31 ottobre 2008

Les demoiselles de Rochefort (J. Demy, 1967)

Josephine (Les demoiselles de Rochefort)
di Jacques Demy – Francia 1967
con Catherine Deneuve, Françoise Dorléac
****

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Semplicemente una delizia, dall'inizio alla fine. Il secondo musical di Demy, rispetto a "Les parapluies de Cherbourg", è più svagato e leggero e anche più simile nell'impianto ai classici musical hollywoodiani: ci sono coreografie, balli nelle strade e nelle piazze e persino la partecipazione di Gene Kelly! Il feeling resta comunque indiscutibilmente francese ed europeo. Anche la musica di Michel Legrand è più varia e vivace, più ritmica e meno triste, e ingloba jazz e musica classica. Con la precedente (e anche con "Lola"), la pellicola condivide inoltre l'appartenenza a un unico universo romantico (come lasciano capire alcune frasi che fanno riferimento diretto ai personaggi degli altri lungometraggi). Le due protagoniste sono le sorelle – anche nella realtà – Deneuve e Dorléac, qui nei panni di Delphine e Solange, "nate sotto il segno dei gemelli", che insegnano rispettivamente danza e musica e sognano di trovare l'amore ideale e di abbandonare la piccola città costiera di Rochefort per andare a Parigi, la capitale dell'arte. Ma nel week-end, per la festa che si terrà in piazza, giungono due camionisti-imbonitori con il loro stand di motociclette: abbandonati dalle proprie ragazze (che preferiscono i marinai, altra costante dei film di Demy), i due chiedono alle gemelle di esibirsi sul palco del loro stand in un numero di canto e ballo per attirare i clienti. Nel contempo, Delphine e Solange si innamorano rispettivamente di un soldato-poeta-pittore (che l'ha ritratta in un quadro, senza conoscerla) e di un affascinante compositore americano; e anche la loro madre ritrova il suo antico fidanzato, Simon Dame, che aveva lasciato a causa del suo nome insopportabile ("Non avrei mai potuto farmi chiamare Madame Dame!"). Un cast fenomenale (ci sono anche Michel Piccoli, Danielle Darrieux, George Chakiris e Jacques Perrin), le geometrie delle inquadrature, la regia ariosa, gli abiti e le scenografie dai colori sgargianti, i toni romantici, tristi, gioiosi e frivoli, le accattivanti melodie di Legrand (citato anche nel testo di una canzone), con temi distribuiti equamente tra tutti i numerosi personaggi che li cantano e li ballano in allegria (e le varie coppie condividono gli stessi temi musicali!), la bellezza delle ragazze di quegli anni: tutto concorre a farne un film piacevolissimo. Da "Lola" recupera la struttura a molti personaggi che si incontrano, si separano e si ritrovano, con segreti e destini che li legano a loro insaputa fino alla risoluzione finale, fra amori lasciati e ritrovati, sognati, idealizzati o che si materializzano. Notevole, fra le tante, la scena della cena in famiglia, dove i personaggi non cantano ma i dialoghi sono tutti in rima.

Nota: Poco prima dell'uscita del film nel nostro paese, Françoise Dorléac morì in un tragico incidente stradale. I distributori italiani ebbero allora la bella pensata di ridurre il suo ruolo, tagliando quasi quaranta minuti di pellicola, reintitolandola "Josephine" (che fra l'altro non era nemmeno il nome del personaggio interpretato dalla Deneuve, ma – come scrisse Kezich all'epoca – suonava "più malizioso") e doppiando tutte le canzoni in italiano. Tanto basta per tenersi alla larga dall'edizione nostrana e per guardarlo soltanto e rigorosamente in versione originale.

30 ottobre 2008

Les parapluies de Cherbourg (J. Demy, 1964)

Les parapluies de Cherbourg
di Jacques Demy – Francia 1964
con Catherine Deneuve, Nino Castelnuovo
***1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

A Cherbourg, cittadina costiera della Normandia, la diciassettenne Geneviève lavora come commessa nel negozio di ombrelli di sua madre e giura eterno amore al meccanico Guy. Ma quando questi è costretto a partire per la guerra in Algeria, lasciandola incinta, la ragazza si sposa con il distinto Roland, commerciante di diamanti. Geneviève e Guy si rincontreranno quattro anni più tardi, sotto la neve: giusto il tempo per un breve e formale addio. In questo geniale musical – forse il film più celebre di Demy, pervaso da un romanticismo esasperato, lirico e struggente – ogni singola linea di dialogo viene cantata, anche le frasi più insignificanti, mentre gli attori (doppiati) recitano come se si trattasse di una pellicola normale, senza balli o coreografie. Vinse la Palma d'Oro al Festival di Cannes e divenne il trampolino di lancio per la giovane e bellissima Deneuve (dall'aspetto quasi etereo: "come una vergine con bambino"), permettendo a Demy, con l'aiuto del fido compositore Michel Legrand, di realizzare finalmente quel musical all'europea che era un suo progetto sin dai tempi di "Lola" (di cui, in un certo senso, è un sequel: il personaggio di Roland era infatti il protagonista di quel primo lungometraggio, cui fa anche un diretto riferimento). Oltre alla trama, divisa in tre parti (la partenza, l'assenza, il ritorno), spiccano le scenografie che colorano la vera Cherbourg di tinte pastello o toni vivaci, fra porte, corridoi, muri e carte da parati rosa, verde, blu: anche gli ombrelli sono variopinti (almeno quelli esposti nel negozio di Geneviève: ma l'unico acquirente che si vede ne acquista uno nero), mentre il cielo è scosso dal maltempo, dalla pioggia o dalla neve (vedi la bellissima scena finale) e le strade acciottolate sono percorse da gruppi di marinai americani. Se già l'aspetto formale della pellicola fa gridare al capolavoro (l'attenzione ai dettagli, la cura dei costumi e delle scenografie, la colonna sonora), i contenuti non sono da meno, con momenti di sublime sentimentalismo ("Io che sarei morta per lui, perché non sono morta?"). Nonostante la prima impressione, il film è tutt'altro che zuccheroso e consolatorio: l'amore assoluto che viene cantato nella prima parte deve fare i conti con la sua progressiva degenerazione, e i sentimenti idealizzati lasciano il posto alla disillusione. In fondo, "la gente muore d'amore solo al cinema".

