python). Le tendenze più estreme e visionarie del regista vengono tenute sotto controllo dall'ottima sceneggiatura di Richard LaGravanese, capace di fondere romanticismo ed elogio della pazzia e di lavorare sui temi del perdono, della redenzione e della grazia divina, benché alcuni passaggi – soprattutto nel finale – sembrino un po' affrettati. Davvero ottimi i due interpreti, ben affiancati da Mercedes Ruehl e Amanda Plummer (e c'è anche un cameo di Tom Waits), per non parlare della buffa drag queen Michael Jeter. Ma a colpire è soprattutto la trasfigurazione in chiave fantasy e surreale della città di New York, trasformata (grazie a luci, effetti, scenografie e alla fotografia di Roger Pratt) in un'ambientazione fiabesca e medievale, con tanto di castelli, boschi e cavalieri, dove la verità e la bellezza si nascondono fra montagne di rifiuti, negli scantinati, in scalcinati videoshop, in contrapposizione ai freddi attici e ai grattacieli dei quartieri alti. Come regista, Gilliam aggiunge molte idee di suo: meravigliosa, per esempio, la sequenza in cui Perry sta seguendo Lydia e, per un momento, la hall della stazione si trasforma in un salone da ballo; visivamente interessante anche l'interno del palazzo-castello, con le scalinate che sembrano uscire da un quadro di M. C. Escher. In una scena è ben visibile un poster di "Brazil" sulla parete, mentre fra le canzoni intonate da Robin Williams spiccano "How about you?" (più volte) e "Lydia the tattooed lady" (resa celebre da Groucho Marx). Nel ciclo arturiano, il "re pescatore" è il malato custode del Santo Graal che può essere curato dalla sua infermità soltanto grazie all'intervento di un "eletto" dall'animo semplice: nel film questo personaggio può essere identificato con ciascuno dei due protagonisti, visto che in un certo senso Jake e Parry si guariscono a vicenda.

12 gennaio 2010

Racconto di primavera (E. Rohmer, 1990)

Racconto di primavera (Conte de printemps)
di Éric Rohmer – Francia 1990
con Anne Teyssèdre, Florence Darel
***

Rivisto in DVD.

Gran parte dei film di Éric Rohmer, il grande regista della nouvelle vague scomparso ieri all'età di 89 anni e che ho voluto ricordare riguardandomi uno dei suoi lavori da me preferiti, sono suddivisi programmaticamente in cicli tematici, pur essendo godibili anche come pellicole a sé stanti. Dopo il ciclo dei "Sei racconti morali" e quello delle "Commedie e proverbi", nel 1990 il cineasta francese ne iniziò uno nuovo, denominato "Racconti delle quattro stagioni", dove i titoli dei lungometraggi non si riferiscono solo al periodo dell'anno nel quale le storie sono ambientate, ma anche – metaforicamente – a un determinato momento della vita dei personaggi. In questo primo film, per esempio, le protagoniste si trovano ad attraversare una fase di cambiamento (entrambe si sentono trascurate dai rispettivi ragazzi) che potrebbe forse portare alla fioritura di nuovi rapporti sentimentali. Jeanne, una giovane insegnante di filosofia, e Natasha, una studentessa di pianoforte, si conoscono per caso a una festa e diventano subito amiche e confidenti. La prima, che ha prestato il proprio appartamento alla cugina, viene ospitata per qualche giorno dalla seconda, che in seguito la invita anche a trascorrere insieme a lei un weekend nella casa di famiglia in campagna. Che il sogno di Natasha sia quello di far scoccare un colpo di fulmine fra l'amica e il padre divorziato, con la giovane amante del quale, Eve, non va assolutamente d'accordo? Come suo solito, Rohmer gira un film assai "parlato", dove i personaggi discutono a cuore più o meno aperto di sentimenti, filosofia, comportamenti, gusti, manie, ossessioni, ricordi, e che vivono la propria vita più mentalmente e intellettualmente che fisicamente... Questo contribuisce a tracciarne un vibrante quadro psicologico, approfondendoli e rendendoli distanti dalle solite macchiette delle pellicole a sfondo romantico. Jeanne, ordinata e controllata, non sopporta il caos e l'intrusione nelle vite degli altri, cerca di non lasciarsi coinvolgere dalla complessa situazione familiare di Natasha e finisce col mantenere il proprio status quo (un fidanzato che non vediamo mai, con il quale forse non c'è perfetta sintonia), rinunciando all'opportunità di cambiare vita che la primavera le aveva offerto. Natasha, spigliata e immatura, si lascia invece trasportare in maniera quasi impulsiva dalle proprie simpatie e antipatie, come quando fa la guerra alla "saccente" Eve (che accusa persino di aver rubato una collana; ma il vero timore è che le sottragga il padre, non a caso il fidanzato di Natasha ha quasi la stessa età del genitore). Ecco dunque che i ciliegi in fiore, i cambi d'abiti negli armadi, i lavori di giardinaggio e tutti gli elementi che indicano che la primavera è arrivata non si traducono in luoghi comuni o in scelte scontate, ma diventano sintomi dell'irrequietezza e della ricerca di un nuovo equilibrio che però non viene mai raggiunto. Alla fine, dopo una serie di litigi, incomprensioni e rifiuti, la situazione torna la stessa di partenza, come se "non fosse successo niente". Le occasioni di cambiamento non sono state colte: ma chissà che sotto il terreno non ci siano germogli già pronti a sbocciare. Controllatissima ed essenziale la regia, che si concede appena un paio di lenti zoom e si preoccupa di mostrare il più possibile l'ambiente attorno ai personaggi, come le diverse case in cui vivono. Davvero convincenti gli attori, in particolare le due protagoniste (molto bella la distaccata Teyssèdre, con la sua acconciatura da maschietto; spontanea e comunicativa la giovane Darel). E assai indovinata, seppure ridotta ai minimi termini, anche la colonna sonora, dove spicca la deliziosa sonata per pianoforte e violino di Beethoven intitolata appunto "La primavera".

11 gennaio 2010

La ragazza che sapeva troppo (M. Bava, 1963)

La ragazza che sapeva troppo
di Mario Bava – Italia 1963
con Letícia Román, John Saxon
**1/2

Visto in DVD, con Martin.

Nora Davis, ventenne turista americana in visita a Roma, si ritrova coinvolta in una situazione da incubo che sembra uscita da uno dei libri gialli di serie B di cui è appassionata lettrice. Dopo aver assistito a un misterioso omicidio notturno sulla scalinata di Trinità dei Monti, che però forse non è mai avvenuto oppure si è verificato dieci anni prima, scopre di essere stata presa di mira da un serial killer che uccide giovani donne seguendo l'ordine alfabetico dei loro cognomi. E decide di indagare, aiutata da un giovane medico innamorato di lei. Ispirandosi a un racconto di Fredric Brown (lo stesso che sarà alla base de "L'uccello dalle piume di cristallo" di Dario Argento) e, in parte, ai film di Hitchcock (com'è evidente sin dal titolo), Bava realizza una pellicola senza molti precedenti in Italia, che con la sua struttura da thriller dà l'avvio a uno dei generi più fortunati della cinematografia del nostro paese, il cosiddetto "giallo" all'italiana (chiamato proprio così nei paesi di lingua inglese). Ma l'approccio leggero e quasi da gioco delle parti, l'utilizzo ironico dei cliché e degli stereotipi della narrativa di genere (agguati, pedinamenti, telefonate anonime, false tracce, colpi di scena scanditi a intervalli regolari), le gag più o meno sotterranee, la prevedibilità dell'identità dell'assassino (soprattutto per uno spettatore smaliziato come quello odierno) e in fondo la mancanza di realismo e verosimiglianza (il tono è spesso onirico, e alla fine la protagonista ha per un attimo l'assurdo dubbio che tutte le vicende occorsele siano state un'allucinazione dovute a una sigaretta drogata) impediscono al film di prendersi troppo sul serio. La tensione e i momenti inquietanti comunque non mancano. Notevole il lato tecnico, con una regia moderna, una stupenda fotografia in bianco e nero e una grande cura nelle inquadrature. E magnifica la Roma ritratta da Bava, tanto di notte quanto di giorno.

10 gennaio 2010

Sherlock Holmes (Guy Ritchie, 2009)

Sherlock Holmes (id.)
di Guy Ritchie – USA 2009
con Robert Downey jr., Jude Law
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Monica e Marisa.

Di fronte a un avversario che sembra dotato di poteri esoterici e soprannaturali (lord Blackwood, appartenente a una loggia massonica e apparentemente resuscitato dopo la morte), persino il razionale Sherlock Holmes si trova in difficoltà: ma grazie alle sue straordinarie capacità (non solo intellettive, ma anche fisiche), e con l'aiuto del fedele dottor Watson (in procinto di sposarsi e di abbandonare l'appartamento di Baker Street che condivideva con l'amico) e dell'affascinante ladra-spia Irene Adler, riuscirà a risolvere il mistero. Ritchie "modernizza" il personaggio creato da Arthur Conan Doyle, ringiovanendolo e rendendolo protagonista, più che di un giallo, di un vero e proprio action movie vittoriano, con frenetiche scene d'azione, scazzottate, esplosioni e dialoghi brillanti (vedi i continui battibecchi fra lui e Watson). Eppure il film funziona e mostra una propria coerenza interna che lo rende assai gradevole: l'intrattenimento e il divertimento non mancano, la sceneggiatura non trascura alcun dettaglio, e alla fine i conti tornano. Quanto alla rivisitazione di un personaggio classico, non me la sento di accusare il regista di lesa maestà, visto che – seppur trasfigurati – gli elementi classici dei racconti di Conan Doyle ci sono tutti (tranne il cappello e mantellina scozzese, e la frase "Elementare, Watson"), a partire dalle eccezionali capacità deduttive di Holmes e dalle sue conoscenze scientifiche, per finire con la citazione di decine di elementi o di personaggi, anche minori, dell'universo originale. E una lettura attenta dei racconti potrebbe riservare qualche sorpresa a coloro che pensano che Ritchie si sia preso troppe libertà. Che Holmes usi la sua intelligenza anche per combattere non mi ha dato fastidio, e nemmeno lo stile "moderno" di regia e montaggio, che ben si sposa con i toni generali della pellicola. Ottimi gli attori: oltre ai due mattatori Downey jr. e Law (entrambi bravissimi e in grado di caratterizzare i loro personaggi a tutto tondo), mi ha fatto piacere rivedere Rachel McAdams (che seguo dai tempi di "Mean Girls"). Il personaggio di Irene Adler compariva in un solo racconto di Conan Doyle, ma il suo nome ricorderà qualcosa ai lettori degli X-Men (Chris Claremont lo aveva attribuito alla veggente Destiny). Ma è bella, soprattutto, l'ambientazione: una Londra sporca, piovosa e piena di cantieri navali, ponti in costruzione, fabbriche, stabilimenti chimici, mattatoi, mercati, banchi dei pegni, carrozze, chiatte sul fiume, brulicante di vita e di attività.

