30 giugno 2014

Decalogo (Krzysztof Kieślowski, 1989)

Decalogo (Dekalog)
di Krzysztof Kieślowski – Polonia 1989
serie tv in dieci episodi
***1/2

Visto in DVD.

Girata per la televisione polacca, una serie di brevi film (poco meno di un'ora ciascuno) ispirati ai dieci comandamenti della religione cattolica. "Caso" cinematografico che fece scoprire il talento di Kieślowski anche al di fuori della Polonia (ai tempi ancora dietro la cortina di ferro, ma anche il paese più "credente" dell'Europa dell'Est, quello che aveva dato i natali all'allora papa Giovanni Paolo II), non ha tuttavia un'impostazione confessionale: lo sguardo di Kieślowski è filosofico più che religioso, indaga nell'animo umano per portarne allo scoperto i dubbi, i dilemmi e le ambiguità, e stimola profonde riflessioni sulla morale e l'etica, sulla legge, sul caos e l'ordine e soprattutto sulle contraddizioni della natura umana. Spesso i dieci comandamenti sono semplici spunti per raccontare una vicenda che può avere differenti intepretazioni o diversi punti di vista: a volte affrontando i temi in maniera diretta (come nel caso di "Non uccidere"), a volte in modo più vago o non lineare, o con un certo senso del paradosso. Sceneggiati da Kieślowski insieme al fido Krzysztof Piesiewicz, i vari episodi possono essere considerati come minifilm indipendenti l'uno dall'altro (e dunque visionabili, volendo, in qualsiasi ordine): ciascuno ha i propri interpreti e un proprio direttore della fotografia (l'unico che si ripete è Piotr Sobociński, che ha curato i capitoli 3 e 9). Tutti però condividono la medesima ambientazione e prendono l'avvio in un complesso residenziale di Varsavia, un tipico "casermone" dell'epoca sovietica, gigantesco, grigio e formato da tanti appartamenti tutti uguali: è qui che vivono praticamente tutti i personaggi dei vari episodi, molti dei quali si conoscono, si incontrano fra loro o semplicemente hanno sentito in giro le storie l'uno dell'altro. I rimandi interni, pur sottili (in alcuni casi si tratta di semplici strizzatine d'occhio per gli spettatori che hanno seguito l'intera serie), d'altronde non mancano: e non parliamo solo di personaggi minori che ricorrono in più di un capitolo; a volte un particolare episodio getta nuova luce su un altro (nell'ottavo, "Non dire falsa testimonianza", si discute per esempio della storia del secondo, "Non nominare il nome di Dio invano", e i personaggi ne danno una loro interpretazione). Detto ciò, non è necessario – come hanno fatto invece molti critici – sforzarsi di trovare temi ricorrenti nei vari episodi, visto che ogni film può essere visto, valutato e apprezzato come un'opera a sé stante: l'unico filo conduttore è quello suggerito dal titolo stesso, ossia i dieci comandamenti, e dal tema presente in tutti i lavori del regista polacco: il rapporto fra l'uomo e il destino. In effetti, non è nemmeno necessario presumere l'esistenza di un Dio per dare significato alle diverse storie. Kieślowski non vuole catechizzare né impartire lezioni morali (anche perché non sempre è immediatamente chiaro a quale dei personaggi dell'episodio – spesso i protagonisti sono due – è diretto il comandamento di turno, o se si tratta di una punizione, di un avvertimento o di un insegnamento): il suo approccio è quello di un osservatore, proprio come la figura interpretata da Artur Barciś che compare – in situazioni sempre diverse – in ciascuno degli episodi (il barbone nel primo, l'infermiere nel secondo, l'autista di tram nel terzo, ecc.) e che fa da testimone muto alle vicende. Le musiche sono di Zbigniew Preisner, che nel nono film ("Non desiderare la donna d'altri") dà vita all'immaginario compositore settecentesco Van den Budenmayer che ritornerà a più riprese nelle successive opere di Kieślowski (in particolare ne "La doppia vita di Veronica", in "Film blu" e in "Film rosso"). Il regista polacco realizzerà anche delle "versioni estese" di due episodi (il quinto e il sesto) che saranno distribuiti come film a sé stanti nelle sale cinematografiche ("Breve film sull'uccidere", tratto da "Non uccidere", e "Non desiderare la donna d'altri", che – nonostante il titolo italiano che certifica una volta di più l'incompetenza o la malafede dei nostri distributori – si rifà all'episodio "Non commettere atti impuri").

1, "Non avrai altro Dio all'infuori di me"
Un professore universitario rigetta l'idea di divinità ma a suo modo ha anche lui una fede: quella nella logica matematica, impersonata dal personal computer cui si affida per ogni decisione, convinto che tutta la vita possa essere descritta in termini meccanicistici. Quando si azzarderà a calcolare lo spessore del ghiaccio prima di lasciar andare il figlioletto a pattinare sul lago, il destino lo punirà. Davanti al suo straziante dolore per la morte del bambino, anche una Madonna piangerà lacrime di cera. Oltre a presentare il setting di tutta la serie, è anche uno degli episodi più espliciti e diretti nel mettere in scena il proprio comandamento.