29 ottobre 2008

La grande peccatrice (Jacques Demy, 1963)

La grande peccatrice (La baie des anges)
di Jacques Demy – Francia 1963
con Claude Mann, Jeanne Moreau
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Contagiato da un amico con la passione per il gioco d'azzardo, un giovane impiegato di banca si reca a Nizza per frequentarne il casinò. Qui conosce un'accanita giocatrice che ha abbandonato il marito e la famiglia per seguire la sua irrefrenabile compulsione per la roulette. Uniti dal comune amore per il gioco e da un'attrazione reciproca, i due trascorreranno insieme alcuni giorni: ma la loro relazione sarà destinata a durare? A differenza del precedente "Lola", il secondo lungometraggio di Demy è praticamente incentrato su due soli personaggi: Jean, affascinato da uno stile di vita lussuoso e opulento (che "sembra uscito da un romanzo americano") ma con i piedi per terra e capace di fermarsi al momento giusto, quando sa che sta per cominciare a perdere; e Jacqueline, che non gioca per il denaro ma per l'emozione dell'azzardo, apparentemente incapace di amare qualcuno. Sullo sfondo si vedono scorci della Promenade des Anglais di Nizza (su cui si apre la "baia degli angeli" del titolo originale), gli alberghi di Montecarlo, i locali della Costa Azzurra. Bravi gli attori (la Moreau è particolarmente sexy). Ma la pellicola, seppur intrigante, è forse un po' monotona, con lunghe e ripetute scene tutte uguali in cui i due protagonisti giocano alla roulette, vincendo somme enormi per poi perderle rapidamente, a seconda di come vuole un imperscrutabile destino.

28 ottobre 2008

Lola, donna di vita (Jacques Demy, 1961)

Lola, donna di vita (Lola)
di Jacques Demy – Francia 1961
con Anouk Aimée, Marc Michel
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Ho deciso di andare alla scoperta di Demy, un autore che da tempo mi incuriosiva ma di cui non avevo mai visto niente, famoso per i suoi film romantici, fiabeschi e musicali. E ho cominciato con "Lola", il suo primo lungometraggio, che nelle intenzioni originali avrebbe dovuto essere – manco a dirlo – una commedia musicale: ma il regista fu costretto a togliere le musiche per problemi di budget (sostituendole con brani classici, come l'Allegretto della settima sinfonia di Beethoven) e nella pellicola resta così una sola canzone, la bella "C'est moi, c'est Lola". Il progetto di realizzare un musical alla francese, comunque, sarebbe stato solo rimandato di qualche anno (fino a "Les parapluies de Cherbourg" del 1964). Ambientato nell'arco di tre sole giornate a Nantes, non lontano dal luogo di nascita del regista, il film segue le vicende di Lola, ballerina di cabaret che spera di ritrovare un giorno Michel (l'uomo che ama sin da ragazza e che sette anni prima era fuggito lasciandola incinta), e di Roland, un giovane irrequieto e annoiato che sogna di partire per mete lontane e che si innamora, non ricambiato, di lei. Attorno ai due protagonisti si muove tutta una serie di personaggi uniti da aspirazioni, timori, desideri o destini in comune: fra questi spiccano un misterioso cowboy in abito bianco e cadillac decappottabile, che potrebbe forse essere il redivivo Michel; il marinaio americano Franky, di stanza a Nantes e occasionale compagno di Lola; la raffinata signora Desnoyers, che ha abbandonato il marito perché giocava d'azzardo (argomento che verrà sviluppato nel successivo film di Demy, "La grande peccatrice"); e sua figlia Cécile, quattordicenne di buone maniere. La sceneggiatura sembra giocare col loro, mettendo in scena coincidenze, incroci e parallelismi e legandoli attraverso nomi, conoscenze, esperienze, passioni, luoghi, frasi e oggetti. Quasi tutti i personaggi, infine, sembrano costantemente in procinto di partire dalla città, minacciano di farlo o lo fanno effettivamente al termine della pellicola. Il film, che si dipana con una disinvoltura quasi onirica che ricorda le giostre del luna park, è introdotto da un proverbio cinese ("Pianga chi vuole, rida chi può") ed è dedicato a Max Ophüls (forse pensando a "La ronde"). Inoltre anticipa molti temi e situazioni che caratterizzeranno le opere successive di Demy: in fondo sembra proprio un musical senza canzoni.

27 ottobre 2008

Batman – Il film (L. Martinson, 1966)

Batman - Il film (Batman: The Movie)
di Leslie H. Martinson – USA 1966
con Adam West, Burt Ward
**1/2

Visto in DVD.

Da bambino non ero particolarmente appassionato ai telefilm di Batman degli anni sessanta, caratterizzati da un inconfondibile stile camp e responsabili di aver appiccicato al personaggio un'immagine kitsch che si sarebbe scrollato di dosso soltanto negli anni ottanta grazie a Frank Miller (ma il cinema se ne sarebbe accorto vent'anni più tardi, con le pellicole di Christopher Nolan: basti vedere come Joel Schumacher, e in parte anche Tim Burton, abbiano continuato ad avere come riferimento il pipistrello della tv e soprattutto i suoi villain). Solo adesso mi rendo conto di come quei telefilm, lungi dall'essere semplicemente stupidi, fossero invece una satira del genere supereroistico piena di autoironia e di sprezzo del ridicolo. Anche questo film, realizzato nell'intervallo fra la prima e la seconda stagione del serial televisivo allo scopo di lanciarlo all'estero (non a caso il piano criminale che Batman e Robin sono chiamati a sventare ha come obiettivo nientemeno che l'Organizzazione delle Nazioni Unite), è piuttosto divertente, grazie al fatto di non prendersi assolutamente sul serio. L'ingenuità e l'infantilismo sono così scoperti da non dare fastidio: al contrario, si intravede sempre la volontà del regista, dello sceneggiatore (Lorenzo Semple jr.) e degli attori di creare situazioni volutamente irrealistiche (e lo dichiara già la didascalia di apertura, un inno all'escapismo, al disimpegno e al puro intrattenimento). Agli elementi tipici della serie tv (gli assurdi bat-gadget con relativo cartellino con il nome, le pittoresche esclamazioni di Robin, i dialoghi pomposi, le immancabili scalate ai muri, le deliranti trappole dei criminali, le onomatopee disegnate sullo schermo, le inquadrature sghembe) si aggiungono scene di una comicità così demenziale da risultare irresistibili (lo squalo esplosivo, i sicari disidratati, e soprattutto la sequenza in cui Batman deve sbarazzarsi della bomba sulla banchina del molo). Come nella miglior tradizione degli episodi speciali, il Dinamico Duo deve affrontare un'insolita alleanza di supervillain: il Joker (Cesar Romero, che aveva rifiutato di radersi i suoi famosi baffi, chiaramente visibili attraverso il trucco), il Pinguino (un Burgess Meredith sopra le righe e vero leader del gruppo), l'Enigmista (Frank Gorshin, i cui indovinelli e le relative soluzioni, "le uniche possibili", sono di un'idiozia unica) e la Donna Gatto (Lee Meriwether, che sostituisce la Julie Newmar del telefilm, impegnata su un altro set). E quest'ultima, nei falsi panni della giornalista sovietica Kitka, riesce persino a sedurre Bruce Wayne, mostrando un lato vulnerabile della personalità dell'eroe e dando a West la possibilità di recitare in diverse scene anche senza la maschera.

26 ottobre 2008

Johnny Guitar (Nicholas Ray, 1954)

Johnny Guitar (id.)
di Nicholas Ray – USA 1954
con Joan Crawford, Sterling Hayden
***1/2

Visto in DVD.