9 gennaio 2010

Il fiore sulla pietra (S. Paradžanov, 1962)

Il fiore sulla pietra (Tsvetok na kamne)
di Sergej Paradžanov – URSS 1962
con Georgij Karpov, Ljudmila Čerepanova
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Il film, l'ultimo realizzato da Paradžanov su commissione prima di abbandonare le pellicole a sfondo ideologico e propagandistico per dedicarsi a un cinema più personale, descrive la comunità che gravita attorno a una miniera di carbone presso Donetsk, in Ucraina. Griva, operaio perdigiorno e ubriacone, si innamora della bionda e bella Luda, segretaria locale del Komsomol (la sezione giovanile del partito comunista), e per amor suo abbandona le cattive compagnie e comincia a lavorare in miniera. Il titolo della pellicola si riferisce a un fossile che il giovane trova durante gli scavi e regala alla ragazza. Decisamente più interessante è però la vicenda parallela che riguarda una setta religiosa di pentecostali che introduce clandestinamente alcuni suoi seguaci per reclutare nuovi adepti fra i minatori. Fra questi c'è anche la giovane Katrina, che il leader della setta vorrebbe convincere a rinunciare all'amore che prova per il coetaneo Arsen, ritenuto incompatibile con l'amore per Dio. Lo schematico attacco alla religione che "avvelena l'anima della gente" è dunque il tema preponderante della pellicola, che la sceneggiatura di Vadim Sobko porta avanti in evidente ossequio alle direttive sovietiche (e in curioso contrasto con la religiosità diffusa che sarà invece presente nelle opere successive di Paradžanov): i membri della setta sono ritratti come fanatici o come sprovveduti facilmente plagiabili, mentre i capi sono ipocriti e truffatori che si arricchiscono intascando di nascosto le offerte dei fedeli. Alla fine Arsen spiegherà alla ragazza che gli uomini "sono più forti di Dio, visto che Dio non esiste". L'intera vicenda è rivissuta in flashback da Griva, ricoverato in ospedale perché ferito alla testa nel tentativo di salvare Arsen dall'agguato dei religiosi. Buona la regia, all'insegna del realismo sociale ma anche caratterizzata da una certa dinamicità nei movimenti di macchina e ben coadiuvata da un'avvolgente fotografia in bianco e nero.

8 gennaio 2010

Essi vivono (John Carpenter, 1988)

Essi vivono (They live)
di John Carpenter – USA 1988
con Roddy Piper, Keith David
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni e Ilaria.

Attraverso un paio di "speciali" occhiali da sole, un operaio in cerca di lavoro – trasformato in senzatetto dalla crisi economica – scopre la vera realtà del mondo in cui vive: la Terra è stata invasa e colonizzata da una razza di alieni che si mimetizzano fra gli esseri umani; gli extraterrestri si sono infiltrati fra le élite, occupano tutti i posti di comando nella società e sottomettono il resto della popolazione tenendola a bada con messaggi subliminali nei mass media che invitano al conformismo e al consumismo ("Obbedite", "Consumate", "Non mettete in dubbio l'autorità", "Sposatevi e riproducetevi", "Guardate la TV", "Non pensate", per non parlare della scritta "Questo è il tuo dio" sulle banconote). Con questa insolita pellicola che fonde scenari fantastici e socio-politici, Carpenter ribalta le convenzioni della fantascienza degli anni '50 (della quale riprende alcuni stilemi grafici, come i piccoli dischi volanti da B-movie che si aggirano nei cieli), quando film come "L'invasione degli ultracorpi" suggerivano semmai un parallelo fra gli extraterrestri e la minaccia comunista. In epoca reaganiana, stretta fra la disoccupazione e l'omologazione culturale dettata dalla tv (ogni volta che nel film si intravede uno schermo, trasmette inevitabilmente programmi spazzatura), a minacciare l'umanità sono invece i "poteri forti", i leader economici e capitalisti che con le loro azioni puntano ad anestetizzare le masse e a garantirsi una forza lavoro sempre disponibile e da sfruttare. E la salvezza non può che provenire dalla rivolta delle classi sociali più basse. Anticipatore per certi versi di "Matrix" (molti elementi sono simili: la scoperta che la realtà in cui viviamo è un inganno e che l'umanità è schiava di qualcun altro, la necessità di un "eletto" che guidi i ribelli alla vittoria – all'inizio il predicatore cieco invoca l'arrivo di un uomo d'azione – e naturalmente gli occhiali neri ^^), il film ebbe poco successo e passò generalmente inosservato, forse proprio per la sua radicale presa di posizione anticapitalista e antisistema: eppure è una delle poche pellicole a rendere materialmente credibile e tangibile – nonostante l'approccio fantastico – un tema "popolare" come quello della cospirazione e del complotto dietro cui si reggerebbero l'economia e il "nuovo ordine mondiale". Il protagonista Roddy Piper è un wrestler canadese, occasionalmente prestato al cinema: questo spiega la lunga scena della scazzottata nel vicolo che, senza conoscere il background dell'interprete, potrebbe sembrare troppo prolungata (Carpenter dichiarò di essersi ispirato alla lotta fra John Wayne e Victor McLaglen ne "Un uomo tranquillo"). Curiosamente il personaggio principale del film non si presenta né viene mai chiamato per nome in tutta la pellicola: i titoli di coda gli attribuiscono l'appellativo di "Nada", che era il nome del protagonista del breve racconto di Ray Nelson al quale Carpenter si è ispirato per la sceneggiatura.

7 gennaio 2010

La maschera del demonio (M. Bava, 1960)

La maschera del demonio
di Mario Bava – Italia 1960
con Barbara Steele, John Richardson
***

Visto in DVD alla Fogona, con Marisa.

Nella cupa Moldavia del Seicento, una strega viene condannata dalla sua stessa famiglia a bruciare sul rogo insieme al suo amante: ma le fiamme sono spente da un'improvvisa tempesta, e così la donna viene semplicemente sepolta nella cripta del castello, con la "maschera del demonio" inchiodata sul volto e una croce a impedirle di uscire. Duecento anni dopo viene liberata da incauti viaggiatori di passaggio, due medici diretti in Russia per partecipare a un convegno, e tenta di vendicarsi di chi l'aveva condannata, impossessandosi del corpo di una sua discendente, la principessa Katja. Il primo film di Bava (o almeno il primo a lui accreditato), fino ad allora direttore della fotografia e tecnico degli effetti speciali, è un horror che inaugura un nuovo filone nel cinema di genere italiano e che riscuoterà interesse e successo in tutto il mondo, influenzando grandi autori con le sue atmosfere e il suo approccio visivo (qualche anno prima, in realtà, c'era stato "I vampiri" di Riccardo Freda, al quale peraltro aveva collaborato lo stesso Bava). Alla ricerca di uno stile personale, e prendendo in parte le distanze da quello che si faceva negli stessi anni in America o in Inghilterra, il regista si ispira a fonti letterarie e ai classici film degli anni venti, trenta e quaranta, da "Nosferatu" a "Frankenstein" (la carrozza che conduce i protagonisti in un entroterra gotico e oscuro, il villaggio mitteleuropeo, i contadini e i paesani che cacciano la strega con le torce, il tema dei vampiri, il confine fra religione e paganesimo), arricchendone però l'estetica con un gusto più barocco e visionario, quasi una fusione fra l'espressionismo tedesco e la cultura bizantina. Il tono del racconto (ispirato da un racconto di vampiri di Gogol) è, di pari passo, quasi fiabesco, con ampio spazio ai temi della decadenza (la cripta è in rovina, la famiglia di Katja è ormai in declino, i corpi riportati in vita dalla strega sono come zombi putrefatti), del doppio (la dicotomia fra il bene e il male è naturalmente esplicitata dai due personaggi interpretati dalla Steele, ma c'è anche la lotta fra la razionalità – i due medici – e la superstizione) e della sessualità (non si era mai visto prima negli horror un "mostro" femminile così seducente e inquietante), mentre fondamentali per il risultato finale risultano le scenografie e gli spazi in cui si svolgono le vicende: la brughiera e la foresta, gli ampi saloni del palazzo, la polverosa cripta di famiglia, i corridoi e i passaggi segreti, la locanda, tutti ripresi in un fascinoso bianco e nero. La scena della bambina che viene costretta a recarsi a mungere nella stalla di notte, oltre a evocare ulteriori suggestioni fiabesche (Cappuccetto Rosso, ecc.), può forse far venire alla mente "L'uomo leopardo" di Jacques Tourneur. La protagonista, l'allora sconosciuta Barbara Steele (nel doppio ruolo della strega malvagia e della sua inerme vittima), capace di calarsi apparentemente senza difficoltà nei panni di una vergine indifesa e di una crudele demoniessa, con il suo volto inquietante e dai tratti particolarmente marcati divenne un'icona del genere, comparendo poi negli anni successivi in numerosi film (soprattutto italiani, ma anche – per esempio – ne "Il pozzo e il pendolo" di Corman).

6 gennaio 2010

Mad detective (Johnnie To, Wai Ka-Fai, 2007)

Mad detective (Sun taam)
di Johnnie To, Wai Ka-Fai – Hong Kong 2007
con Lau Ching Wan, Andy On
***

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli inglesi.

Lo schizofrenico Bun, un tempo poliziotto dal brillante intuito che risolveva molti casi con i suoi metodi controversi (il suo motto era "applica le emozioni all'indagine, non la logica") e che portava alle estreme conseguenze la tecnica di calarsi nei panni della vittima o dell'assassino, è stato licenziato per i suoi comportamenti sempre più psicotici: era arrivato addirittura a tagliarsi un orecchio di fronte al proprio capo come omaggio quando questi era andato in pensione. Il giovane Ho, che vedeva in lui un maestro, gli chiede però di tornare in azione per aiutarlo a risolvere un enigma ormai irrisolto da diversi mesi: la misteriosa sparizione di un agente, Wong, e della sua pistola, con la quale qualcuno sta ora commettendo una serie di delitti. Bun però è ormai ritenuto da tutti un folle senza speranza: vede attorno a sé persone che non esistono o fantasmi del passato (come la moglie, che nella realtà lo ha abbandonato da tempo: da notare che la moglie reale e quella immaginaria sono interpretate da due attrici diverse, rispettivamente Kelly Lin e Flora Chan) e soprattutto afferma che gli altri gli appaiono non con le loro reale fattezze, ma con quelle delle loro personalità interne; Ho, per esempio, per lui ha le sembianze di un ragazzino sperduto e impaurito. Pedinando Chi-wai (Lam Ka-Tung), ex compagno di pattuglia di Wong e principale sospettato della sua sparizione, Bun scopre che questi ha addirittura sette personalità distinte, fra le quali spicca quella di una donna fredda e calcolatrice che domina su tutte le altre (la più inerme e subordinata di tutte è invece il "ciccione" Lam Suet)...