2, "Non nominare il nome di Dio invano"
Una donna incinta si rivolge al primario della clinica dove il marito è ricoverato per sapere se l'uomo, colpito da una grave malattia, sopravviverà. Dal responso dipenderà la sua scelta se portare a termine o meno la gravidanza, frutto di una relazione clandestina con un amante. Ma il medico, solitario e scostante, non è in grado di darle una risposta, o forse le mente per non prendersi la responsabilità di decidere del suo destino. Ambiguo ed enigmatico: Dio è il medico cui la donna si rivolge? O l'intervento divino è decisivo per la guarigione del marito quando tutto faceva sembrare che la sua malattia fosse progressiva? Più tardi, nell'ottavo capitolo, si azzarderà una possibile interpretazione: il medico, che è credente, non può rispondere perché equivarrebbe ad emettere una sentenza, ovvero a sostituirsi a Dio.

3, "Ricordati di santificare le feste"
La sera della vigilia di Natale, una donna chiede all'ex amante (che non vedeva da tre anni) di aiutarla a rintracciare il marito, misteriosamente scomparso. Dopo aver girato insieme tutta la notte per le strade di una Varsavia fredda e ostile, tra ospedali e stazioni, la donna gli rivela che si è trattato di una disperata menzogna per non trascorrere la notte da sola: se lui non fosse rimasto con lei fino al mattino, si sarebbe uccisa. Alla cupezza dell'ambientazione fa da contrasto una certa ironia nel modo di interpretare il terzo comandamento (l'uomo non trascorre la festività con la propria famiglia ma con l'amante: eppure, così facendo, salva la vita a quest'ultima).

4, "Onora il padre e la madre"
Una ragazza trova una lettera che la madre le aveva scritto poco prima di morire, subito dopo la sua nascita, in cui le rivela che l’uomo che l’ha cresciuta potrebbe non essere il suo vero padre. La rivelazione giunge quasi come un sollievo, visto che è sempre stata attratta da lui (sentimento peraltro reciproco): ma sarà vera? Uno degli episodi più ambigui e scabrosi, ma anche fra i più lucidi e compatti per sceneggiatura e messa in scena, considerato da alcuni critici come il migliore dei dieci film. Verità e menzogne, desideri e paure si alternano fino alla fine, aiutati dal fatto che la protagonista sia una studentessa di arte drammatica, e dunque abituata a “recitare”.

5, "Non uccidere"
Un ragazzo inquieto, forse in cerca di autodistruzione, vaga per la città in attesa dell'occasione giusta per compiere un atto violento: alla fine decide di uccidere brutalmente e a sangue freddo, senza apparente motivo, un tassista. Al processo verrà inutilmente difeso da un giovane avvocato che ha appena superato l'esame da procuratore e che si prodiga in una sentita arringa contro la pena di morte, da lui ritenuta ingiusta e inutile come deterrente. I due si rincontreranno in prigione, al momento dell'esecuzione, alla quale l'avvocato dovrà assistere poche ore dopo aver avuto un figlio. Un episodio dai toni cupi e scuri, come testimonia la fotografia ricca di filtri e di viraggi in color seppia, quasi si trattasse di una vecchia fotografia (come quella della sorellina morta, che il giovane assassino porta a restaurare).

6, "Non commettere atti impuri"
Tomek, giovane impiegato alle poste che vive da solo con la madre, spia di nascosto una conturbante e disinibita vicina di casa, il cui appartamento è situato proprio di fronte alla sua finestra. Non solo: le fa telefonate mute, si fa assumere per consegnare il latte nel suo palazzo e, pur di vederla più spesso, le spedisce falsi avvisi di vaglia postali per spingerla a recarsi allo sportello. Quando viene a conoscenza di tutto, la donna si prenderà gioco di lui, umiliandolo. Ma di fronte al tentato suicidio del ragazzo, e rendendosi conto della sua sensibilità, cambierà atteggiamento. Forse l'episodio che parla maggiormente di sentimenti: e per nulla scabroso, nonostante il tema trattato.

7, "Non rubare"
"Si può rubare quello che è già nostro?". A porsi la domanda è Maika, che rapisce quella che tutti credono essere la sua sorellina minore, Anka, con l'intenzione di fuggire all'estero portandola con sé. In realtà la bambina è sua figlia, nata quando lei aveva solo 16 anni, di cui la nonna si è "impossessata" come se fosse sua, inizialmente per mettere a tacere lo scandalo (Maika era solo una studentessa, e il padre della bimba era il suo insegnante) ma anche perché la donna, dopo la nascita della primogenita, non poteva avere altri figli. Anche per questo Maika odia la madre, capace di mostrare verso Anka tutto quell'affetto e quella tenerezza che per lei non ha mai avuto. Un episodio melodrammatico e particolarmente ambiguo, come sempre originale nell'interpretare il comandamento che gli dà il nome.

