The way back (Peter Weir, 2010)
The Way Back (id.)
di Peter Weir – USA 2010
con Jim Sturgess, Ed Harris, Colin Farrell
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Visto al cinema Uci Bicocca, con Marisa, Candida e altri.
Era da tempo (da “Master and commander” del 2003, per la precisione) che non usciva un nuovo film di Peter Weir, regista fra i più grandi degli ultimi quarant’anni. E per di più arriva nelle nostre sale con qualche stagione di ritardo, indice della scarsa fiducia dei distributori in una pellicola di non facile impatto (nonostante la presenza di attori di nome), il cui argomento (la fuga di un gruppo di prigionieri da un gulag siberiano e il loro lungo cammino per tornare a casa), l’incedere lento e lo stile cinematografico d’altri tempi potrebbero forse tenere lontani gli spettatori più giovani. Ispirato a un celebre resoconto (quello di Sławomir Rawicz, pubblicato negli anni cinquanta) della cui attendibilità si è recentemente cominciato a dubitare (per stare sul sicuro, Weir si è avvalso della consulenza storica della giornalista Anna Appelbaum), il film si svolge nel 1941, quando numerosi polacchi furono rinchiusi nei gulag staliniani dopo l’invasione sovietica della Polonia in risposta a quella tedesca. Fra questi c’è Janusz, condannato come “spia” in seguito a una confessione estorta alla moglie. Approfittando di una tempesta di neve, l’uomo riesce a evadere in compagnia di quattro compatrioti, ai quali si aggiungono un prigioniero americano (Ed Harris), ovvero uno dei non pochi statunitensi che avevano cercato fortuna in Russia dopo la Grande Depressione; una ragazza (Saoirse Ronan); e un urka (Colin Farrell), ovvero un criminale russo (nei gulag ladri e banditi godevano di privilegi rispetto ai prigionieri politici e venivano lasciati “spadroneggiare” dalle guardie, perché a differenza di quelli non erano considerati “nemici del popolo”). La fuga a piedi verso la libertà si trasformerà in un viaggio lunghissimo: in quasi un anno, dirigendosi sempre verso sud e combattendo contro il freddo, la fame e la sete, gli uomini percorreranno oltre 6.000 chilometri (evitando accuratamente villaggi e centri abitati per non correre il rischio di essere riconsegnati ai sovietici), dapprima attraverso le foreste e le steppe siberiane, poi lungo le coste del lago Baikal fino alla Mongolia, quindi nelle aride distese di sabbia del deserto dei Gobi, e infine attraverso le vette himalayane del Tibet fino all’India. Con un soggetto simile, è ovvio che il tema tanto caro a Weir del rapporto fra l’uomo e l’ambiente circostante (qui rappresentato da una natura estrema, che sa essere al contempo ostile o fornire acqua e cibo nel momento del bisogno) sia costantemente al centro della pellicola, forse più che in ogni altro suo film. Di fronte a esso passano in secondo piano anche le relazioni fra i personaggi, legati fra loro soltanto dall’obiettivo comune, quello della sopravvivenza: persino il loro passato conta poco (alcuni, come l’americano Smith, sono assai reticenti al proposito). Ciò nonostante, le figure emergono con vigore e personalità, grazie anche agli ottimi interpreti: meritano una particolare menzione l’intenso Ed Harris (che per Weir aveva già recitato in "The Truman Show") e il sorprendente Colin Farrell (nel ruolo della "simpatica canaglia"). Il regista australiano si prende i tempi giusti per descrivere il lungo cammino, le fatiche e le sofferenze dei fuggitivi, stimolando ai massimi livelli il coinvolgimento di uno spettatore che, se ricettivo e disposto a partecipare, si ritrova quasi a vivere insieme ai personaggi tutte le difficoltà del viaggio. All’anelito per la libertà e al desiderio di sopravvivere in ogni modo si sovrappongono i temi della colpa e del perdono, visto che sono proprio queste le motivazioni che spingono almeno due dei personaggi principali (Janusz e Smith) a proseguire nel cammino e a non cedere di fronte alla fatica e alle difficoltà: Janusz, in particolare, non potendo tornare “indietro” a casa perché la sua patria è occupata dai Sovietici, continuerà ad andare “avanti”, ossia a camminare per il mondo fino a quando, dopo il crollo del Comunismo, potrà riabbracciare la moglie (“Solo io posso perdonarla”, spiega). Eccezionali gli scenari naturali (non a caso, cosa insolita per una pellicola di fiction, fra i produttori c’è National Geographic), solida la regia che non perde mai la presa sulla materia trattata e non si concede divagazioni di gusto hollywoodiano, anche perché può contare su una sceneggiatura senza sbavature.
5 commenti:
Grande epopea, odissea al contrario, dove la motivazione più importante è il perdono e non la vendetta di Ulisse. Il controllo e la capacità di soffrire sono retti proprio dalla indomabile aspirazione alla libertà e dall'amore.
La natura, così selvaggia ed ostile, ma anche grandiosa e soccorrevole è l'esatta raffigurazione dello spazio interiore e della natura psichica, vera e propria "zona" di Stalker, che sposta il traguardo sempre più in là e purifica attraverso le prove più impervie.
Interessante anche la figura dell'attore ( uno abituato a simulare le emozioni e i sentimenti), che spinge Ianusz alla fuga, ma non è mai pronto personalmente, rifugiandosi continuamente dietro razionalizzanti pretesti per non rischiare.
A me quell'attore è sembrato una specie di Virgilio. Ha accompagnato Janusz nell'inferno del campo, gli ha spiegato come cavarsela, ma non era "degno" di continuare il cammino...
Quel personaggio, Khabarov, è interpretato da Mark Strong, attore di origini italiane che di solito riveste sempre la parte dell'antagonista. Non l'avevo citato nel mio post ma fate bene a segnalarne l'importanza, visto che è lui che "mette in moto" la fuga, anche se non vi partecipa. Una delle cose che mi sono piaciute del film è anche il modo estremamente "fluido" e naturale in cui diversi personaggi escono di scena (per esempio, quelli che muoiono durante il viaggio).
intendi dire che la morte fa parte in modo naturale e non così drammatico del cammino a casa? Non ci avevo pensato.
Sì, ma non solo: a differenza dei cosiddetti "film da totomorti" (quei film in cui ci si può divertire a pronosticare quali personaggi moriranno e quali no, in base a come sono stati caratterizzati o introdotti nella sceneggiatura), qui l'uscita di scena dei personaggi non sembra rispondere a regole "hollywoodiane", che avrebbero magari suggerito di mantenere fino alla fine Valka o Irena, per esempio.
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