Tre manifesti a Ebbing, Missouri (M. McDonagh, 2017)
Tre manifesti a Ebbing, Missouri
(Three Billboards Outside Ebbing, Missouri)
di Martin McDonagh – USA/GB 2017
con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell
***1/2
Visto al cinema Colosseo, con Sabrina e Chiara.
Per ottenere giustizia per sua figlia Angela, il cui stupro e omicidio è rimasto irrisolto, l'ostinata Mildred Hayes (McDormand) affigge tre giganteschi manifesti appena fuori dalla cittadina di Ebbing allo scopo di invitare la polizia locale, guidata dallo sceriffo Bill Willoughby (Harrelson), a indagare con maggior solerzia, attirando in questo modo anche l'attenzione dei media. L'iniziativa non viene ben vista dalla comunità, e soprattutto dai colleghi di Willoughby, benvoluto da tutti anche perché con un tumore in fase terminale. Fra questi spicca l'agente Dixon (Rockwell), immaturo, violento, razzista e represso: ma sarà proprio lui a trovare una sorta di redenzione. "La rabbia genera rabbia" è la frase chiave del film (ironicamente pronunciata dal personaggio più "stupido" di tutti, l'amante diciannovenne del marito della protagonista): la faida fra la tostissima Mildred (l'attrice ha affermato di essersi ispirata a John Wayne per il suo personaggio) e il corpo di polizia di Ebbing, che si ingantisce sempre più (fra minacce, pestaggi, incendi dolosi) e che finisce col coinvolgere anche gli altri abitanti del paese (l'altro figlio della donna, la sua collega di lavoro, l'agente pubblicitario, vari simpatizzanti per l'una o per l'altra parte), sarà superata soltanto grazie ai sensi di colpa e alla presa di coscienza che la propria rabbia e il proprio odio devono essere incanalati in qualche maniera (come e dove incanalarli è il vero problema). La provincia americana fa da sfondo a una vicenda stratificata che ricorda certe opere di Clint Eastwood ("Mystic River") e, per la commistione fra dramma morale e comicità nera e grottesca (con alcuni momenti persino esilaranti), dei fratelli Coen ("Fargo", con la stessa McDormand) o Tarantino (già modello per il precedente "Sette psicopatici"): ma i temi sono qui filtrati da una sensibilità europea (McDonagh, al terzo lungometraggio e anche sceneggiatore, è britannico di origine irlandese) che rende più complessi e sfaccettati i personaggi, nessuno dei quali è puramente buono o cattivo. I tre protagonisti principali (Mildred, lo sceriffo Willoughby e l'agente Dixon) hanno sia pregi che difetti, mostrano lati contradditori, eppure a tratti simpatizziamo per ciascuno di loro (Dixon, in particolare, è quello che maggiormente si evolve nel corso della vicenda). E la violenza e l'aggressività si raffreddano e si stemperano talvolta in momenti catartici che mostrano un desiderio di riappacificazione (si pensi anche all'incontro in ospedale fra Dixon e Red Welby, il concessionario pubblicitario da lui pestato). Il finale aperto è poi la ciliegina sulla torta, e contribuisce ad allargare il significato del film al di là della specifica vicenda. Un piccolo gioiellino, premiato ai Golden Globe e in corsa fra i favoriti per l'Oscar. Nel cast anche John Hawkes (il marito di Mildred), Peter Dinklage, Lucas Hedges, Caleb Landry Jones, Abbie Cornish, Sandy Martin.
5 commenti:
Film potente e specchio di un'America ancora pionieristica che insiste nella tentazione di farsi giustizia da sé. Colpisce sempre, davanti a film come questi, la bellezza della vastità dei paesaggi, che dovrebbe invitare alla pace, e la ristrettezza e durezza dei vissuti umani. Che continui a lavorare una latente "cattiva coscienza" per come hanno rubato quella magnifica terra ai loro primitivi e legittimi abitanti?