Fenomenale western passato alla storia per la sua aticipità, per i toni forti e barocchi, per la fotografia dai colori accesi e per personaggi (soprattutto quelli femminili, interpretati dalla Crawford e da Mercedes McCambridge) che veicolano passioni veementi come amore, odio, intolleranza, invidia. Il pistolero Johnny Logan – che si fa chiamare Johnny Guitar e viaggia con una chitarra sulle spalle e apparentemente senza armi – viene richiamato da Vienna, sua amante di un tempo e ora proprietaria di un saloon e di una casa da gioco in un territorio isolato (ma che nel giro di qualche anno sarà raggiunto dalla ferrovia in costruzione) affinché la aiuti a fronteggiare l'ostilità che gli abitanti delle terre vicine manifestano nei suoi confronti. Chi odia maggiormente Vienna e fomenta la popolazione è in realtà un'altra donna, la giovane Emma, che la accusa di proteggere quattro banditi – guidati da Dancing Kid – e di dare loro ospitalità: ma forse il motivo del suo rancore stà tutto nella sessualità repressa e nell'incapacità di accettare la corte del Kid nei suoi confronti. La rivalità fra le due donne è il vero filo conduttore della pellicola, che infatti si conclude in un duello finale fra di loro, mentre i personaggi maschili (sia quello interpretato da Hayden, che pure dà il titolo al film, sia la banda guidata da Scott Bredy, dove spicca un giovane Ernest Borgnine, e naturalmente gli abitanti del villaggio) sono succubi delle loro volontà e si dimostrano in fondo del tutto passivi. Se il tema della giustizia sommaria era ben radicato nei western classici (si pensi al magnifico "Alba fatale" di Wellman), quello della caccia alle streghe sembra un riferimento diretto, da parte di Ray, al maccartismo. Nel complesso, per il suo stile eccentrico (nella prima parte non mancano gli sguardi in camera), il lirismo dei dialoghi, la potenza di alcune scene (l'incendio notturno) e la buona caratterizzazione dei personaggi (vedi i quattro membri della banda di Dancing Kid), è un film che rimane impresso nella memoria dello spettatore e va sicuramente annoverato fra i più interessanti del periodo. In qualche modo, comunque, mi ha ricordato "Rancho Notorious" di Fritz Lang. Ottima la Crawford in un ruolo molto forte e non privo di sfumature e di ambiguità ("Mai visto una donna più uomo di lei", commenta il barista).

24 ottobre 2008

Anna Christie (C. Brown, 1930)

Anna Christie (id.)
di Clarence Brown – USA 1930
con Greta Garbo, Charles Bickford
**

Visto in DVD.

"Portami un whisky", dice un ragazza appena entrata in un malfamato bar presso il porto di New York. Sono passati quindici minuti dall'inizio del film e la promessa che i produttori avevano lanciato sulle locandine, "Garbo talks!", viene mantenuta. Nella sua prima pellicola sonora, tratta da un dramma teatrale di Eugene O'Neill già portato sullo schermo nel 1923, la Garbo è una donna di origine svedese che nasconde a tutti, a cominciare dal padre (capitano di una chiatta che trasporta carbone) di non essere affatto quella "brava ragazza" che il genitore crede. Anna, infatti, fuma, beve ed è una ex prostituta che afferma di odiare tutti gli uomini. Ma di fronte all'amore del rude e ingenuo marinaio Matt, non saprà più nascondere la verità. Realizzata prima del codice Hays, la pellicola affronta temi controversi ma lo fa con dialoghi e situazioni all'acqua di rose ed è pure cinematograficamente poco interessante. Il personaggio della Garbo è combattuto fra un'ideologia proto-femminista ("Non ho padroni, io sono mia!") e il desiderio di una vita onesta (che non può che identificarsi nel matrimonio): la "divina" ricevette una nomination all'Oscar, ma vista oggi la sua interpretazione appare esageratamente carica.

Note: Già affermata come diva del muto, la Garbo rimandò il più a lungo possibile il proprio esordio nel cinema sonoro. Il suo film precedente, "The kiss" del 1929, fu in effetti l'ultima pellicola fatta uscire dalla MGM senza dialoghi. Nel 1931 realizzò una versione in tedesco di "Anna Christie", con attori e regista (Jacques Feyder) diversi dall'originale.

20 ottobre 2008

WALL-E (Andrew Stanton, 2008)

WALL-E (id.)
di Andrew Stanton – USA 2008
animazione digitale
***1/2

Visto al cinema Uci Bicocca, con Albertino e altra gente.

Ricordo che anni fa, quando "Il re leone" vinse l'Oscar per la miglior colonna sonora, sentii un (sedicente) critico cinematografico – che stava commentando i film premiati su un canale televisivo locale – sentenziare con sufficienza che quel premio era "un contentino dato ai bambini" e che "il cinema d'animazione non è nemmeno vero cinema". Chissà se quell'inetto ha cambiato opinione, ora che da qualche anno a questa parte proprio alcuni cartoni animati si ritrovano regolarmente fra i migliori film dell'annata, talvolta addirittura al primo posto. L'ennesimo capolavoro della Pixar è una pellicola che ci porta di quasi un migliaio di anni nel futuro, su un pianeta Terra ormai disabitato, distrutto dal consumismo e invaso dalla ruggine e da montagne di rifiuti. Il robottino Wall-E, l'unico ancora funzionante fra i tanti compattatori di rottami che avevano il compito di "fare pulizia", prosegue indefesso il proprio lavoro e nel frattempo ha sviluppato una coscienza, una passione per il modernariato e soprattutto la speranza di trovare, prima o poi, un'anima gemella. Il che puntualmente si verifica quando sul pianeta giunge un altro essere artificiale, la sofisticatissima e ultra-tecnologica Eve, alla ricerca di una forma di vita vegetale... Se i primi trenta-quaranta minuti di film, praticamente muti e con i due robottini che comunicano i propri sentimenti soltanto attraversi segnali e suoni in stile C1P8, dimostrano per l'ennesima volta come la casa di John Lasseter sia in grado di stimolare commozione, riflessioni e divertimento con una manciata di pixel, tante buone idee e senza bisogno di ricorrere a battutine e citazioni, proprio come il buon cinema d'intrattenimento dovrebbe fare (e fa sempre più raramente), la seconda parte è forse meno dirompente: lo scenario post-apocalittico lascia spazio all'avventura e il film si riduce a una (per quanto ottima) pellicola d'azione, anche se non mancano momenti emozionanti (come il balletto nello spazio o l'apparizione dei robot difettosi) e riflessioni sociali (l'attacco allo stile di vita sedentario e all'eccessivo uso di tecnologia, che porta gli uomini a diventare palle di grasso). Mitico anche il nuovo utilizzo in un contesto fantascientifico (e non credevo che fosse possibile) per l'incipit di "Also sprach Zarathustra", e belli i titoli di coda che mostrano l'evoluzione storica dell'arte, dai graffiti fino alla computer grafica degli anni ottanta. Forse non sarà all'altezza di "Ratatouille", ma resta comunque un film da non perdere, capace di dar vita a due personaggi che è difficile non farsi entrare nel cuore.

