Room (Lenny Abrahamson, 2015)
Room (id.)
di Lenny Abrahamson – Canada/Irlanda/GB 2015
con Brie Larson, Jacob Tremblay
***1/2
Visto al cinema Ducale, con Sabrina, Paola, Teresa e Paolo.
Rapita e tenuta prigioniera per sette anni in un capanno da giardino, Joy trova l'unico conforto nel piccolo Jack, nato dalla relazione con il suo aguzzino, che ha trascorso tutti i suoi cinque anni di vita con lei all'interno della "stanza". Quando i due riconquisteranno la libertà, la cosa più difficile sarà proprio riadattarsi al mondo esterno. Da un romanzo di Emma Donoghue (anche sceneggiatrice), una pellicola intensa e capace di emozionare senza retorica e sensazionalismo, nonostante le trappole di un soggetto difficile (anche se il caso reale cui si ispira, quello dell'austriaca Elisabeth Fritzl, presentava connotazioni ancora più scabrose). Merito, forse, della scelta di raccontare tutto dal punto di vista del bambino (che fornisce la voce narrante ed è sempre presente in ogni scena: negli unici casi in cui si separa dalla madre, è lui che il regista sceglie di seguire). All'inizio Jack vive in un ambiente fittizio, dove l'intero mondo che conosce si riduce a una stanza, e tutto ciò che è al di fuori è irraggiungibile o semplicemente non è "vero" (compreso ciò che si vede in televisione). Per proteggerlo, la madre – oltre a educarlo mentalmente e fisicamente (fra le letture spiccano "Il conte di Montecristo" e "Alice nel paese delle meraviglie"!) – gli ha infatti insegnato una particolare "cosmologia" che nega la realtà di ciò che si trova oltre il lucernario che rappresenta l'unico punto di contatto con l'esterno. Ma quando giunge il momento di fuggire, le cose cambiano. E di fronte al mondo di fuori, il piccolo comincia a porsi domande ("Siamo su un altro pianeta?") e a scoprire nuove dinamiche e nuove regole. Essendo "plastico" (come lo definisce uno psicologo) per via della sua giovane età, saprà rapidamente adattarsi al nuovo ambiente, pur dovendo superare molte prove (dalle più banali, come imparare a salire le scale – che nella stanza non c'erano! – a quelle più ostiche, come interagire con le altre persone). Ben più difficile sarà il reinserimento della madre, soggetta a una profonda crisi psicologica, che di fatto la vede "crollare" proprio quando riacquista la libertà. Anche perché la prigionia l'ha cambiata completamente (quando è stata rapita era poco più che adolescente: la sua camera da letto sembra quella di una liceale) e nel frattempo anche il mondo è andato avanti (i genitori hanno divorziato, per esempio).
Strutturalmente, il film è diviso in due parti: la prima racconta della prigionia e della fuga (e a molti registi sarebbe bastata), la seconda del "dopo", delle conseguenze delle ferite psicologiche e delle difficoltà di cominciare una nuova vita. Se la prima parte è intensa e tiene lo spettatore attaccato alla poltrona come se fosse un thriller, la seconda è forse ancora più importante ed è quella che caratterizza maggiormente la pellicola. Al centro di tutto resta sempre il rapporto strettissimo fra madre e figlio (a differenza dei mass media, o anche del padre stesso della ragazza, Joy non vede Jack come il figlio del mostro che l'ha imprigionata: "Lui è solo mio", afferma). Per entrambi, allo scopo di superare l'inevitabile e paradossale "nostalgia" della vita precedente, si rivelerà catartica un'ultima visita alla "stanza", un'occasione per dire addio definitivamente alla loro prigione (per Jack l'addio è come quello che si dà a un gruppo di amici, avendo il bambino "personificato" ogni oggetto lì presente, oltre che la stanza stessa). Per crescere, in fondo, tutti dobbiamo dire addio prima o poi alle stanze del nostro passato. "Sembra più piccola", commenta Jack (che poco prima, sull'onda dei ricordi, l'aveva invece descritta come "infinita"), una percezione comune quando si rivisitano i luoghi dell'infanzia. In questo caso, tuttavia, per lui la stanza non era un semplice luogo ma il mondo intero, e la crescita implica come non mai l'aprirsi a un universo del tutto nuovo. Candidata a quattro premi Oscar (fra cui miglior film, regia e sceneggiatura), la pellicola è valsa a Brie Larson la statuetta come miglior attrice protagonista. Notevole comunque anche la prova del piccolo Jacob Tremblay, che per gran parte del film sfoggia capelli lunghi che lo fanno sembrare una bambina (a lunghi tratti l'ambiguità rimane). Nel cast si riconoscono Joan Allen e William H. Macy (i genitori di Joy), oltre a Sean Bridgers (Old Nick) e Tom McCamus (Leo). Curiosità: l'enfasi sul dente perso dalla madre (che Jack conserva come amuleto per darsi coraggio: il piccolo ricambierà poi il favore quando si taglierà i capelli che gli "danno forza" per donarli alla mamma ricoverata in osperale) ricorda il film greco "Dogtooth" di Yorgos Lanthimos, che affrontava un tema molto simile.
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