Alternando immagini della "realtà" a quelle filtrate dalla mente di Bun, e lasciando il dubbio se si tratti davvero di follia oppure di un istinto soprannaturale (da brivido quando le personalità di Chi-wai commentano sgomente: "È capace di vederci!") e iper-amplificato (visto anche che tutte le intuizioni del protagonista si rivelano immancabilmente esatte), il film si sviluppa come un interessante poliziesco dai toni surreali e decisamente sui generis. Probabilmente è più un film di Wai Ka-Fai (autore anche della sceneggiatura) che di Johnnie To (per quanto lo spunto della pistola scomparsa possa ricordare "PTU" e la regia solida e senza fronzoli sia fondamentale nel tenere il soggetto sotto controllo). Fra i momenti più interessanti, l'imbarazzante cena "a quattro" fra Bun, Ho e le rispettive compagne (con la moglie di Bun che interagisce con gli altri solo nella sua testa) e lo "scambio" finale delle pistole che passano da una mano all'altra (all'inizio nessuno spara con la propria; in seguito c'è un complesso lavoro di "rotazione" delle armi per nascondere le prove di quello che è realmente avvenuto). Ma la stessa sparatoria finale in un oceano di specchi rotti è girata da manuale e ispirata forse alla "Signora di Shanghai" di Orson Welles. Bravi gli interpreti (Lau Ching Wan, un attore che mi piace molto, è brillante e ambiguo come al solito), magnifiche le scenografie e suggestive le atmosfere (a tratti le immagini sono impercettibimente distorte, proprio come i titoli di testa inclinati e di sbieco, a rivelare che non tutto quello che vediamo può essere considerato reale).

5 gennaio 2010

Amore che redime (B. Wilder, 1934)

Amore che redime (Mauvaise graine)
di Billy Wilder e Alexander Esway – Francia 1934
con Pierre Mingand, Danielle Darrieux
**1/2

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli inglesi.

In fuga dalla Germania nazista, e nell'attesa di imbarcarsi per gli Stati Uniti, Billy Wilder si trattenne in Francia per quasi un anno, durante il quale ebbe modo di scrivere con alcuni colleghi una sceneggiatura che sarebbe diventata il primo film da lui diretto (il co-regista che viene accreditato, Alexander Esway, si limitò a fare da prestanome per permettere a Wilder di ottenere i finanziamenti necessari. Sul set, almeno stando alle memorie della Darrieux, c'era invece sempre e solo Billy). Da notare che lo stesso aveva fatto Fritz Lang, che sempre nel 1934, durante la sua permanenza a Parigi, aveva diretto il suo unico film "francese", "La leggenda di Liliom". Wilder, comunque, si riteneva principalmente uno sceneggiatore e non un regista: e infatti non avrebbe più firmato la regia di un altro film fino al 1942, data del suo debutto americano con "Frutto proibito".

Henri Pasquier è un giovane playboy che trascorre le giornate divertendosi a scorrazzare a bordo della sua Buick. Ma quando suo padre vende l'automobile e gli annuncia che d'ora in poi dovrà guadagnarsi la vita da solo, Henri entra a far parte di una banda di ladri d'auto professionisti. Del variopinto gruppo fanno parte anche il giovane Jean, appassionato "collezionista" di cravatte che prende subito Henri in simpatia, e sua sorella Jeanette (la Darrieux, unico nome noto del cast): proprio l'amore per la ragazza spingerà il protagonista a decidere di abbandonare la criminalità per rifarsi una vita con lei all'estero: ma nel finale di una pellicola che ondeggia senza troppo equilibrio fra la commedia "leggera" e il dramma a sfondo sociale, ci sarà anche spazio per la tragedia.
Per essere una prima prova, pur con qualche ingenuità, la regia di Wilder non è male e appare già dinamica e vivace. Le influenze di Lubitsch si vedono tutte (si pensi per esempio alle sequenze in cui Jeanette deve adescare le "vittime" cui i suoi complici ruberanno le auto, come nella scena in cui la ragazza passeggia sul marciapiede mostrandosi recalcitrante, e poi – subito dopo che un camion ha impallato per un attimo l'inquadratura – la vediamo già a bordo della macchina del malcapitato corteggiatore). Non mancano nemmeno occasionali scenette comiche che rimandano al cinema muto (come quelle che vedono come protagonista "Zebra", il membro più incapace della gang). Nonostante un argomento "contemporaneo" come quello dei furti d'auto (una didascalia, a un certo punto, ci informa che ben "un parigino su otto" possiede un automobile!), il film si tiene lontano dall'attualità (non vi sono menzioni o riferimenti ai temi sociali o politici dell'epoca, come quelli dai quali Wilder era in fuga) e affronta dilemmi più classici come la fascinazione che il mondo della criminalità esercita su un borghese privilegiato (Henry si unisce ai ladri per l'eccitazione che gli dà il furto, più che per i soldi che guadagna) e quello della redenzione finale (come indica il brutto titolo italiano). Interessanti, per l'epoca, anche le numerose scene di inseguimenti e di auto in movimento.

4 gennaio 2010

Il ritratto di Jennie (W. Dieterle, 1948)

Il ritratto di Jennie (Portrait of Jennie)
di William Dieterle – USA 1948
con Jennifer Jones, Joseph Cotten
***

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Per rendere omaggio a Jennifer Jones, scomparsa di recente, mi sono visto uno dei suoi film più celebri e romantici, vero inno all'arte e all'amour fou con venature oniriche e fantastiche: una pellicola letteralmente fuori dal tempo, appena un poco contaminata dai linguaggi del noir e del melò. Ne è protagonista Joseph Cotten nei panni di Eben Adams, pittore spiantato e senza ispirazione che in una sera d'inverno a Central Park, nel cuore di New York, incontra Jennie, una misteriosa bambina, bellissima e vivace, che accende in lui una scintilla e gli fa tornare la voglia di dipingere. Nei giorni successivi la rivede in più occasioni, e ogni volta gli appare sempre più cresciuta, fino a quando – ormai diventata una giovane ragazza – accetta di farne il ritratto: la ragazza diventa la sua musa e ben presto anche l'oggetto del suo amore. Dopo essersi reso conto di essere l'unico in grado di vederla, scoprirà che si tratta di una persona già vissuta decenni prima e scomparsa in una furiosa tempesta in mare, al largo di un faro sulle coste del Massachusetts. Nel corso del loro ultimo, drammatico incontro, il pittore non potrà impedire la morte (già scritta) di Jennie: ma la sua figura gli darà l'ispirazione per rinnovare la propria arte. Il soggetto del film (l'amore che supera le barriere del tempo, della vita e della morte, unendo due persone destinate a incontrarsi anche se vissute in epoche diverse), di ispirazione chiaramente tardo-romantica, è sostenuto da una forma filmica decisamente particolare: ambienti e atmosfere surreali e pittorici (a volte nel paesaggio si intravede addirittura la trama della tela), frutto di riprese in esterni e non in studio, e una fotografia in bianco e nero che – nell'ultimo rullo della pellicola – viene dapprima virata in verde e in rosso e infine si mostra completamente a colori nell'inquadratura finale, quella del ritratto di Jennie esposto nel museo. La colonna sonora di Dimitri Tiomkin saccheggia Debussy ("Preludio al pomeriggio di un fauno" e altro), mentre nel resto del cast spicca Ethel Barrymore (la proprietaria della galleria d'arte). Nonostante l'intrecciarsi dei temi del ritratto e del tempo, la storia non ha quasi nulla a che vedere con "Il ritratto di Dorian Gray".

28 dicembre 2009

I tre volti della paura (Mario Bava, 1963)

I tre volti della paura, aka Black Sabbath
di Mario Bava – Italia 1963
con Boris Karloff, Michèle Mercier
***

Visto in DVD, con Martin.

Tre storie del terrore e del soprannaturale, liberamente adattate da racconti di Maupassant (così almeno recita il cartello introduttivo; pare invece che si tratti di tale F.G. Snyder), Tolstoi (ma anche qui c'è l'inganno: non Lev, ma Alexei) e Checov, con Boris Karloff a fare da anfitrione in stile Zio Tibia e a recitare in uno dei segmenti. Mario Bava, precursore e inventore dell'horror gotico italiano (in un tempo in cui, ahimè, anche noi avevamo il coraggio di compiere incursioni nel fantastico), dà il meglio di sé realizzando una pellicola visivamente sontuosa e piena di virtuosismi registici, con i suoi movimenti di macchina, la fotografia ipercromatica, le scenografie barocche, la lenta costruzione della tensione e, aggiungiamoci, attrici belle e inquietanti come Susy Andersen, Rika Dialina, Lydia Alfonsi, Jacqueline Pierreux. Nel sorprendente finale, metacinematografico e all'insegna dell'ironia, Karloff – che si rivolge direttamente agli spettatori – "svela" il segreto del cinema: il cavallo su cui sta galoppando è finto, e l'inquadratura si allarga a mostrare il regista e la troupe al lavoro. Una curiosità: il gruppo heavy metal dei Black Sabbath ha preso il suo nome dal titolo americano del film.

- "Il telefono", con Michèle Mercier e Lydia Alfonsi. Una donna viene terrorizzata dalle telefonate di un gangster che minaccia di ucciderla e che evidentemente la sta osservando da molto vicino. La ragazza chiama allora in suo soccorso un'ex amica, che però forse le nasconde qualcosa... Lo spunto è stato riutilizzato pari pari da Wes Craven nel celebre incipit di "Scream": qui è sufficiente a creare un'atmosfera di tensione e disagio nell'unico dei tre episodi che non ha niente a che fare con il soprannaturale (nonostante nell'edizione americana sia stato rimontato, e i dialoghi alterati, per infilarci a forza un fantasma). In un certo senso è l'antesignano dei "gialli" e dei thriller alla Dario Argento, con tanto di erotismo più o meno velato: fra le due protagoniste c'è un sottile ma evidente rapporto lesbico.
- "I Wurdalak", con Mark Damon e Boris Karloff. Una famiglia che vive in una regione isolata della Russia (o dei Balcani?) rimane vittima della maledizione dei Wurdalak, sorta di vampiri non-morti che si accaniscono su coloro che hanno amato in vita. Un giovane viaggiatore cerca di salvare da questo destino almeno la bella Sdenka, di cui si è innamorato, ma invano. È l'episodio più lungo e – se vogliamo – "classico", l'unico girato in esterni e ambientato nel diciannovesimo secolo, con atmosfere gotiche, scenari fiabeschi e soprattutto la presenza inquietante di Karloff nei panni del patriarca della famiglia, il primo a portare il "contagio" all'interno della magione. Le inquadrature dei Wurdalak che osservano i vivi al di là dei vetri della finestra sono paurose e suggestive.
- "La goccia d'acqua", con Jacqueline Pierreux e Milly Monti. Un'infermiera, convocata per vestire il cadavere di un'anziana medium, le sottrae dal dito un anello che si rivela essere maledetto. Macabro e cupo, è l'episodio dalla costruzione più semplice ma anche quello propriamente più "terrorizzante". La fotografia colorata, gli originali effetti visivi (il corpo e il volto della "strega" sono stati modellati dallo scultore Eugenio Bava, padre del regista) e soprattutto sonori (la goccia che cade, il vento all'esterno, il miagolio dei gatti) lo rendono a tratti davvero angosciante.

27 dicembre 2009

JCVD (Mabrouk El Mechri, 2008)

JCVD - Nessuna giustizia (JCVD)
di Mabrouk El Mechri – Belgio/Francia 2008
con Jean-Claude Van Damme, François Damiens
**

Visto in DVD, con Albertino e Ghirmawi.

