La morte e la fanciulla (R. Polanski, 1994)
La morte e la fanciulla (Death and the Maiden)
di Roman Polanski – USA/GB/F 1994
con Sigourney Weaver, Ben Kingsley
***1/2
Rivisto in DVD, con Sabrina e Daniela.
In un paese sudamericano non identificato (modellato sul Cile post-Pinochet), Paulina (Weaver), ex attivista politica sopravvissuta alla prigionia durante la dittatura e ora moglie di Gerardo (Stuart Wilson), un importante avvocato che si occupa di diritti umani, crede di aver identificato nel dottor Miranda (Ben Kingsley) l'uomo responsabile delle torture cui fu brutalmente sottoposta. E lo sequestra nella villa isolata di campagna dove abita col marito, con l'intenzione di estorcergli una piena confessione. Da un dramma teatrale di Ariel Dorfman (che ha contribuito all'adattamento), l'ennesimo magistrale "thriller da camera" polanskiano, che mette in scena tre soli personaggi in una casa e nell'arco di una notte. La tensione è altissima e palpabile, grazie alla maestria del regista (che sfrutta ogni mezzo a disposizione: l'illuminazione di Tonino Delli Colli, le inquadrature, il ritmo della narrazione), a dialoghi ficcanti ed espliciti, a interpreti in stato di grazia (Kingsley e soprattutto la Weaver sfornano forse le prove migliori della loro carriera) e a un soggetto sfaccettato e pieno di ambiguità, che mescola dilemmi morali e drammi personali, l'abuso di potere e il desiderio di giustizia, i sensi di colpa e la ricerca della verità, la vendetta e il perdono, ferite ancora aperte e altre che si aprono solo ora, il confine fra bene e male (non a caso si cita Nietzsche), ribaltando anche i ruoli di vittima e carnefice nell'ottica di un insolito revenge movie. Il risultato è intensissimo e, nonostante l'origine teatrale, tutt'altro che statico. A fare da filo conduttore, come indica il titolo, c'è il quartetto d'archi di Schubert "La morte e la fanciulla", che il dottore ascoltava durante gli stupri e le torture di Paulina, e che lei ha associato in maniera indelebile a quei momenti (quasi come la nona sinfonia di Beethoven in "Arancia meccanica"). E se le premesse del dramma sembrano un po' costruite ad arte (la casa isolata per via di un temporale, il fortuito incontro che porta Miranda nella villa), la storia mantiene la sua potenza e la sua ambiguità fino alla fine, lasciando lo spettatore in dubbio a lungo (e forse anche dopo la conclusione del film) sulla reale colpevolezza o meno di Miranda. Di fronte a un personaggio femminile così forte, che passa da momenti di furiosa violenza ad altri di freddo distacco, dal desiderio di amore e conforto al tragico ricordo della propria degradazione (come nelle scene in cui rievoca i dettagli delle torture subite, raccontati a voce senza che nulla venga mostrato sullo schermo, ma non per questo meno devastanti per lo spettatore), il marito avvocato risulta una figura debole e impotente, il cui desiderio di rispettare la legge a tutti i costi ha un cedimento solo nel finale. Attraverso lui, Dorfman intendeva mettere in dubbio l'efficacia e la reale capacità di fare giustizia delle varie commissioni presidenziali istituite a questo scopo in Cile dopo la dittatura.
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