La vendetta e la ricerca di giustizia sono temi comuni nel cinema americano sin dai primi western (non a caso Frances McDormand ha dichiarato di essersi ispirata a John Wayne per il suo personaggio). Il merito di questo film è di presentarli in un contesto in cui si può simpatizzare, a turno e in parte, per ciascuno dei personaggi, pur riconoscendo i limiti, i difetti e gli eccessi del loro comportamento. Secondo me il fatto di essere stato diretto da un regista europeo, e cioè da un "esterno" a quell'ambiente, è un punto decisamente a favore.
Qualcuno "contesta" il finale come un po' paracoolo... Anche se io non sono tra questi, leggendo alcune recensioni (dopo averlo visto), devo ammettere che non hanno tutti i torti. Ma a me non dispiace, comunque.
E' comunque una pellicola che poggia le proprie terga su una sceneggiatura ben più che solida, con un approccio tipicamente Coheniano in cui ironia, comicità e tragedia spesso si mescolano manco fossero un ciclopico frullatore esistenziale.
Penso che gli USA, nazione di "bastardi" per autonomasia (che a loro piaccia o meno), siano destinati ad essere la patria naturale di questa "entropia" delle anime.
Resto dell'idea che il cinema americano stia attraversando una fase "neo- neorealista" costituita da pause, riflessioni, audio in presa diretta, dialoghi tutt'altro che criptici eppure fortemente simbolici, montaggio asciutto, e con sceneggiature più che notevoli nonostante un certa linearità narrativa. Devo ammettere che dagli states non mi aspettavo questo ritorno di fiamma di un cinema decisamente più "europeo" (mi rendo conto che è banale dirla così, ma spero di aver reso l'idea) .
Però... Sì, insomma, Wiseman è americano. Ed è il num. UNO della documentaristica. Forse sono io che mi sto stupendo di qualcosa che in realtà continua ad avere una sua base culturale molto più solida di quanto traspare.
Detto ciò, sto tornando ad amare il cinema americano grazie a pellicole come questa. E forse anche grazie ai due anderson e i sempiterni fratelli cohen che di fatto ormai fanno scuola.
Saluda,
Salostia
PS: dopo "Inherent Vice" attendo con trepidazione di vedere "Phantom Thread"...
Per me il finale è perfetto, anzi è uno dei punti di forza del film: qualsiasi altra conclusione avrebbe rischiato di svilire il messaggio o di banalizzare i personaggi.
Detto questo, devo confessare (come ho già scritto più volte) di non amare affatto né i Coen né gli altri autori che citi (i due Anderson, soprattutto Wes). Secondo me, in questo film la parentela con il cinema dei Coen è soltanto superficiale (l'ambientazione e la protagonista), per il resto c'è una densità di emozioni, una solidità di scrittura e una coerenza di idee che i Coen se la sognano: il contribuito di un cineasta europeo come McDonagh è evidente.
Io credo che gli americani debbano fare il cinema che a loro riesce meglio, ovvero quello epico, spettacolare, di genere o comunque hollywoodiano ("La la land" era magnifico!), perché quando provano a scimmiottare il cinema d'autore europeo ottengono risultati risibili o noiosi (vedi anche Soderbergh o Sofia Coppola). Detto questo, l'influsso di autori da altri parti del mondo ha sempre arricchito il cinema statunitense, e mi sembra che negli ultimi anni abbia ricominciato ad accadere proprio questo (non solo dall'Europa, ma anche dall'Asia e dall'America latina: vedi Iñárritu, Cuaròn o Del Toro), dopo un paio di decenni in cui c'era stata maggior "autarchia", con risultati purtroppo evidenti.
Aggiornamento Oscar: "Tre manifesti" ha vinto due premi per le interpretazioni, assegnati a Frances McDormand (miglior attrice) e Sam Rockwell (miglior attore non protagonista).
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