Humain, trop humain (L. Malle, 1974)

Humain, trop humain
di Louis Malle – Francia 1974
con attori non professionisti
**

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Girato in una fabbrica di automobili francese, questo documentario mostra gli operai che lavorano alla catena di montaggio e le varie fasi di assemblaggio delle vetture, senza alcun commento tranne il rumore di fondo. Gli unici dialoghi sono quelli che si sentono nella breve sequenza in cui i nuovi modelli vengono presentati al pubblico durante una fiera di settore. Anche se efficace nel mostrare da vicino le condizioni di lavoro nella fabbrica, dopo un po' si comincia a guardarlo distrattamente. Non manca però una certa suggestione ipnotica, e naturalmente in alcuni momenti non si può non pensare al Chaplin di "Tempi moderni".

19 ottobre 2008

Cacciatori di vampiri (W. Chin, 2002)

Cacciatori di vampiri (The era of vampires)
di Wellson Chin – Hong Kong 2002
con Ken Chang, Yu Rong Guang
*

Visto in DVD.

Scritta e prodotta da Tsui Hark, questa mediocre pellicola cerca inutilmente di riportare in auge, con una messinscena moderna e atmosfere da film horror, quel particolare genere fantastico incentrato sui "vampiri cinesi", che a dire il vero assomigliano più a zombi che ai succhiasangue cui siamo abituati noi occidentali. Quattro allievi di una setta che si dedica alla caccia di questi mostruosi non-morti, guidati dal loro anziano maestro, si fanno assumere come servitori nella dimora di una ricca famiglia che imbalsama i propri defunti trasformandoli in statue di cera. Dovranno fronteggiare un malvagio re vampiro in decomposizione, uno stregone in grado di animare i morti (trasformandoli in zombi saltellanti) e un avido maestro di arti marziali che spera di mettere le mani sul tesoro della famiglia. Se a questo aggiungiamo una doppia storia d'amore, la trama sembrerebbe sufficientemente complessa: peccato che la narrazione sia piatta e confusa e che le scene d'azione offrano più sbadigli che emozioni. "Mr. Vampire", nella sua ingenuità, era di ben altro livello. Oltre a Ken Chang, gli altri protagonisti sono Lam Suet, Michael Chow e Chan Kwok-Kwan (il portiere simil-Bruce Lee in "Shaolin Soccer"!).

18 ottobre 2008

La mia super ex-ragazza (I. Reitman, 2006)

La mia super ex-ragazza (My super ex-girlfriend)
di Ivan Reitman – USA 2006
con Luke Wilson, Uma Thurman
**1/2

Visto in divx.

Una ragazza scaricata, si sa, può diventare pericolosamente vendicativa. Ma se si tratta anche di una supereroina dotata di poteri straordinari e incredibilmente gelosa, possessiva e psicopatica, allora sono davvero guai. Lo scopre suo malgrado Matt, il protagonista di questo film, quando decide di troncare la relazione con la formidabile G-Girl, il cui amore nei suoi confronti si tramuta presto in un odio profondo e che comincia a perseguitarlo in tutti i modi (mandandogli l'automobile in orbita o gettandogli uno squalo vivo in camera). Da questo semplice spunto nasce un filmetto piacevole che gioca in maniera inedita con i cliché del supereroe – ci sono pure l'identità segreta, il nome allitterato (Jenny Johnson) e l'arcinemico (un genio del crimine segretamente innamorato di lei) – fondendoli con quelli della commedia romantica e mostrando persino i risvolti più problematici della vita sessuale di un supereroe. Pur non essendo un capolavoro, la pellicola mi ha divertito e i personaggi mi sono sembrati ben delineati: la Thurman dà vita a un'eroina ossessiva, nevrotica e un po' stronza, mentre Anna Faris è adorabile, come sempre, nei panni di una collega innamorata di Matt. Attenzione: a un certo punto, uno dei protagonisti spoilera "La moglie del soldato"! Sempre meglio di "Hancock", in ogni caso.

17 ottobre 2008

Love on a diet (Johnnie To, Wai Ka-Fai, 2001)

Love on a diet (Sau san naam neui)
di Johnnie To, Wai Ka-Fai – Hong Kong/Giappone 2001
con Andy Lau, Sammi Cheng
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Di solito non amo le commedie romantiche di To, ma questa mi è sembrata simpatica e sopra la media, anche per la trovata di "ingrassare" a dismisura i personaggi. Il film, curiosamente, non è ambientato a Hong Kong ma in Giappone e vede ancora una volta insieme la coppia Andy Lau/Sammi Cheng, già protagonisti l'anno precedente del grande successo "Needing you...". Questa volta i due super divi sono quasi irriconoscibili, grazie al trucco e alle protesi che li trasformano in due ciccioni sovrappeso! Lei è intenzionata a dimagrire di 90 chili in sei mesi per riconquistare il suo ex ragazzo, un affermato pianista; e lui, all'inizio un po' controvoglia, le dà una mano, la ospita in casa sua e coinvolge nella "missione impossibile" anche i suoi amici di Chinatown (fra cui Lam Suet e Wang Tian-Lin: e c'è pure una citazione/parodia della celebre scena della pallina di carta di "The Mission"). Com'era facile prevedere, fra i due "ciccioni" scatterà l'amore... Ovviamente in questo tipo di film è inutile cercare imprevedibilità e complessità, e alla fine la pellicola – dopo un buon inizio – diventa banalotta e un po' caricaturale. Ma come commedia romantica è sufficientemente sui generis e i due interpreti si rivelano davvero in forma, oltre che coraggiosi a mostrarsi per quasi tutto il film in versione XXL: mi è piaciuto soprattutto Andy Lau, che di solito non mi fa impazzire. Certo che sembra impossibile che si possa ingrassare così tanto con la cucina giapponese! Molto bella la canzone di Sammi Cheng "Forever beauty", che si sente sia durante il film sia sui titoli di coda.

15 ottobre 2008

Ed Wood (Tim Burton, 1994)

Ed Wood (id.)
di Tim Burton – USA 1994
con Johnny Depp, Martin Landau
***

Rivisto in DVD.