Depresso perché Steven Seagal gli soffia le parti migliori nei film di serie B e sotto stress perché impegnato in una difficile causa in tribunale con l'ex moglie a proposito dell'affidamento della figlia, Jean-Claude Van Damme rimane coinvolto in una rapina in un ufficio postale, dove viene preso come ostaggio. All'esterno però la polizia, viste le sue difficoltà economiche, è convinta che sia proprio lui ad aver organizzato il colpo... L'attore belga interpreta sé stesso, star in declino di pellicole d'azione a basso budget, in questo strano film semi-autobiografico che nelle intenzioni degli sceneggiatori originali avrebbe dovuto essere una commedia auto-ironica (forse non dissimile per certi versi dal "Last action hero" con Arnold Schwarzenegger), quasi una satira sull'impotenza dell'eroe d'azione in una situazione di vita reale, e che invece il regista franco-algerino El Mechri (con velleità autoriali, ispirato anche dal cinema di Spike Jonze e Charlie Kaufman) ha trasformato in un cervellotico miscuglio fra l'autoanalisi, il metacinema (si disquisisce per esempio di John Woo, la cui carriera hollywoodiana è cominciata dirigendo proprio il buon Jean-Claude in "Senza tregua") e un tradizionale heist movie, complicando il tutto – già che c'era – con una scansione cronologica non lineare e con bizzarri inserti postmoderni (frasi e citazioni da Shakespeare; un lungo monologo, avulso da tutto il resto, in cui Van Damme si confessa a cuore aperto davanti allo schermo; echi di Godard e di Tarantino; riflessioni più o meno filosofiche sulla popolarità e la caducità del successo; ripetizioni delle medesime sequenze da diversi punti di vista; persino alcuni passaggi metafisici). Ma il risultato è inferiore alla somma delle parti, anche perché purtroppo Van Damme non sa recitare (tranne che con i calci): il paragone con "The wrestler", che qualcuno ha azzardato, non sta in piedi. Insopportabile la fotografia, esageratamente desaturata. Nella realtà l'attore non ha una figlia, ma solo un figlio maschio.

24 dicembre 2009

A Christmas Carol (R. Zemeckis, 2009)

A Christmas Carol (id.)
di Robert Zemeckis – USA 2009
animazione digitale
**

Visto al cinema Colosseo (in 3D), con Hiromi.

Dal celeberrimo racconto natalizio a sfondo morale di Charles Dickens, già adattato in passato numerose volte al cinema (nonché fonte di ispirazione per il personaggio disneyano di Zio Paperone, creato da Carl Barks e chiamato in originale appunto Scrooge, come il protagonista del racconto dickensiano: non a caso proprio il vecchio papero è la star dell'adattamento a cartoni animati del 1983), Zemeckis realizza il suo terzo film consecutivo in performance capture e in 3D dopo "Polar Express" e "Beowulf". Visti i flop precedenti, stavolta ha forse voluto andare sul sicuro scegliendo una fonte letteraria "classica" e tradizionale che in qualche modo facesse da contraltare alle innovazioni e alle sperimentazioni tecniche. La tecnologia a disposizione degli animatori si fa infatti sempre più raffinata, e i risultati si vedono, ma continuo ad avere dubbi sul character design (c'è da dire che stavolta alcuni personaggi – fra cui il protagonista – hanno comunque fattezze un po' caricaturali; altri invece sono invece più realistici e infatti non convogliano la minima emozione). L'adattamento è piuttosto fedele al racconto originale, e la sceneggiatura non ne attenua i passaggi più cupi o macabri, anche se sono state aggiunte diverse sequenze d'azione (a base di corse, inseguimenti, capitomboli) che c'entrano un po' come i cavoli a merenda: ma evidentemente sono state ritenute necessarie per intrattenere un pubblico che da un film d'animazione si attende anche e soprattutto queste cose. Jim Carrey ha "recitato" e dato la voce (nella versione originale) a tutti i personaggi principali: l'avarissimo Ebenezer Scrooge (da bambino, da giovane e da anziano) e i tre spiriti che gli fanno visita, rispettivamente il fantasma dei natali passati, quello dei natali presenti e quello dei natali futuri (caratterizzati in maniera molto diversa fra loro: una fiammella leggera il primo; una creatura gaudente ma ambigua il secondo; un'ombra oscura, muta e angosciante il terzo). Il resto del "cast virtuale" comprende Gary Oldman (anch'egli con ruoli multipli: il suo socio defunto di Scrooge, Marley; l'impiegato Bob Cratchit; e il figlioletto di quest'ultimo, Tim), Colin Firth, Robin Wright Penn e Bob Hoskins. Rimane ancora il dubbio che il film sia uno sfoggio di tecnica e di effetti tridimensionali fini a sé stessi; per fortuna c'è la storia di Dickens a fornire "l'anima" e, in certi passaggi, un minimo di sense of wonder, anche se con le ali un po' tarpate per alcune discutibili scelte di regia: quando il secondo spirito fa sorvolare i tetti di Londra a Scrooge, per esempio, noi spettatori non riusciamo a provare le stesse emozioni del personaggio perché lo stesso viaggio a volo d'uccello sulle case lo avevamo già sperimentato, fuori dal contesto narrativo, durante i titoli di testa.

23 dicembre 2009

Storia di fantasmi cinesi 3 (Ching Siu-tung, 1991)

Storia di fantasmi cinesi 3 (Sien nui yau wan III: Do do do, aka A chinese ghost story III)
di Ching Siu-tung – Hong Kong 1991
con Tony Leung Chiu-wai, Joey Wong
**1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni.

Sono passati cento anni dal capitolo precedente. Fong (Tony Leung), un giovane monaco buddista, è in viaggio insieme al suo anziano maestro (Lau Shun) per trasportare una preziosa statuetta d'oro di Buddha. Durante il cammino, i due si rifugiano in un tempio abbandonato e stregato, lo stesso del primo film: e qui, proprio come era capitato all'esattore Ming, il povero Fong viene preso di mira da Lotus, splendida spiritessa (nuovamente con il volto e l'aspetto dell'eterea Joey Wong, l'unica del cast originale ancora presente) costretta contro la sua volontà a procacciare vittime per il malvagio demone dell'albero che possiede la sua anima. Più che un sequel, questo terzo film della saga horror comico-romantica di Ching Siu-tung e Tsui Hark può essere considerato un remake del primo, di cui ricalca essenzialmente la trama con poche variazioni (la più importante è l'attenuazione del lato romantico della storia: essendo Fong un monaco, non può ricambiare l'amore di Lotus, per la quale prova solo amicizia nonostante i continui tentativi di seduzione da parte di lei). In aiuto del protagonista giunge anche un avido spadaccino mercenario interpretato da Jacky Cheung, che però nulla ha a che fare con il personaggio che lo stesso Cheung interpretava nel secondo capitolo. Nel cast anche Nina Li Chi nei panni di Butterfly, la sorella minore e "cattiva" di Lotus. Regia e fotografia sono brillanti come al solito, mentre gli effetti speciali nel finale (con Fong, ricoperto di vernice dorata, che impersona il Buddha) sembrano un po' più pacchiani. Il divertimento e il fascino dell'ambientazione restano comunque intatti, e nel complesso la saga si conclude senza deludere.

22 dicembre 2009

Storia di fantasmi cinesi 2 (Ching Siu-tung, 1990)

Storia di fantasmi cinesi 2 (Sien nui yau wan II: Yan gaan do, aka A chinese ghost story II)
di Ching Siu-tung – Hong Kong 1990
con Leslie Cheung, Joey Wong
**1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni.

Nel seguito del fortunato film di tre anni prima, continuano le avventure dell'esattore delle tasse Ming, di nuovo in viaggio: dopo essere fuggito da una prigione dove era stato rinchiuso ingiustamente, il protagonista si trova suo malgrado di nuovo alle prese con il mondo degli spiriti, che stavolta sono però esclusivamente malvagi. Oltre a Leslie Cheung (e a Wu Ma, richiamato nel finale) torna anche Joey Wong, che ora interpreta un personaggio umano e non un fantasma: si tratta di Windy, una giovane ribelle che assieme alla sorella Moon (Michelle Reis) sta cercando di salvare il proprio padre, un ministro caduto in disgrazia presso l'imperatore. Ma un mostruoso demone complotta per impadronirsi del potere alla corte imperiale, impossessandosi del corpo del sommo sacerdote. A dar manforte alle due ragazze (e a Ming, del quale entrambe – ovviamente – si innamorano) c'è anche Autumn (Jacky Cheung), giovane e buffo monaco taoista che va a caccia di spiriti, si muove sottoterra e nell'edizione italiana lancia i propri incantesimi gridando "Hocus pocus!" e "Abracadabra!". La confezione è ancora ottima (oltre alla regia e alle coreografie di Ching, brilla la suggestiva fotografia di Arthur Wong), ma la pellicola – seppur leggera e divertente – ha sicuramente meno fascino della precedente e nel complesso è la meno riuscita delle tre. Gli eventi si succedono senza soluzione di continuità, con un roller coaster di emozioni che almeno ha il buon gusto di alternare scene "serie" a siparietti comici (che coinvolgono soprattutto Jacky Cheung) o maliziosi (Ming alle prese con le due sorelle). Gli effetti speciali sono numerosi e piuttosto rozzi ma efficaci, soprattutto per quanto riguarda la lotta contro il mostro (un pupazzo animato artigianalmente) che tiene banco per tutta la prima metà del film. Waise Lee è il soldato spadaccino che sta scortando il padre di Windy e Moon e che poi si allea con i nostri eroi.

21 dicembre 2009

I fratelli Grimm (Terry Gilliam, 2005)

I fratelli Grimm e l'incantevole strega (The brothers Grimm)
di Terry Gilliam – GB/USA 2005
con Matt Damon, Heath Ledger
**

Rivisto in DVD, con Giovanni.

