
Rashomon (id.)
di Akira Kurosawa – Giappone 1950
con Toshiro Mifune, Machiko Kyo
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Rivisto in DVD con Hiromi, in originale con sottotitoli.
Il film che ha fatto conoscere Kurosawa e la cinematografia giapponese in occidente (vinse a sorpresa il Leone d'Oro a Venezia nel 1951) è una pellicola così ricca di spunti e di temi da continuare ancora oggi a influenzare il mondo del cinema e della cultura. Nietzsche ha scritto: "non esistono fatti, solo interpretazioni" (ma anche Pirandello avrebbe da dire la sua sull'argomento). E il regista nipponico, partendo dalla rielaborazione di due racconti di Ryunosuke Akutagawa, presenta una situazione nella quale tutti i personaggi mentono o "abbelliscono la realtà" per presentarla sotto un differente punto di vista. La trama si riassume in poche righe: in un'imprecisata epoca medievale, remota e quasi pre-storica, tre passanti costretti dalla pioggia torrenziale a ripararsi sotto la fatiscente porta di Rasho discutono di un fatto di sangue avvenuto in un bosco vicino: un brigante avrebbe violentato una donna e ucciso il samurai suo marito. Ma ciascuno dei protagonisti della storia, interrogato dall'autorità giudiziaria, ha riferito una diversa versione dei fatti. Tanto il brigante quanto la donna si autoaccusano del delitto, mentre il samurai ucciso (che parla per bocca di una medium) afferma di essersi suicidato. Ognuno dei tre, però, fa ricadere la colpa "morale" dell'accaduto sugli altri due. La quarta versione, quella di un boscaiolo che aveva assistito al tutto, è infine ancora diversa, pur mantenendo elementi delle prime tre. Da notare come le quattro storie non si contraddicano interamente ma soltanto su pochi punti, comunque fondamentali. Lo scopo dei tre protagonisti non è quello di essere assolti dal tribunale giudicante (i cui membri – per di più – non si vedono mai sullo schermo: che siano gli spettatori stessi del film?), quanto piuttosto salvaguardare la propria immagine e il proprio "onore", che per ciascuno di essi assume un significato differente a seconda del rispettivo ruolo sociale.

Il film, come fa notare un interessante contributo extra del dvd, un'intervista al docente di semiotica Ugo Volli, è strutturato attorno al numero "tre": tre sono infatti gli ambienti principali in cui si svolge la vicenda: la porta di Rasho (in evidente disfacimento, esattamente come il mondo esterno, dove l'umanità è sconvolta da calamità naturali come terremoti e inondazioni e da un vistoso caos sociale, come testimoniano la disperazione del prete buddista e la ripetuta affermazione del taglialegna: "non capisco!"), la stazione di polizia (un cortile spoglio e sobrio, dove si ricerca l'ordine all'interno del caos) e il bosco (labirintico e selvatico), ciascuno contenuto "narrativamente" nel precedente; tre sono i protagonisti del fatto di cronaca; tre sono gli stessi passanti che si raccontano (e raccontano a noi) la storia. Ma sul finire si aggiunge sempre un quarto elemento, che li supera, li sublima o li condensa: un quarto ambiente (terminata la pioggia, la macchina da presa può spaziare sulla pianura), un quarto racconto (quello del taglialegna, che da osservatore "esterno" può fornire un punto di vista probabilmente più attendibile rispetto a quelli dei personaggi coinvolti in prima persona), un quarto personaggio (il neonato, la cui introduzione serve a concludere il film su un tono di speranza).

Anche stilisticamente, "Rashomon" è interessantissimo. Per essere una pellicola basata su racconti e su "testimoni inattendibili", è incredibile come non sia mai presente – durante i racconti stessi – alcuna inquadratura in soggettiva (se si eccettua, appunto, il punto di vista dei giudici/spettatori durante gli interrogatori). Il regista mostra le vicende, pur contrastanti fra loro, come se si trattasse di "verità". Non solo l'occhio della camera da presa appare "neutro", ma addirittura insiste su dettagli fisici e realistici (il sudore, gli insetti, la forza e il vigore degli uomini, le lacrime e le emozioni della donna, il bacio fra lei e il bandito). Anche le immagini "false" sono dunque proposte con estrema forza, senza apparenza di finzione (si vedano per esempio i due duelli, sia quello eroico sia quello impacciato, che non sembrano fasulli nemmeno per un attimo). "È disonesto che siano così credibili", afferma Volli. Proprio come i suoi personaggi, Kurosawa maschera la realtà per abbellirla. E come pochi altri, "Rashomon" scuote lo spettatore mettendo in chiaro come il cinema non mostri una realtà oggettiva, e che anche le immagini che vediamo con i nostri occhi possono mentire. Brecht ammoniva di non farsi sedurre dalle immagini, perché sono disoneste. Sempre Volli condensa il concetto spiegando come il cinema "non sia trasparente". Certo, oggi – abituati agli effetti speciali – la cosa può non sembrare così sconvolgente come era sicuramente negli anni cinquanta. Ma tanto basta per fornire spunti a volontà agli studiosi di linguaggio e di metacinema. E anche a suggerire un paragone con la meccanica quantistica, dove l'impossibilità di conoscere la "verità" è dimostrata scientificamente: un osservatore, infatti, perturba il sistema, proprio come un personaggio che racconta un fatto al quale ha partecipato tenderà a modificare la realtà delle cose. Per conoscere la reale verità bisognerebbe essere Dio, o un osservatore/narratore onnisciente (come capita di solito nei film e nei libri, e come Kurosawa sceglie invece di non fare in questo film). Un'ultima menzione per gli attori (tutti bravissimi), la fotografia (implacabile nel mostrare i cambiamenti atmosferici, il sole, la pioggia) e la musica di Fumio Hayasaka, che a tratti ricorda il Bolero di Ravel.