Considerato, forse immeritatamente, "il peggior regista della storia del cinema", Edward D. Wood jr. fu un cineasta di scarso talento ma di grande fantasia, la cui vita privata (fra feticismi personali e insolite frequentazioni) risulta essere certamente più interessante delle sue opere, per lo più pellicole di fantascienza e di exploitation a basso budget, girate in maniera pedestre (il suo motto, in ogni scena, era "buona la prima": non c'era il tempo o la voglia di girarne un'altra), con sceneggiature ridicole e interpretazioni dilettantesche. Circondato da una variopinta "corte dei miracoli" (Tor Johnson, un mostruoso wrestler; Vampira, una conduttrice televisiva dark; Criswell, un falso indovino; e soprattutto Bela Lugosi, il leggendario interprete del primo "Dracula") e disposto a qualsiasi compromesso pur di trovare fondi per il suo lavoro (dal lasciarsi imporre il figlio del produttore come attore protagonista al farsi battezzare perché i finanziatori facevano parte di una congregazione religiosa), il Wood ritratto con simpatia e un po' di superficialità da Depp e Burton ama indossare abiti femminili (con una passione particolare per i golfini d'angora) e vede Orson Welles come suo modello ispiratore (l'incontro fra i due cineasti, nel finale, vuole sottolineare i punti in comune fra il cinema "alto" e quello di serie Z: la passione e l'entusiasmo che muove gli uomini che ci stanno dietro e la loro lotta contro le imposizioni di major, produttori e mercato). Il vero punto di forza del film, però, è sicuramente l'anziano e morfinomane Bela Lugosi, interpretato in maniera stratosferica da Martin Landau, che non a caso vinse l'Oscar: a tratti si ha quasi l'impressione che la pellicola voglia essere più un'elegia del grande attore ungherese che di Wood stesso. Rigorosamente in bianco e nero, il film segue la lavorazione di lungometraggi del calibro di "Glen or Glenda", "Bride of the Monster" e il famigerato "Plan 9 from Outer Space" ("Lo sento... è per questo film che io sarò ricordato"). Nonostante il lieto fine che ci azzecca poco (ma non è una novità per Burton), in fondo "Ed Wood" resta uno dei migliori film del regista, forse addirittura il migliore dopo "Edward mani di forbice": ci si ritrova un amore sincero per il lato più oscuro, artigianale e meno gratificante della settima arte. Nel cast, molti nomi noti: da Bill Murray a Jeffrey Jones, da Sarah Jessica Parker a Patricia Arquette, da Vincent D'Onofrio a Lisa Marie. Buone le musiche di Howard Shore.

14 ottobre 2008

Una donna di Tokyo (Yasujiro Ozu, 1933)

Una donna di Tokyo (Tokyo no onna)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1933
con Yoshiko Okada, Kinuyo Tanaka
***

Visto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Con questo mediometraggio, girato da Ozu in soli otto giorni, per la prima volta nel cinema del grande maestro giapponese irrompono la morte e certi toni più forti e "mizoguchiani". La sorella maggiore Chikako, la protagonista, paga gli studi universitari al fratello Ryo lavorando come dattilografa durante il giorno e prostituendosi segretamente in un locale notturno la sera. Quando Ryo viene a saperlo, dapprima si scaglia contro di lei e poi sceglierà il suicidio, lasciando Chikako – e la fidanzata Harue – a piangerlo: "Non mi hai capita fino alla fine. Morire per una cosa del genere... che vigliacco!". Al tema del sacrificio femminile per la famiglia (classico sia per la cultura giapponese sia per il cinema di Ozu, come si vedrà in molte opere successive) si aggiunge qui quello dell'incapacità maschile di sopportare l'umiliazione, che invece mi sembra un po' distante dall'autore nipponico, di solito paladino della "rassegnazione". E infatti il soggetto risulta adattato (da Kogo Noda) da "Sedici ore", un dramma di un autore austriaco, tale Ernst Schwarz (di cui però non ho trovato notizie in rete: c'è addirittura chi ipotizza che si tratti di uno pseudonimo dello stesso Ozu: qualcuno sa qualcosa al riguardo?). Degna di nota la scena in cui Ryo e Harue vanno al cinema a guardare "Se avessi un milione": se in passato il regista aveva mostrato manifesti di pellicole americane appesi nelle stanze dei suoi personaggi, stavolta inserisce addirittura intere sequenze (e persino parte dei titoli di testa) dell'episodio di Lubitsch con Charles Laughton, che con la sua ambientazione da salaryman si sposa alla perfezione con il resto della pellicola. Stilisticamente si fanno notare numerose inquadrature che vedono i personaggi sfocati sullo sfondo e comuni oggetti in primo piano: oltre che con gli inserti, Ozu comincia a giocare con la profondità di campo.

13 ottobre 2008

Guida galattica per autostoppisti (G. Jennings, 2005)

Guida galattica per autostoppisti (The hitchhiker's guide to the galaxy)
di Garth Jennings – USA/GB 2005
con Martin Freeman, Mos Def
**

Rivisto in DVD, con Giovanni e Ilaria.

Sopravvissuto all'improvvisa distruzione della Terra (che è stata demolita dagli alieni Vogon per far posto a un'autostrada spaziale), l'everyman inglese Arthur Dent vaga per il cosmo in compagnia dell'amico Ford Prefect e di altri bizzarri compagni, facendo l'autostop e cercando di scoprire quale sia la domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto (la risposta invece è già nota: 42, come sa anche Google). In sé il film in fondo non è poi male: leggero e demenziale, divertente al punto giusto e con una buon mix fra effetti digitali e artigianali. Insomma, poteva andare peggio. Ma quando alle spalle c'è materiale di partenza del calibro della mitica serie radiofonica e dei romanzi di Douglas Adams, un po' di delusione è inevitabile. Gran parte dell'umorismo dell'autore inglese, paradossale e verbale, sullo schermo semplicemente non funziona: basti pensare a scene come quella del vaso di petunie e della balena, o al Vogon che declama le sue poesie. Come se non bastasse, molte gag sono troncate a metà, e a quel punto era quasi meglio che non fossero inserite affatto ("Per vedere i piani sono dovuto scendere in cantina". E stop, quel dialogo finisce qui, niente cartello "Attenti al leopardo"!). In compenso, c'è parecchio materiale ex novo (ideato in gran parte proprio dal compianto Adams, accreditato come co-sceneggiatore), come le sequenze che coinvolgono John Malkovich, quelle della fuga dal pianeta dei Vogon (mitici i battipanni viventi) e in generale la storia d'amore fra Arthur e Trillian. Nel complesso la comicità diventa più visiva che concettuale, il ruolo della Guida stessa risulta sminuito (non viene quasi mai consultata) e la sottotrama principale, quella dei topi, non è particolarmente convincente. Fra le cose migliori, invece, c'è la tecnologia: il computer Pensiero Profondo, l'astronave Cuore d'Oro e il robot depresso Marvin rimangono impressi sia per il design "arrotondato" sia per la loro personalità. A proposito, nella versione originale Marvin (al cui interno si muove Warwick Davis) ha la voce di Alan Rickman e Pensiero Profondo quella di Helen Mirren, mentre il narratore è Stephen Fry. Le differenze con la vecchia serie televisiva della BBC sono notevoli: più "inglese" e scalcinata quella, più "americana" e professionale questa (alcune scenografie, come l'officina di pianeti su Magrathea, sono spettacolari e lasciano davvero a bocca aperta!). Carina anche la sequenza di apertura, con i delfini che cantano "Addio e grazie per tutto il pesce". Fra gli attori spiccano per simpatia Zooey Deschanel nella parte di Trillian e Sam Rockwell in quella del folle Zaphod Beeblebrox.