Nella Germania occupata dai francesi (siamo nel diciannovesimo secolo), i fratelli Wilhelm ("Will") e Jacob ("Jake") Grimm si guadagnano da vivere fingendo di essere cacciatori di streghe, mostri e demoni, e approfittando della credulità popolare. Ma quando si troveranno di fronte a una vera strega (una regina prigioniera della propria vanità, divenuta immortale ma tuttora in cerca dell'eterna giovinezza), dovranno ricorrere a ben altro che ai trucchi da baraccone in loro possesso. E accumuleranno tanti spunti e informazioni interessanti da convincerli a cambiare mestiere e diventare quei narratori di fiabe come oggi li conosciamo. Ambizioso film in costume che ricorda per certi versi alcuni film di Tim Burton (segnatamente "Sleepy Hollow"), è però caratterizzato da un tono leggermente comico-farsesco che impedisce alla pellicola di farsi prendere sul serio, di fare veramente paura o di sprigionare un autentico fascino dell'avventura o del fiabesco. Non bastano purtroppo brevi citazioni o riferimenti a favole celebri (da Cappuccetto Rosso ad Hänsel e Gretel, da Biancaneve alla Bella Addormentata, da Raperonzolo a Jack e il fagiolo magico, dall'omino di marzapane al principe ranocchio) per tenere insieme un film che, pur non disprezzabile dal lato dell'intrattenimento, non è certo da annoverare fra i più memorabili di Gilliam. Buoni, comunque, costumi, scenografie ed effetti speciali. Il momento più divertente, per me, è quando Jake si getta dalla torre attaccato ai capelli della strega, gridando "Raperonzolo!". Il rapporto fra i due personaggi principali, che degli autentici Grimm non hanno nulla, è all'insegna di un conflitto piuttosto banale (il "razionale" Will contro il "credulone" Jake). Il titolo italiano gioca a ingigantire la presenza di Monica Bellucci, affiancando il suo personaggio al nome dei due protagonisti. Fra gli attori, comunque, spiccano anche la bella Lena Headey (la selvaggia cacciatrice che aiuta i nostri eroi), il buffo Peter Stormare (nei panni dello sgherro italiano Mercurio Cavaldi) e il sempre raffinato Jonathan Pryce (il crudele generale francese). Come tutti i film di Gilliam, anche questo ha subito alcune traversie produttive, per esempio a livello di cast. Nel ruolo di Will, Gilliam avrebbe voluto Johnny Depp: ma il produttore Bob Weinstein gli impose Matt Damon perché riteneva che Depp non fosse "abbastanza famoso commercialmente"; per Cavaldi il regista aveva pensato a Robin Williams, che poi ha rinunciato; e per la regina malvagia, il ruolo era stato proposto – prima che alla Bellucci – anche a Nicole Kidman e Uma Thurman. La pellicola è stata girata interamente nella Repubblica Ceca, e Gilliam ha dovuto rinunciare a diversi suoi collaboratori abituali che non erano graditi ai produttori.

20 dicembre 2009

Palermo Shooting (Wim Wenders, 2008)

Palermo Shooting (id.)
di Wim Wenders – Germania/Italia 2008
con Campino, Giovanna Mezzogiorno
**1/2

Visto in DVD, con Martin.

Un fotografo tedesco (Campino, alias Andreas Frege, rock star del gruppo Die Toten Hosen), dopo essere scampato per un nonnulla a un incidente stradale e aver visto (letteralmente) la morte in faccia, si trattiene per qualche giorno a Palermo, città a lui sconosciuta, alla ricerca di sé stesso. Mentre gira per le strade scattando fotografie, scopre di essere preso di mira da una misteriosa figura incappucciata che gli scaglia contro delle frecce invisibili ed evanescenti, proprio come quelle che si vedono nel dipinto del "trionfo della morte" al quale Flavia, una giovane restauratrice, sta lavorando. Una pellicola strana e metafisica, ma con un suo particolare fascino surreale, caratterizzata da temi tipicamente wendersiani, e come tale apprezzabile forse di più se si conoscono bene le precedenti opere del regista (l'artista che si aggira per una città straniera ricorda "Lisbon story", anche se lì il protagonista "catturava" suoni e qui immagini; l'elemento soprannaturale era già presente ne "Il cielo sopra Berlino"; i sogni e le riflessioni e sulle sembianze delle cose si collegano a quelle viste – fra gli altri – in "Fino alla fine del mondo"), che suggerisce arditi collegamenti fra il fotografo e la morte (entrambi fanno lo stesso lavoro, in fondo, "immortalando" persone e oggetti ai quali tolgono la vita; persino il titolo del film può riferirsi tanto al lavoro del fotografo – lo "shooting" fotografico – quanto alle frecce scagliate dalla morte) e abbozza considerazioni su come uno scatto riproduca soltanto la superficie delle cose o sulla bizzarra condizione di un fotografo che viene ripreso a sua volta. Anche il personaggio di Flavia (interpretato da una brava Mezzogiorno) è in linea con tutto il resto: il suo lavoro di restauratrice di antichi dipinti, in fondo, è un trait d'union fra i due argomenti principali della pellicola, l'immagine e la decadenza. Ironico come, nelle sequenze iniziali del film, Campino – anziché la morte – si ritrovi a fissare sulla pellicola l'inizio della vita, nella fattispecie nella sessione fotografica con Milla Jovovich (che interpreta sé stessa con il pancione). La presenza di Milla, non accreditata, è stata per me un bonus inatteso ma gradito! Nel cast c'è anche Dennis Hopper, nei panni della morte impersonificata. Curatissime, come sempre, fotografia e colonna sonora. La scelta di Palermo come luogo dove incontrare la morte, città (de)cadente ed – etimologicamente – "grande porto", sembra particolarmente azzeccata. E la dedica finale a due grandi registi che erano appena scomparsi, per di più nello stesso giorno (Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni), non è decisamente casuale, visto che il film che riprende numerosi elementi da due delle loro opere più celebri, rispettivamente "Il settimo sigillo" (l'incontro con la morte) e "Blow up" (il fotografo e la realtà delle cose).

19 dicembre 2009

Rapsodia ucraina (S. Paradžanov, 1961)

Rapsodia ucraina (Ukrainskaya rapsodiya)
di Sergej Paradžanov – URSS 1961
con Oksana Petrenko, E. Koshman
*1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Mentre viaggia sul treno che la riporta in patria dopo aver vinto all'estero un concorso per cantanti d'opera, la giovane Oksana torna con la mente alle difficili esperienze vissute nel recente passato: dall'infanzia, trascorsa nella campagna ucraina lungo le sponde del fiume Dnepr, all'amore per il contadino Anton; dalla decisione di trasferirsi a Kiev per studiare al conservatorio, allo scoppio della seconda guerra mondiale che le fa perdere di vista il suo amato (nel frattempo arruolatosi) e la spinge ad abbandonare temporaneamente la musica per diventare infermiera. Ma la ragazza ignora che sullo stesso treno c'è anche Anton, appena liberato dalla prigionia in Germania: soltanto una volta giunti a destinazione, i due finalmente si ritroveranno. Strutturato in una serie di flashback (che, oltre a mostrare la vita di Oksana, seguono in parallelo anche le vicende belliche di Anton), il film è un polpettone storico-romantico non particolarmente originale, intriso di ideologia patriottica e – a onor del vero – pacifista. Belli comunque i paesaggi e i colori, che denotano un talento registico e visivo non comune, con occasionali squarci di poesia come le immagini della natura e del fiume che scorre. Fondamentale anche l'abbondante uso della musica (con brani melodici o struggenti che accompagnano quasi ogni scena, anche quelle di guerra): fra i momenti migliori, il soldato russo che suona una sonata di Beethoven ("eppure anche lui era tedesco!") per i suoi commilitoni fra le rovine di un teatro distrutto, o l'Ave Maria di Schubert cantata da un bambino mentre Anton fugge dai soldati nazisti. Nella colonna sonora ci sono anche Grieg (Oksana accompagna un soldato rimasto cieco a una rappresentazione del "Peer Gynt", e più tardi torna sulle scene esibendosi nella splendida Canzone di Solveig), Rimsky-Korsakov, Verdi, e chi più ne ha più ne metta.

18 dicembre 2009

Natalya Ushviy (S. Paradžanov, 1959)

Il regista armeno Sergej Paradžanov (il cognome è talvolta traslitterato anche come Parajanov o Paradzhanov) è uno degli autori più personali e interessanti dell'ex Unione Sovietica. Il suo stile estetico e visionario, che alcuni hanno definito "antinaturalismo estetizzante" e "verismo fantastico", si sposa però ben poco con quel realismo socialista che costituiva di fatto la corrente artistica "ufficiale" nell'ex URSS, e per questo motivo da un certo momento in poi il regista è stato pesantemente osteggiato dal regime sovietico. In realtà nei suoi primi anni di attività, presso gli studi Dovženko a Kiev, Paradžanov ha realizzato soprattutto documentari o pellicole su commissione, quasi sempre a sfondo propagandistico. Dopo aver visto "L'infanzia di Ivan" di Tarkovskij, però, comprese che era possibile una via più personale e poetica al cinema. E dal 1964, con "L'ombra degli avi dimenticati", diede inizio a una produzione più libera e indipendente. Con il successivo "Il colore del melograno" (1968), da molti considerato il suo capolavoro, cadde però in disgrazia presso le autorità, che gli negarono il permesso di girare altri film fino al 1984 (e fu anche più volte imprigionato nei campi di lavoro con le accuse di omosessualità e di contrabbando d'arte). Solo a metà degli anni ottanta, quando il clima politico cominciò a cambiare, potè tornare dietro la macchina da presa con "La leggenda della fortezza di Suram" e "Ashik Kerib". È morto nel 1990.


Natalya Ushviy (Natalya Uzhviy)
di Sergej Paradžanov – URSS 1959
con Natalya Ushviy
*

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Il regista ha rinnegato pubblicamente tutti i suoi film precedenti il 1964, definendoli "spazzatura": forse esagerava, ma a giudicare da questo cortometraggio di una trentina di minuti – che fra l'altro è essenzialmente un film di montaggio – non aveva nemmeno tutti i torti. Si tratta di un documentario realizzato su commissione per gli studi televisivi di Kiev, sulla carriera di un'attrice teatrale e cinematografica ucraina, Natalya Mikhailovna Ushviy. Dopo una breve introduzione, vengono mostrati numerosi spezzoni dei film che ha l'attrice ha girato nel corso degli anni. Patriottismo, retorica di regime ed elogio dell'arte socialista si fondono per dare come risultato una pellicola fredda e poca ispirata, che non riesce a veicolare alcuna emozione: la protagonista rimane una figura vuota, mentre gli spezzoni dei suoi film sono presentati alla rinfusa e senza un contesto o un filo conduttore. Interesse, zero. Due anni più tardi, Natalya Ushviy verrà diretta dallo stesso Paradžanov in un ruolo minore in "Rapsodia ucraina".

16 dicembre 2009

Colazione da Tiffany (B. Edwards, 1961)

Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany's)
di Blake Edwards – USA 1961
con Audrey Hepburn, George Peppard
***

Visto in divx, con Marisa.

Holly Golightly, eccentrica e aspirante attrice dal passato misterioso e dal presente mondano e disinvolto, si è trasferita dalla campagna texana in un appartamento di New York: qui vive da sola con un gatto senza nome (dargliene uno significherebbe renderlo prigioniero), si reca ogni mattina a fare colazione davanti alle vetrine della gioielleria Tiffany e cerca in ogni modo di procacciarsi un ricco marito, passando nel contempo da un uomo all'altro. Il suo vicino del piano di sopra, l'aspirante scrittore Paul Varjak (o "Fred", come lo chiama lei, perché gli ricorda suo fratello), non può certo permettersi di farle la morale, visto che è a sua volta mantenuto da un'amante (Patricia Neal), ma ne prende comunque a cura le sorti e nel finale riuscirà anche a far breccia nel suo cuore. Liberamente tratto da un racconto di Truman Capote (del quale lo sceneggiatore George Axelrod cambia parecchie cose, a partire dal ruolo di Paul, e ammorbidisce la caratterizzazione della protagonista, in origine esplicitamente una vera e propria escort), è forse il film più celebre – e anche il più romantico – di Blake Edwards, anche se non certo il suo capolavoro (quello andrebbe scelto fra "Hollywood Party" e "Victor Victoria"). Il suo pregio risiede nel ritratto anticonvenzionale di una donna che non aspira all'amore ma alla libertà, non disdegnando nel frattempo la ricchezza. La parte principale, che Capote aveva pensato per Marilyn Monroe, si adatta perfettamente a una Hepburn iconica, raffinata (veste Givenchy), turbolenta e imprevedibile, la cui caratterizzazione si alterna fra l'ingenuità dell'oca (come quando non si rende conto del significato delle sue visite al gangster in carcere) e l'autodeterminazione consapevole (per esempio nel rapporto con l'anziano ex marito, Buddy Ebsen). Memorabile la colonna sonora di Henry Mancini, con la canzone "Moon river" interpretata dalla stessa Hepburn sul davanzale della finestra. La pellicola, comunque, non è esente da difetti, prima fra tutti la caratterizzazione stereotipata e sopra le righe del vicino di casa giapponese, interpretato da Mickey Rooney, nonché una certa mancanza di "levità" nelle scene più umoristiche: anziché sulla commedia sofisticata alla Lubitsch o alla Cukor, Edwards preferisce infatti premere sul pedale della satira di costume, alternandola con un esasperato sentimentalismo romantico.

15 dicembre 2009

Mille miglia... lontano (Zhang Yimou, 2005)

Mille miglia... lontano (Qian li zou dan qi)
di Zhang Yimou – Cina/Giappone 2005
con Ken Takakura, Li Jiamin
**

Visto in DVD, con Giovanni.

Per esaudire un desiderio espresso dal figlio Kenichi, che sta morendo in ospedale e con il quale non parla più da anni, un padre di mezza età si reca dal Giappone in Cina con l'intenzione di filmare la performance di un celebre attore dell'Opera di Pechino. Ma quest'ultimo è stato rinchiuso in carcere: per poterlo incontrare, l'uomo dovrà affrontare la burocrazia cinese e superare i problemi di lingua; e per convincerlo a esibirsi davanti alla sua videocamera, dovrà intraprendere un difficile viaggio fino a uno sperduto villaggio, dove vive il suo figlioletto di otto anni. Zhang Yimou mette da parte per un attimo le grandiose ma sterili pellicole wuxia come "Hero" e "La foresta dei pugnali volanti" per tornare a un cinema più intimo e personale, benché continuamente ad alto rischio di retorica e di buonismo. Attraverso un viaggio in un paese estraneo ed esotico (per il protagonista, naturalmente, non per il regista!), ritratto mediante una fotografia pulita e patinata, quasi da depliant pubblicitario, Zhang si sofferma sul difficile rapporto fra padri e figli (a quello fra il signor Takata e Kenichi fra riscontro quello fra Li Jiamin e il figlioletto) e soprattutto sulla difficoltà di riuscire ad esprimere i propri sentimenti: non a caso la sceneggiatura sceglie come protagonista un giapponese, un membro cioè di una delle popolazioni che più di tutte fanno ricorso a formalità e ipocrisie nel linguaggio e nei rapporti sociali. Soprattutto nella seconda parte, quella che descrive l'incontro fra l'anziano nipponico e il piccolo cinesino, il film riesce, se non a commuovere, almeno a veicolare con efficacia il suo messaggio. Interessante, in ogni caso, la riflessione sulla "solitudine" che un viaggiatore sperimenta (per propria volontà?) quando si trova all'estero, circondato da luoghi e da una lingua che non conosce.

14 dicembre 2009

La rosa di Bagdad (A. G. Domeneghini, 1949)

La rosa di Bagdad
di Anton Gino Domeneghini – Italia 1949
animazione tradizionale
**1/2

Rivisto in DVD, con Elena e Marisa.

Il perfido sceicco Jafar vorrebbe sposare la principessa Zeila, giovane figlia del bonario Oman, califfo di Bagdad, e impadronirsi così del suo regno. Ma il piccolo musicista Amin, amico della ragazza sin dall'infanzia, la salverà dagli intrighi e dalle magie di Burk, uno stregone oscuro al servizio dello sceicco, che possiede un mantello in grado di farlo volare. Apertamente debitore allo stile disneyano, si tratta del primo lungometraggio italiano (forse addirittura europeo) a cartoni animati, nonché del primo film a colori prodotto nel nostro paese. Domeneghini lo mise in cantiere nel 1940, quando l'ingresso dell'Italia in guerra bloccò di fatto ogni attività nel mercato pubblicitario dove lavorava, suggerendogli così mettere la sua équipe di animatori al servizio del cinema. Fra gli artisti coinvolti spicca il grande Angelo Bioletto, che in seguito sarebbe diventato uno dei primi disegnatori italiani di "Topolino". Solo a guerra terminata la pellicola potè però essere completata (la lavorazione del colore avvenne negli studi inglesi della Technicolor), giusto in tempo per essere presentata alla Mostra di Venezia del 1949. Se stilisticamente i debiti alla "Biancaneve" di Walt Disney sono evidenti, anche per quanto riguarda i personaggi non mancano somiglianze: i tre buffi saggi Tonko, Zirko e Zizibè, ministri e consiglieri del califfo, ricordano i sette nani (ma anche i savi Ping, Pong e Pang della "Turandot" di Puccini!); e non mancano gli animaletti che aiutano i nostri eroi (come la gazza ladra Kalina) e le canzoni (la voce di Zeira è di Beatrice Preziosa; nell'edizione inglese, "The singing princess", venne doppiata da una diciassettenne Julie Andrews). Più originale è l'ambientazione, che mescola l'Arabia fiabesca delle "Mille e una notte" (c'è anche il genio della lampada) con avventure e magie in stile "Orlando furioso" (il castello di Burk fa venire in mente quello di Atlante). L'animazione è piuttosto fluida, e i fondali sono splendidi: nel complesso, è un pezzo di storia del cinema italiano (e del cinema di animazione) che vale la pena di conoscere o di riscoprire.

13 dicembre 2009

Piramide di paura (B. Levinson, 1985)

Piramide di paura (Young Sherlock Holmes)
di Barry Levinson – USA 1985
con Nicholas Rowe, Alan Cox
**

Rivisto in VHS, con Elena, Marisa, Alberto ed Eva.

Il giovane John Watson, appena giunto in un college di Londra per studiare medicina, stringe amicizia con il coetaneo Sherlock Holmes, aspirante detective, e viene da questi coinvolto in un'indagine su una misteriosa serie di omicidi commessi per mezzo di un veleno che provoca allucinazioni incredibilmente realistiche. I due ragazzi scopriranno l'esistenza di una setta segreta di origine egiziana che celebra i propri riti sacrificali in una piramide sepolta sotto la città. La sceneggiatura di Chris Columbus non solo racconta il primo incontro fra i due leggendari personaggi (nonché quelli con l'ispettore Lestrade e soprattutto con il perfido Moriarty, la cui identità è svelata nel controfinale), ma rivela anche l'origine di molte caratteristiche del protagonista dei racconti di Arthur Conan Doyle (il cappello, la pipa, la scelta di vivere in solitudine). Più che un giallo, il film è una pellicola d'avventura per un pubblico di adolescenti, sul filone dei "Goonies" (scritto anch'esso da Columbus): non particolarmente profonda, ma può contare su un'ambientazione accattivante e su ottimi effetti speciali (spettacolare, in particolare, il cavaliere che fuoriesce dalla vetrata della chiesa, realizzato da una Pixar che allora era una divisione della Lucasfilm). Alcune sequenze delle allucinazioni, con gli oggetti che si animano, fanno davvero paura! La cerimonia nella piramide ricorda quella di "Indiana Jones e il tempio maledetto": non a caso produce Spielberg.

12 dicembre 2009

Fortapàsc (Marco Risi, 2009)

Fortapàsc
di Marco Risi – Italia 2009
con Libero De Rienzo, Valentina Lodovini
**1/2

Visto in DVD proiettato su schermo, all'Università Bocconi, con Giovanni (era presente il regista).

Giancarlo Siani, morto nel 1985 a 26 anni, è stato l'unico giornalista ucciso finora dalla camorra (mentre la mafia ne ha ammazzati una decina, compreso – se vogliamo – il Peppino Impastato de "I cento passi", cui questo film assomiglia parecchio). La pellicola di Risi ne ripercorre gli ultimi mesi di vita, descrivendo il suo lavoro da cronista "abusivo" (cioè senza contratto) come corrispondente de "Il mattino" da Torre Annunziata, città che negli anni ottanta fu teatro di stragi camorristiche e che lui stesso, con la definizione di "Fort Apache", aveva paragonato al Far West. Ma le sue inchieste sulla complicità fra istituzioni e camorristi finirono col toccare troppi nervi scoperti, e i criminali gliela fecero pagare. La pellicola è un buon film di denuncia e di informazione, grazie anche alla discreta ricostruzione storica e ambientale. Ha alcuni difetti, come una sceneggiatura didascalica (che mostra o sottolinea ogni cosa almeno due volte: per esempio, la pellicola si apre con Giancarlo che sente alla radio una canzone di Vasco Rossi, e la voce fuori campo ci spiega che "alla radio c'era una canzone di Vasco Rossi"; Giancarlo si accorge che l'amico Rico si droga, e poco dopo Rico gli chiede "Ti sei accorto che mi drogo, vero?"; e così via), alcuni personaggi un po' stereotipati (il capitano di polizia) o superficiali (Daniela, la ragazza di Giancarlo, che sarà anche importante nell'economia della storia per descrivere il lato privato e quotidiano del protagonista, ma è totalmente scollegata dal tema principale) e una regia che non risparmia scene a effetto (la bambina ferita durante la strage; il parallelo fra la seduta comunale e l'incontro fra i boss camorristi), ma nonostante tutto riesce nel suo intento di rendere omaggio alla memoria di Giancarlo Siani e di divulgarne la vicenda personale. Fra gli interpreti, tutti bravi, ci sono anche Ernesto Mahieux, Ennio Fantastichini e Michele Riondino. La caratteristica automobile verde guidata da Libero De Rienzo è l'autentica Citroën Méhari appartenuta a Siani: era stata rintracciata pochi giorni prima dall'inizio delle riprese, e Risi non perde occasione per inquadrarla in più scene possibile, come a voler accentuare il lato realistico e documentaristico del film.

11 dicembre 2009

Signore & signori (P. Germi, 1966)

Signore & signori
di Pietro Germi – Italia 1966
con Gastone Moschin, Virna Lisi
***

Visto in TV, con Marisa, Alberto ed Eva.