Nota: i romanzi originali sono una fonte talmente smisurata di citazioni e di ispirazioni che molti spettatori, guardando il film, in certe scene avranno creduto di trovarsi di fronte a omaggi o parodie, senza sapere che invece è proprio la Guida a essere all'origine di termini, frasi e concetti poi utilizzati da altri (per fare un solo esempio, il nome del traduttore automatico Babelfish). Un po' come era accaduto con i film del Signore degli Anelli, che qualcuno ha accusato di poca originalità perché troppo pieni di quei cliché fantasy che proprio Tolkien aveva invece creato, cinquant'anni prima.

12 ottobre 2008

L'idiota (Akira Kurosawa, 1951)

L'idiota (Hakuchi)
di Akira Kurosawa – Giappone 1951
con Masayuki Mori, Setsuko Hara
**1/2

Rivisto in DVD alla Fogona, con Marisa, in originale con sottotitoli.

Questo adattamento del romanzo di Dostoevskij – di cui sposta l'ambientazione in Hokkaido (non a caso la regione nipponica più settentrionale e vicina alla Russia, annessa al resto del paese soltanto nel diciannovesimo secolo) e nell'immediato dopoguerra – rappresentò un momento particolarmente delicato della lunga storia conflittuale fra Kurosawa e i suoi produttori. L'intenzione del regista era quella di realizzare un film di largo respiro, da distribuire nelle sale in due parti separate. A sua insaputa, invece, la Shochiku tagliò quasi un'ora e mezza delle quattro che costituivano il montaggio originale e ne distrusse i negativi per evitare eventuali ripensamenti. Il film, così, risulta decisamente monco, con cartelli e didascalie che cercano di chiarire gli eventi mancanti. Anche il cast non è del tutto convincente, nonostante i grandi nomi che lo compongono. Masayuki Mori, nei panni di Kameda, il protagonista "positivamente buono", demente ed epilettico, scampato al plotone d'esecuzione come lo stesso Dostoevskij, recita in maniera piuttosto monocorde e sembra quasi uscito da una pellicola muta. La brava Setsuko Hara, la musa di Ozu, qui alla sua seconda collaborazione con Kurosawa, non era forse l'attrice più adatta per una parte come quella della "donna perduta" Taeko Nasu, innamorata di Kameda ma che non ritenendosi degna di lui preferisce sposare il rissoso e passionale Akama. E Toshiro Mifune, che interpreta quest'ultimo (che corrisponde al Rogozhin del romanzo originale) recita come sempre sopra le righe e pare poco in sintonia con gli altri personaggi. Eppure il film ha anche i suoi pregi, dalle suggestive scenografie (magnifica la dimora di Akama, per esempio) all'ambientazione perennemente innevata, dal ritratto di una borghesia ipocrita e dedita alla compravendita di sentimenti e persone, al tragico destino di personaggi folli e autodistruttivi. La cultura russa e quella giapponese sembrano sposarsi perfettamente, e la mano del regista si intravede in molte scene memorabili, come quella iniziale in cui i volti di Mifune e di Mori si specchiano nella vetrina a incorniciare il ritratto della Hara, o la lunga sequenza della festa di compleanno di Taeko.

11 ottobre 2008

Rissa fra amici in stile giapponese (Y. Ozu, 1929)

Rissa fra amici in stile giapponese, aka Fighting Friends (Wasei tenka tomodachi)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1929
con Atsushi Watanabe, Hisao Yoshitani
**1/2

Visto in divx.

Tomekichi e Hozo, due meccanici, vivono sotto lo stesso tetto e dividono tutto da veri amici. Ma l'arrivo di una ragazza in casa incrina la loro armonia. Ritorneranno amici soltanto quando la giovane si fidanzerà con uno studente. Riscoperto soltanto di recente – e infatti nel Castorino di Dario Tomasi veniva dato per perduto – questo cortometraggio di 14 minuti (o si tratta del frammento di un lungometraggio? Dai dati forniti dal Castorino stesso si deduce che il film doveva durare almeno un'ora) è di fatto il secondo lavoro più antico di Ozu a essere sopravvissuto, e in quanto tale ha naturalmente poco a che vedere con lo stile che contraddistinguerà la maturità artistica del regista. Con il precedente, "Giorni di gioventù", condivide a grandi linee il soggetto, quello di due amici che scoprono di essere innamorati della stessa ragazza, ma il fatto che i protagonisti in questo caso siano operai e non studenti cambia di molto le cose, a partire dal setting "proletario". Pur nella sua brevità, il film è parecchio movimentato dal punto di vista stilistico: molto bella, per esempio, la sequenza in cui il camion dei due protagonisti travolge la ragazza, così come quella conclusiva con la vettura che corre parallela al treno. Divertente anche la scena in cui il loro superiore impedisce agli altri operai di dividerli mentre si azzuffano, dicendo: "La lotta è sacra, non intervenite!".

Un grazie a Dan per i sottotitoli in italiano.

9 ottobre 2008

I racconti del cuscino (P. Greenaway, 1995)

I racconti del cuscino (The pillow book)
di Peter Greenaway – GB/Olanda/Francia 1995
con Vivian Wu, Yoshi Oida, Ewan McGregor
***

Rivisto in DVD.

Ho voluto rivedermi questo lungometraggio per ricordare l'attore Ken Ogata, scomparso qualche giorno fa, protagonista di molte pellicole di Shohei Imamura e che qui interpreta il ruolo del padre di Nagiko.

Fondendo insieme "le ossessioni per il corpo e per la calligrafia, i piaceri della sessualità e della letteratura", questo bellissimo film (una delle pellicole esteticamente più gradevoli di Greenaway) prende spunto dal celebre testo di Sei Shōnagon, dama di corte imperiale del Giappone dell'undicesimo secolo e contemporanea di Shikibu Murasaki. I suoi "racconti del cuscino" erano un diario intimo nel quale l'autrice riversava i propri pensieri, compilava liste ed elenchi di "cose che fanno palpitare il cuore" e raccontava delle sue numerose avventure galanti. La giovane Nagiko, protagonista della pellicola, cresce con il culto di quel libro – che le veniva letto dalla zia sin da quando era piccola – e della scrittura, anche perché il padre, a ogni suo compleanno, le impartiva una "benedizione" disegnandole con l'inchiostro ideogrammi giapponesi sul volto e sulla pelle. Una volta adulta e diventata una modella (c'è un bel parallelo fra lo sfarzo dell'antica corte imperiale e le moderne sfilate), la ragazza si mette alla ricerca di un amante che sia abile tanto nell'arte erotica quanto in quella calligrafica, e che possa usare la sua pelle come carta per sempre più raffinati esercizi di scrittura. Forse lo troverà nel giovane inglese Jerome, ma il tradimento e la gelosia glielo porteranno via. Si vendicherà infine del malvagio editore omosessuale che aveva ricattato suo padre e che ha profanato il corpo di Jerome utilizzando la sua pelle per farne un diario intimo "definitivo", ossessionandolo con una serie di tredici racconti, ciascuno dei quali scritto sul corpo di un uomo differente. Il film, ricco e complesso, si avvale di una tecnica già sperimentata ma che qui esplode in tutta la sua efficacia: l'utilizzo di frame con spezzoni e filmati paralleli che si sovrappongono all'inquadratura principale. In questo modo lo spettatore può seguire contemporaneamente tre linee di racconto (quella che mostra la vita di corte di Sei Shōnagon, quella che parla dell'infanzia di Nagiko e quella ambientata nel presente), ciascuna con un approccio cinematografico differente (ambientazione teatrale e camera bassa alla Ozu, bianco e nero e penombra, colori forti e fotografia vivace) e condita da una colonna sonora ad hoc (musica tradizionale, brani popolari di inizio novecento – come la bellissima canzone cinese "Rose, Rose, I Love You" di Lee Yao, la stessa che veniva cantata da Anita Mui nel film "Miracles - The canton godfather" di Jackie Chan! – e moderno techno-pop giapponese: ma non mancano un paio di suggestive canzoni francesi). Le ossessioni di Greenaway ci sono tutte: la morte, il sesso, la catalogazione, l'arte. E non si erano mai sposate così bene.

8 ottobre 2008

Il colore dei soldi (M. Scorsese, 1986)

Il colore dei soldi (The color of money)
di Martin Scorsese – USA 1986
con Paul Newman, Tom Cruise
***

Rivisto in VHS.

Dopo non aver più toccato una stecca da anni, nel corso dei quali si è arricchito con la gestione di un locale e scommettendo sulle giocate degli altri (perché "il denaro vinto dà più soddisfazione di quello guadagnato"), Eddie Felson "lo svelto" torna ad entusiasmarsi per il biliardo grazie al talento di un giovane giocatore, Vincent, che diventa il suo protetto. Ma l'impetuosità del ragazzo, incapace di "saper perdere" al momento giusto, spingerà Eddie a iscriversi personalmente a un torneo per sfidare il suo nuovo pupillo. Chi vincerà, il giovane emergente o la vecchia gloria? Sequel de "Lo spaccone", ambientato in tempo reale 25 anni dopo la pellicola precedente, ne è quasi un remake con Paul Newman nel ruolo del manager che era di George C. Scott e un Tom Cruise tutto sommato non inadeguato nei panni del giovane sbruffone che rischia di rimanere schiacciato dal mondo delle scommesse, ma che alla fine saprà cavarsela molto meglio di quanto non avesse fatto Eddie a suo tempo. La fotografia scura e colorata di Michael Ballhaus, la buona regia (con quei movimenti di macchina attorno al tavolo dal gioco), le atmosfere retrò, la malinconia di un mondo che cambia (vedi i videogiochi che si fanno largo nelle sale un tempo dedicate solo al biliardo), la bella colonna sonora, le interpretazioni dei protagonisti (c'è anche una brava Mary Elizabeth Mastrantonio, ragazza di Vincent e complice di Eddie), e una sceneggiatura scoppiettante ("Sei stato fortunato" - "Sì, a incontrare te.") lo rendono un titolo tutt'altro che minore nella filmografia di Scorsese, anche se il regista ha dichiarato di averlo girato soltanto per racimolare i fondi necessari a produrre "L'ultima tentazione di Cristo". Newman, comunque, ci guadagnò il suo unico Oscar come miglior attore. Brevi comparsate per John Turturro e Forest Whitaker.

7 ottobre 2008

Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo (Don Siegel, 1971)

Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo (Dirty Harry)
di Don Siegel – USA 1971
con Clint Eastwood, Andy Robinson
**

Rivisto in DVD alla Fogona, con Monica e Marisa

Il tarrissimo "Harry la carogna" Callaghan, ispettore della polizia di San Francisco, è sulle tracce di un pazzo assassino che si firma "Scorpio" e che ha minacciato di uccidere una persona al giorno se la città non gli pagherà una grossa cifra. Ispirato al vero caso di Zodiac, il serial killer la cui storia è stata brillantemente portata sullo schermo di recente da David Fincher, il primo episodio delle avventure di "Dirty Harry" è un thriller poliziesco che ha fatto storia e ha influenzato l'intero genere del poliziottesco all'italiana, a base di tutori della legge che mal sopportano le regole e che spesso si scontrano con i propri superiori o si fanno giustizia da soli. Ma a parte il personaggio interpretato da Eastwood e l'atmosfera urbana anni settanta, non è che la pellicola offra poi molto: mi è sembrata datata e poco coinvolgente, e lo testimonia il fatto che non ricordavo assolutamente di averla già vista non più di tre-quattro anni fa! Molti sono i personaggi inutili (come l'aiutante messicano) e le scene tirate per le lunghe (come l'inseguimento notturno). Alla fine del film, Callaghan getta via il distintivo (un omaggio a "Mezzogiorno di fuoco"?): evidentemente ci ripenserà, visto che sarà poi protagonista di ben altre quattro pellicole, nessuna delle quali girata però da Siegel. Com'è noto, il personaggio in originale si chiama Callahan (senza la "g").

3 ottobre 2008

Sotto gli ulivi (A. Kiarostami, 1994)

Sotto gli ulivi (Zire darakhatan zeyton)
di Abbas Kiarostami – Iran 1994
con Mohamad Ali Keshavarz, Hossen Rezai
****

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Con questo indimenticabile film sull'amore e sull'arte (la sua visione in sala rappresentò il mio primo incontro con Kiarostami e in generale con il cinema iraniano: fu un colpo di fulmine) il gioco di scatole cinesi della trilogia di Koker giunge a compimento: ciascuno dei tre lungometraggi costituisce un elemento di finzione all'interno della "realtà" rappresentata dal film successivo. "Sotto gli ulivi", infatti, finge di essere il making of di "E la vita continua...", il protagonista del quale, a sua volta, era il regista di "Dov'è la casa del mio amico?". Sullo schermo agiscono dunque contemporaneamente ben due alter ego di Kiarostami: Farhad Kheradmand, protagonista del film precedente che qui deve recitare nella parte di sé stesso, e Mohamad Ali Keshavarz, che nella scena iniziale (rompendo il quarto muro) mette subito in chiaro di essere solo un attore che "interpreta il ruolo del regista del film". La lavorazione di "E la vita continua...", fra le macerie del terremoto del Gilan, trova però un inatteso ostacolo nel delicato rapporto fra due attori (non professionisti: lui è muratore, lei studentessa) di una scena marginale: il giovane Hossein è innamorato di Tahereh, che sullo schermo interpreta sua moglie, e attende da lei una risposta alla sua richiesta di matrimonio. Questa giungerà solo della fine del film, ma noi non la conosceremo mai perché la macchina da presa si terrà pudicamente a distanza, intrattenendoci con un campo lunghissimo nel quale i personaggi si riducono a due puntini visti da lontano: nel frattempo risuonano le note di un concerto di Cimarosa, nella cui gioiosità risiede forse la soluzione al dilemma fornito dal finale aperto. "Sotto gli ulivi" è un film unico nel suo genere, poetico e stimolante, esteticamente gradevolissimo, costruito su soluzioni cinematografiche insolite e coraggiose (la lunga soggettiva dell'automobile guidata dalla signora Shiva, l'assistente del regista; la ripetizione, quasi allo sfinimento, della scena minimalista recitata da Hossein e Tahereh), scenografie intriganti (i cespugli fioriti che costeggiano l'ormai celebre sentiero a zig-zag; la verde collina costeggiata dagli ulivi mossi dal vento, dove pernotta la troupe cinematografica), spunti filosofici o a sfondo sociale (le ingenue ma profonde riflessioni di Hossein sulla necessità di far sposare i ricchi con i poveri e gli istruiti con gli analfabeti; l'incapacità dei giovani attori di separare il ruolo che recitano dalla realtà), e come tale è godibile anche trascurando l'autoreferenzialità. Però, tra le righe, offre molto di più: in diverse scene, per esempio, rivediamo Babak e Ahmed Ahmadpur, i protagonisti di "Dov'è la casa del mio amico?", la cui sorte era rimasta in sospeso alla fine di "E la vita continua...": il sollievo nel saperli vivi non può essere colto da chi non ha visto entrambi i film precedenti.