Tre diversi episodi ambientati a Treviso e che ruotano attorno a uno stesso gruppo di amici, membri "rispettabili" della medio-alta borghesia e simbolo del tessuto sociale ed economico di un provincia veneta ritratta come gaudente e moralista al tempo stesso. Un medico geloso (Gigi Ballista) affida tranquillamente la propria moglie oca (Beba Loncar) all'amico che gli aveva confidato di essere impotente (Alberto Lionello): ma scoprirà che questi ha mentito, e pur di salvare l'onore metterà tutto a tacere. Un marito frustrato e oppresso (Gastone Moschin) si innamora della giovane cassiera di un bar (Virna Lisi) e sogna di conquistare con lei la libertà: ma la moglie (Nora Ricci) mobiliterà l'intera città (amici, preti, carabinieri) per costringerlo a rientrare nei ranghi. Un gruppo di commercianti approfitta di un'ingenua contadina (Patrizia Valturri), che a loro insaputa è minorenne: pur di evitare un processo e salvare la propria rispettabilità, ne corrompono il padre per convincerlo a ritirare la denuncia. Ispirato (pare) a fatti reali, è uno dei film con cui Germi (e in generale la commedia all'italiana di quegli anni, prima che scadesse nella farsa e nella volgarità fine a sé stessa) si sbizzarriva a fare una satira pungente sui costumi e sull'ipocrisia di un paese ancora dominato dalla chiesa e da un perbenismo di facciata, dove le questioni "private" di sesso o di corna non possono che diventare inevitabilmente "pubbliche" (attraverso il passaparola e i pettegolezzi) oppure essere messe a tacere (grazie all'intervento dei poteri forti) a seconda delle circostanze o degli interessi. Con il suo sguardo grottesco e impietoso, il film non risparmia alcuna categoria (uomini, donne, imprenditori, religiosi, politici, giornalisti, contadini) e soprattutto ha il pregio di non cercare mai la complicità dello spettatore, al quale non viene chiesto di identificarsi con nessuno. Basti pensare a come viene descritto, senza alcuna simpatia o accondiscendenza, il comportamento goliardico di questo invadente gruppo di amici (privi di valori e sempre pronti a tradirsi a vicenda, a inviare lettere anonime, a parlarsi alle spalle). Nel cast anche Olga Villi (la bigotta ma intraprendente moglie di uno dei commercianti del terzo episodio), Franco Fabrizi, Quinto Parmeggiani, Giulio Questi, Moira Orfei, Gia Sandri, Aldo Puglisi. Ottimi la regia e il montaggio (che supera i limiti del classici "film a episodi" introducendo dapprima tutti i personaggi e poi soffermandosi via via, in modo assai naturale, sui protagonisti dei singoli episodi). Palma d'Oro al Festival di Cannes.

Il valzer dell'imperatore (B. Wilder, 1948)

Il valzer dell'imperatore (The Emperor Waltz)
di Billy Wilder – USA 1948
con Bing Crosby, Joan Fontaine
**

Visto in DVD, con Martin.

Un rappresentante americano di grammofoni si reca al palazzo imperiale di Vienna con l'obiettivo di vendere uno dei suoi innovativi apparecchi all'imperatore austriaco Francesco Giuseppe (siamo all'inizio del ventesimo secolo). Ma si innamora di una splendida contessa e proverà in tutti i modi a conquistarla, favorito dalla vicenda parallela che vede coinvolti i rispettivi cani, il bastardino Buttons e la raffinata barboncina nera Sheherazade (promessa "sposa" del cane dell'imperatore). Il film, ravvivato dal technicolor e da alcuni numeri musicali cantati da Bing Crosby, è da collocare decisamente fra le opere minori di Wilder, anche se non mancano spunti interessanti, buoni momenti (come il balletto del servitori alla locanda in Tirolo) e situazioni simpatiche (tutte le peripezie canine, per esempio): si tratta comunque di poco più di una commedia romantica che gioca sui classici temi delle differenze di classe, della contrapposizione fra la vecchia aristocrazia e il nuovo che avanza, e della forza dell'amore che supera ogni ostacolo. Sugli stessi argomenti, Mamoulian ("Amami stanotte"), Lubitsch e lo stesso Wilder hanno fatto sicuramente di meglio. Ebbe anche una gestazione travagliata: girato in Canada nel 1946, fu distribuito solo due anni più tardi. Ottimo Richard Haydn nei panni dell'imperatore.

10 dicembre 2009

Wild animals (Kim Ki-duk, 1997)

Wild animals (Yasaeng dongmul bohoguyeog)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 1997
con Cho Jae-hyun, Jang Dong-jik
**1/2

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli.

Il secondo film di Kim, almeno dal punto di vista formale, è forse il più convenzionale e "inquadrato" dei suoi lavori, quello che si distacca meno dal cinema di genere, pur senza rinunciare ad alcuni tratti personali. Racconta la storia di due immigrati coreani a Parigi: Chung-hae, proveniente dalla Corea del Sud, un tempo aspirava a diventare un pittore ma ora è un ladruncolo che truffa i turisti o deruba i propri connazionali; Hong-san, soldato fuggito dalla Corea del Nord, non parla una parola di francese e viene convinto da Chung-hae a esibirsi nelle piazze spaccando mattoni o schivando coltelli: le sue capacità attirano l'attenzione di un gruppo di gangster francesi, che lo assoldano come picchiatore. Fra problemi di denaro (Chung-hae deve pagare l'affitto del barcone dove vive), di donne (Hong-san si invaghisce di Laura, giovane spogliarellista in un peep show, mentre Chung-hae è innamorato di Corinne, che fa la statua in pubblico e ama il busto di Camille Claudel) e di lealtà (Chung-hae arriva a tradire l'amico pur di intascare qualche gruzzolo extra), i due – anche se molto diversi fra loro (Hong-san è stanco di combattere, ha una certa integrità morale e "occhi puri", come gli dice il boss; Chung-hae è invece capace di tutto, più subdolo ma anche più fragile e dipendente dall'amico) – non potranno che appoggiarsi l'uno all'altro per cercare di sopravvivere come animali selvaggi in una giungla ostile.

Nonostante la sua atipicità, a partire dall'ambientazione europea (parzialmente autobiografica: lo stesso KKD aveva vissuto per due anni a Parigi, dipingendo e vendendo quadri), il film presenta comunque – come dicevo – diversi elementi caratteristici della prima fase del suo cinema: la crudeltà, gli improvvisi scoppi di violenza, le numerose scene di sesso, le automutilazioni (Chung-hae che si pugnala la mano per farsi riaccettare dal boss), il voyeurismo e il mutismo (benché resti probabilmente il lungometraggio più "parlato" del regista coreano). Come in "Crocodile" (e come avverrà ancora in seguito, per esempio ne "L'isola" o in "Primavera, estate..."), i protagonisti vivono a stretto contatto con l'acqua, su un barcone ancorato nella Senna. E diverse sequenze sembrano riecheggiarne alcune proprio del film d'esordio: Chung-hae dipinge di bianco il volto di Corinne come il Coccodrillo dipingeva di blu la tartaruga, e poi schizza un ritratto di Hong-san come la ragazza ne disegnava uno del protagonista del film precedente. La sceneggiatura però non sempre convince, e non mancano scene involontariamente ridicole (l'amante di Corinne che la picchia con un pesce surgelato) o svolte eccessivamente melodrammatiche e prevedibili (l'orologio d'oro che, sottratto a una delle loro vittime, finisce per tradire i due amici). Parigi è ritratta come un confuso crocevia di stranieri, di artisti, di innamorati e di delinquenti, ma per fortuna non c'è spazio per immagini da cartolina (la Torre Eiffel si intravede soltanto brevemente sullo sfondo e in una sola scena).

7 dicembre 2009

Alphaville (Jean-Luc Godard, 1965)

Agente Lemmy Caution: missione Alphaville
(Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution)
di Jean-Luc Godard – Francia 1965
con Eddie Constantine, Anna Karina
***

Visto in DVD, con Giovanni.

Sotto le false spoglie del giornalista Ivan Johnson del "Figaro-Pravda", l'agente speciale Lemmy Caution giunge ad Alphaville, capitale di un'altra galassia, per rintracciare il professor Von Braun, scienziato transfuga con le sue pericolose invenzioni. Alphaville è una città dominata dai computer, dove i nomi delle strade sono dedicate a scienziati (come Enrico Fermi), a leggi fisiche o a teoremi matematici, i sentimenti sono messi al bando e tutto è freddo e logico: chi esprime le proprie emozioni viene eliminato (attraverso grottesche cerimonie collettive per l'intrattenimento delle élite) o ricondizionato, e le donne sono programmate per essere sottomesse (e numerate come gli ebrei nei campi di concentramento). La città, oltre che indicare un possibile sviluppo (secondo Godard) delle tendenze sociali, tecnologiche e capitalistiche che erano in atto nel dopoguerra, è l'evidente metafora di un formicaio, dove ogni abitante segue le direttive del computer centrale Alfa-60 (che ha sviluppato l'autocoscienza e sta progettando addirittura di attaccare i "paesi esterni", i residui del mondo come lo conosciamo noi, le cui capitali hanno nomi familiari come Tokyorama, Angoulême City e Nuova York): quando nel finale il computer viene distrutto, infatti, i cittadini impazziscono e muoiono come formiche lasciate senza una guida da seguire.

Anticipando "Blade runner" con la sua fusione di due generi letterari e cinematografici ben distinti (ovvero il noir e la fantascienza), Godard realizza un film insolito e affascinante, con un messaggio forse semplicistico (l'amore che si oppone alla disumanizzazione e alla mercificazione risultante dalla tecnologia) ma con uno stile originale e coerente. Fra le fonti di ispirazione spicca senza dubbio "1984" di Orwell, a partire dal "Grande Fratello" che controlla tutti (qui il computer di Von Braun) e dall'alterazione del linguaggio: ad Alphaville le parole vengono continuamente cancellate, bandite o mutate di significato, la Bibbia è sostituita da un dizionario, e vige un'assurda formula di saluto universale, ripetuta meccanicamente in ogni occasione ("Io sto benissimo-grazie-prego"). Ma che non si tratti di un'operazione legata solo al passato lo dimostra il fatto che il film precorre a sua volta molto cinema che verrà: il dialogo del protagonista con il computer Alfa-60 non può non far pensare all'occhio di Hal 9000 in "2001: Odissea nello spazio", mentre di "Blade runner" (o meglio, della sua versione cinematografica originale) sembra anticipare anche il finale, con la fuga del detective in compagnia della ragazza "robotizzata" che sta lentamente imparando a riconoscere i propri sentimenti e a riacquistare le emozioni. Echi del film si ritroveranno anche nei fumetti di Moebius e degli altri "umanoidi associati".

Se i dialoghi parlano di galassie, armi atomiche e (auto)coscienza, e gli interni sono geometrici, freddi ed essenziali (i corridoi, gli ascensori, le porte e le scale a chiocciola tutte uguali ricordano Tativille, il gigantesco set che Jacques Tati aveva fatto costruire per "Playtime"), le scene in esterno non fanno invece uso di architetture futuristiche, anzi sono girate nella Parigi contemporanea e si rifanno agli stilemi del noir, come d'altronde gli abiti dei personaggi (impermeabili e cappelli anni '40) e la stessa scelta di una fotografia in bianco e nero, seppure l'uso delle illuminazioni e delle ombre sia davvero notevole. Ma tutto il film gioca sul contrasto fra vecchio e nuovo, fra tradizione e modernità, fra il confortante passato (rappresentato anche dalla macchinetta fotografica, quasi un giocattolo, con cui Lemmy Caution scatta di continuo le sue foto, apparentemente senza motivo) e il minaccioso futuro (il pericolo, nemmeno tanto velato, è quello di un conflitto nucleare). La rivisitazione intellettuale di generi popolari della narrativa o del cinema (un'operazione simile a certe cose fatte in quegli anni da Chabrol) affiora continuamente: uno degli agenti che hanno preceduto Lemmy Caution nella stessa missione, fallendo, si chiamava Dick Tracy; il vero nome del professor Von Braun è Nosferatu; a un certo punto Lemmy risponde a una domanda citando Shakespeare ("dormire, sognare forse"); e il titolo che originalmente Godard aveva pensato per la pellicola era "Tarzan contro l'IBM". Il personaggio di Lemmy Caution, sempre interpretato da Eddie Constantine, era già apparso in due film polizieschi (tratti da romanzi gialli degli anni '40) che nulla avevano a che vedere con le provocazioni filosofiche e intellettuali di Godard, né con la fantascienza.

6 dicembre 2009

Snake and crane arts of Shaolin (Chen Chi-hwa, 1978)

Snake and crane arts of Shaolin (She hao ba bu)
di Chen Chi-hwa – Hong Kong 1978
con Jackie Chan, Nora Miao
*1/2

Visto in VHS, in inglese.

Facendo credere a tutti di essere in possesso di un prezioso libro, redatto da otto maestri di Shaolin misteriosamente scomparsi e contenente i segreti delle tecniche del serpente e della gru, il misterioso Hsu Yin-fung (il solito Jackie Chan capellone di quel periodo) attira su di sé l'attenzione di tutti i capoclan delle varie scuole di arti marziali. Il suo scopo è quello di stanare un individuo di cui non conosce l'identità, che in realtà è il vero responsabile della scomparsa dei maestri. Il film è il secondo frutto della collaborazione tra Jackie Chan e Chen Chi-hwa (il primo era stato "Shaolin wooden men"; il terzo sarà "Half a loaf of kung fu"). Insoddisfatto dei risultati ottenuti fino ad allora con i film da lui stesso diretti, il produttore Lo Wei aveva infatti affidato al proprio assistente l'incarico di realizzare altri lungometraggi con la giovane promessa che aveva messo sotto contratto. Ed è evidente come l'attore si trovi maggiormente a proprio agio con un regista che gli lascia maggior carta bianca nelle coreografie e nelle scene di lotta, senza ingabbiarlo in ruoli alla Bruce Lee o soffocarlo con trame contorte e bizzarre. Proprio i combattimenti rappresentano il maggior pregio della pellicola, che segna un importante punto di passaggio verso l'affermazione popolare di Jackie che avverrà di lì a poco con i film di Yuen Woo-ping. Per il resto, però, la trama è decisamente povera e poco interessante, mentre molti personaggi avrebbero meritato un maggiore approfondimento. Una curiosità: durante i titoli di testa, mentre Jackie si esibisce in numeri con la lancia e con la spada su un fondale rosso, si sente la musica di apertura del film "Monty Python e il sacro Graal": a quei tempi era normale per le pellicole hongkonghesi a basso budget, e per quelle di Lo Wei in particolare, saccheggiare le colonne sonore di film occidentali più celebri (il caso più eclatante fu quello di "Magnificent bodyguards" con alcuni brani di "Guerre stellari").

5 dicembre 2009

Magnificent bodyguards (Lo Wei, 1978)

Magnificent bodyguards (Fei du juan yun shan)
di Lo Wei – Hong Kong 1978
con Jackie Chan, James Tien
**

Visto in VHS, in inglese.

Una donna ricca e misteriosa assolda tre maestri di arti marziali per scortare lei e suo fratello, gravemente malato e sempre chiuso in una lettiga, attraverso le pericolose Stormy Hills, un territorio montuoso popolato da banditi e predoni di ogni tipo. Oltre a Jackie Chan, gli altri membri della scorta sono James Tien (nei panni di uno spadaccino che trancia le braccia dei suoi avversari) e Bruce Leung (nel ruolo di un kickboxer sordo): ma del gruppo fanno parte anche due graziose gemelline combattenti. Dopo essere sopravvissuti all'attacco di numerosi e variopinti nemici, i nostri eroi dovranno affrontare il sovrano assoluto delle colline e scopriranno che le cose non stanno come sembrano. Insolito film di kung fu on the road, celebre – oltre che per l'ennesimo tentativo malriuscito da parte di Lo Wei di trasformare Jackie Chan nel nuovo Bruce Lee – anche per essere il primo film di arti marziali (e di Hong Kong) girato in tre dimensioni. Purtroppo oggi è quasi impossibile vederlo in 3D com'era stato pensato, e dunque le numerose scene in cui le armi, i pugni o gli oggetti vengono diretti verso la macchina da presa e verso lo spettatore rimangono soltanto una strana curiosità. Per il resto la pellicola ha più o meno gli stessi pregi e soprattutto gli stessi difetti di tutte le produzioni taiwanesi di Lo Wei: numerosi personaggi bizzarri e improbabili, una trama che procede per accumulo di sequenze slegate fra loro, svolte e colpi di scena assurdi, una regia confusa e poco curata, una colonna sonora che "saccheggia" quelle dei film occidentali (ci sono persino alcuni temi tratti da "Guerre stellari"!) e combattimenti dove le abilità di Jackie Chan sono tenute a freno dal regista (benché le coreografie degli stessi Chan e Tien non siano poi male e il numero delle scene di lotta sia soddisfacentemente alto). Ma accontentandosi (e guardandolo con lo spirito giusto) è anche possibile divertirsi, magari sorvolando sul finale affrettato.

4 dicembre 2009

To kill with intrigue (Lo Wei, 1977)

To kill with intrigue (Jian hua yan yu Jiang Nan)
di Lo Wei – Hong Kong 1977
con Jackie Chan, Hsu Feng
**

Visto in VHS, in inglese.

I vecchi film di Jackie Chan diretti da Lo Wei saranno anche brutti, ma spesso sono così assurdi e ridicoli da risultare involontariamente divertenti. Questo si caratterizza, oltre che per una trama davvero complicata, anche per il fatto che l'eroe le busca da tutti per l'intera pellicola! La storia prende avvio quando la casa di Jackie viene attaccata e la sua famiglia sterminata dalla banda delle Api Assassine, un gruppo di banditi in cerca di vendetta contro il padre del ragazzo, che li aveva sconfitti anni prima. A guidare l'assalto è un'invincibile guerriera dal volto sfregiato e velato (interpretata da Hsu Feng, apparsa in precedenza in molti film di King Hu: era la "fanciulla cavaliere errante" nel classico "A touch of zen", per esempio). A Jackie, l'unico cui viene risparmiata la vita (anche perché nel frattempo la donna si è innamorata di lui), non resta che partire alla ricerca della sua fidanzata, che lui stesso aveva scacciato di casa per proteggerla prima dell'attacco. Ma la ragazza, credendolo morto, nel frattempo ha accettato di sposarsi con il miglior amico del giovane, che però – all'insaputa di tutti – è sia il governatore della provincia sia il leader di un malvagio clan di tagliagole. Per riuscire a sconfiggere il rivale, Jackie dovrà farsi addestrare dalla stessa donna che ha ucciso i suoi genitori. Come si vede, la trama non è il massimo della linearità (e non ho citato diversi altri personaggi), ma soprattutto è ricca di elementi bizzarri che sembrano aver ben pochi legami con il resto della storia: basti pensare, per limitarsi alle scene iniziali, all'uomo che si presenta come uno spettro per frasi restituire la mano che Jackie gli aveva staccato, oppure ai costumi da fiori (!?) che Hsu Feng e i suoi seguaci indossano alla loro prima apparizione (per non parlare dei pugnali con il manico a forma di ape!). Quello interpretato da Hsu Feng, comunque, è senza alcun dubbio il personaggio più interessante e carismatico del film, una combattente che si pone al di là del bene e del male e che fra le altre cose sconfigge e umilia ripetutamente Jackie Chan (ma in alcuni momenti interviene anche per salvarlo) e gli sfregia pure il volto con un tizzone ardente. I combattimenti sono molto irrealistici e non particolarmente esaltanti.

2 dicembre 2009

Elvira Madigan (Bo Widerberg, 1967)

Elvira Madigan (id.)
di Bo Widerberg – Svezia 1967
con Pia Degermark, Thommy Berggren
**1/2

Visto in divx.

Nonostante la bella fotografia ovattata e sospesa, quasi impressionista, e lo stile estetizzante ed etereo, il film è completamente calato nella realtà: è infatti ispirato a un fatto di cronaca (relativamente celebre) avvenuto in Danimarca alla fine del diciannovesimo secolo, come spiega il cartello introduttivo che ne svela anche il tragico finale. Ne sono protagonisti due innamorati in fuga, il tenente Sixten Sparre dell'esercito svedese ed Hedvig Jensen, una giovane equilibrista che si esibiva con il nome d'arte Elvira Madigan. L'uno fugge dall'esercito (e dalla famiglia che ha già: una moglie e due figli), l'altra dal circo: entrambi, in maniera forse idealizzata, sono inizialmente convinti di poter sopravvivere solo grazie all'amore. Man mano che vengono riconosciuti, i due sono costretti però a spostarsi di luogo in luogo per la campagna danese; e quando le ristrettezze economiche e la fame li metteranno con le spalle al muro, preferiranno un doppio suicidio nel bosco piuttosto che dichiararsi sconfitti e tornare indietro (la pellicola si conclude con un fermo immagine sul colpo di pistola finale). Nella prima parte del film sembra trionfare la spensieratezza, al limite dello stucchevole: ozio e giochi idilliaci, frasi sull'amore e sulla vita, picnic sull'erba e passeggiate fra gli alberi. Più si procede nella narrazione, però, irrompono i sensi di colpa, le difficoltà, le esigenze pratiche, il bisogno di procurarsi denaro o un lavoro (che lui non può permettersi in quanto disertore), la necessità di cibarsi con quello che offre la natura (lamponi, bacche, funghi), e infine l'inevitabile decisione di rinunciare alla vita piuttosto che perdere la libertà e un'identità così faticosamente conquistata. Da sottolinare alcune scene curiose nella seconda parte: a un certo punto lei decide di vendere il ritratto fattole da "un certo Toulouse-Lautrec" in un caffé a Parigi (che il commesso giudica "un disegno di poco valore"). Non mancano sequenze più abusate, come quella dell'indovina che deve predire il futuro e che, quando le carte che escono sono tutte negative, dice: "No, deve esserci uno sbaglio"; ma i momenti che rimangono impressi sono altri, come quello in cui i due amanti mangiano i lamponi con la panna, o la farfalla liberata nel finale. Il film contribuì a rendere popolare l'Andante del bellissimo Concerto n. 21 per piano e orchestra di Mozart, che si sente ripetutamente durante la pellicola (insieme a brani di Vivaldi) e che oggi è noto proprio come "il tema di Elvira Madigan". La Degermark vinse il premio come miglior attrice al Festival di Cannes, ma poi non ebbe una carriera cinematografica fortunata.