2 ottobre 2008

Dove sono finiti i sogni di gioventù? (Y. Ozu, 1932)

Dove sono finiti i sogni di gioventù? (Seishun no yume imaizuko)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1932
con Ureo Egawa, Kinuyo Tanaka
**1/2

Visto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Alla morte del padre, il ricco e spensierato studente Tetsuo Horino è costretto ad abbandonare anzitempo l'università per assumere la carica di direttore dell'azienda di famiglia. I suoi tre migliori amici, Kumada, Shimazaki e Saeki (rispettivamente Kenji Oyama, Chishu Ryu e Tatsuo Saito), portano invece a termine gli studi e una volta laureati vengono assunti proprio dalla ditta di Tetsuo, che li "aiuta" durante il test di ammissione. Il ragazzo, proiettato troppo presto nel mondo degli affari e delle responsabilità da adulto, vorrebbe trovare in loro ancora i compagni di svago dei bei tempi andati, ma è evidente che non tutto è come prima e che il rapporto fra datore di lavoro e dipendenti non gioca a favore della loro amicizia. A ingarbugliare la situazione ci si mette anche una ragazza: Oshige, di cui Tetsuo è innamorato ma che è promessa in matrimonio a Saeki. In un film caratterizzato dai consueti cambi di registro (si veda, per esempio, come si passi rapidamente dalle gag del compito in classe al dramma dell'annuncio della morte del padre di Tetsuo), Ozu affronta il tema dello scarto e dell'incompatibilità fra il periodo della gioventù (spensierato e felice) e quello dell'età adulta (dominato dalle responsabilità e dai doveri sociali che non lasciano spazio alla felicità individuale). Il passaggio dal primo al secondo rappresenta un fase cruciale e ineludibile (soprattutto in Giappone) e non può che comportare la rinuncia, volontaria o meno, a una parte di sé, che si tratti dell'amicizia o dell'amore.

1 ottobre 2008

Accattone (Pier Paolo Pasolini, 1961)

Accattone
di Pier Paolo Pasolini – Italia 1961
con Franco Citti, Franca Pasut
***1/2

Rivisto in VHS, con Marisa.

Il bel film d'esordio di Pasolini, se da un lato sembra debitore del neorealismo italiano (la descrizione non edulcorata della miseria e della piccola delinquenza, lo sfondo delle desolate periferie di Roma, la fotografia in bianco e nero di Tonino Delli Colli), dall'altro si pone nel solco di una poetica del tutto personale, la stessa che l'autore portava avanti con le sue opere letterarie come i romanzi "Ragazzi di vita" e "Una vita violenta", ambientati fra la gioventù sottoproletaria delle borgate romane e capaci di dare voce (anche attraverso l'uso della parlata dialettale) a fasce di popolazione che il cinema e la letteratura sembravano voler ignorare perché troppo squallide, umili oppure scomode in un periodo storico dominato dalla piccola borghesia che stava "ricostruendo" l'Italia e che mal sopportava di veder elevati a protagonisti di opere d'arte i reietti e gli "scarti" della società. Il protagonista Vittorio, chiamato da tutti "Accattone" (soprannome che lui stesso sfoggia orgogliosamente: "Di Vittorio ce ne sono tanti, di Accattone uno solo"), si vanta di non aver mai lavorato nella propria vita. Trascorre le giornate in strada o al bar in compagnia di amici della stessa risma e si mantiene facendo il "pappone", sfruttando Maddalena, una prostituta: quando questa verrà arrestata, cercherà di mettere sulla stessa strada anche la più ingenua Stella, della quale finirà forse per innamorarsi. Il proposito di trovarsi un lavoro "onesto" durerà una sola giornata: dopo un inquietante sogno premonitore, morirà in un incidente in seguito a un tentativo di rapina, e le sue ultime parole saranno: "Mo' stò bene". Più che sulla trama, la pellicola punta tutto sulle atmosfere e sullo scenario di una Roma che sembra uscita da poco dalla guerra, fra case diroccate, discariche abusive, campi incolti, strade dissestate e quartieri poveri non ancora raggiunti dal boom economico i cui frutti si intravedono sullo sfondo, sotto forma dei primi condomini e casermoni di cemento. In un mondo che poggia le proprie fondamenta sulla miseria e la prostituzione, Accattone e i suoi compari cercano di mantenersi a galla fra scherzi e scommesse, lavori malpagati e bighellonaggio, mentre i loro canti popolari e gli stornelli in romanesco si intrecciano con la musica "religiosa" di Johann Sebastian Bach che sembra voler nobilitare un mondo privo di Dio ed esistenze senza un futuro (l'uso della musica classica in un contesto così povero mi ha ricordato quello che farà Kiarostami nei suoi film iraniani). Bernardo Bertolucci (che l'anno seguente avrebbe esordito a sua volta filmando un soggetto di Pasolini, "La commare secca") figura come aiuto regista e forse ha contribuito all'impronta tecnica del film, visto che PPP era un assoluto neofita della macchina da presa: per sua stessa ammissione, la decisione di dedicarsi all'attività di regista cinematografico era nata per esprimersi "in una tecnica diversa, di cui non sapevo nulla e che imparai in questo primo film". Certo, il linguaggio cinematografico è spesso "sgrammaticato" (eccesso di primi piani statici, montaggio confuso, inquadrature e "salti" da film muto) ma il risultato è eccellente, crudo e realistico. Anche per questo motivo non mancarono violenti polemiche da parte di politici e di benpensanti, che osteggiarono in ogni modo il film: "Accattone" fu la prima pellicola, nella storia del cinema italiano, a essere vietata per decreto ai minori di 18 anni (all'epoca la normativa prevedeva al massimo il divieto ai minori di 16 anni).