8, "Non dire falsa testimonianza"
Zofia, anziana insegnante di filosofia ed etica all'università, si ritrova faccia a faccia con Elzbieta, che nel 1943 – quando era solo una bambina di sei anni – aveva rifiutato di proteggere dai nazisti. Elzbieta avrebbe dovuto infatti essere accolta da una famiglia purché fosse battezzata; ma Zofia e suo marito, che avrebbero dovuto fare da padrini al finto battesimo, avevano rifiutato all'ultimo momento l'aiuto promesso per non mentire di fronte al Dio in cui credevano, "quel Dio che chiede di essere misericordiosi ma che non permette di dare falsa testimonianza". Ma fu davvero quella l'unica ragione? Non è consentito mentire per una giusta causa? A distanza di quarant'anni il mistero viene svelato, ed Elzbieta scopre che quello che Zofia e il marito invece fecero fu proprio mentire per una giusta causa...

9, "Non desiderare la donna d'altri"
Roman, chirurgo cardiologo, si scopre all'improvviso impotente e suggerisce alla bella moglie Hanka, con cui è sposato da dieci anni (senza figli), di trovarsi un amante. Non sa però che la donna ne ha già uno, un giovane studente di fisica: e quando lo scopre, in preda alla gelosia o alla disperazione, tenta il suicidio... Questa volta il comandamento non sembra rivolto a uno dei due protagonisti ma al comprimario, lo studente che introducendosi nella vita della coppia rischia di provocare il disastro. Episodio particolarmente sofferto, attento ai piccoli dettagli e alle sfumature. Da ricordare la giovane cantante che Roman deve operare al cuore per consentirle di proseguire la sua carriera, ma che preferirebbe farne a meno (le basta vivere, non cantare: simbolo di chi si accontenta, in contrapposizione a chi vuole quello che non ha).

10, "Non desiderare la roba d'altri"
Due fratelli ereditano la collezione di francobolli del padre, che avevano sempre disprezzato ("Com'è possibile che un uomo possa avere tanta voglia di possedere qualcosa?"). Ma quando ne scoprono il valore, lentamente cominciano a diventare come lui, al punto che il maggiore venderà addirittura un rene pur di mettere le mani su un pezzo particolarmente raro. E quando un ladro ruberà l'intera collezione, sospetteranno l'uno dell'altro. Apologo sull'avidità e sul collezionismo, con due personaggi diversi fra loro (il fratello maggiore è un lavoratore inquadrato, il minore è un cantante rock anticonformista) che si scoprono uguali a quel padre che li aveva abbandonati e viveva segregato nel proprio appartamento per timore dei furti. Nulla diventa per loro più importante dei francobolli ("Ho la sensazione che i miei problemi non esistano più", confessa uno dei fratelli), e solo la loro perdita, dopo il primo senso di smarrimento, farà comprendere ai protagonisti la loro stupidità.

29 giugno 2014

Il testamento del mostro (Jean Renoir, 1959)

Il testamento del mostro (Le testament du Docteur Cordelier)
di Jean Renoir – Francia 1959
con Jean-Louis Barrault, Teddy Bilis
**1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Introdotto "hitchcockianamente" dallo stesso Renoir, ospite di uno studio televisivo, come se si trattasse di un episodio di una trasmissione da lui presentata (in effetti la pellicola fu realizzata proprio per la tv francese), il film è un adattamento de "Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mister Hyde", molto più fedele al romanzo di Robert Louis Stevenson – nonostante i nomi cambiati e l'ambientazione in una Parigi contemporanea – di quanto non fossero le versioni hollywoodiane, che tradizionalmente si appoggiano semmai alla versione teatrale di Thomas Russell Sullivan. Qui, invece, oltre a non intromettere elementi spuri (come la fidanzata di Jekyll/Cordelier), viene mantenuta la scansione cronologica dell'originale, con la storia che comincia "in media res" (e solo nel finale viene rivelata l'origine di Hyde/Opale), nonché il punto di vista privilegiato del notaio Utterson/Joly, vero protagonista della pellicola nonché testimone di tutti gli eventi. È da questi che il dottor Cordelier si reca, quando è già solito trasformarsi da tempo in Monsieur Opale per mezzo della pozione da lui inventata, allo scopo di modificare il proprio testamento e di nominare il suo malvagio alter ego come beneficiario (da cui il titolo del film) nel caso sparisse dalla circolazione per sempre. Le indagini di Joly, incuriosito dal testamento e preoccupato per l'amico (ancor più dopo aver assistito con i propri occhi a diversi atti di violenza perpetrati da Opale), lo porteranno nel finale a scoprire tutta la verità. Nelle doppie vesti di Cordelier e Opale c'è Jean-Louis Barrault, il mimo di "Les enfants du paradis", più a suo agio nei panni dinoccolati del mostro, mobile, danzante e saltellante (quando appare in scena è sempre accompagnato da un riconoscibile tema musicale, opera di Joseph Kosma), che non in quelli ingessati dello scienziato. Apprezzabile sul versante tecnico (regia e fotografia sono decisamente cinematografiche e non televisive), il film è invece carente – soprattutto se paragonato a versioni precedenti della stessa storia, come il capolavoro di Mamoulian del 1931 – nella rappresentazione del dilemma morale, della questione etica, della tensione sessuale: tutto assente e sostituito da sterili diatribe psichiatriche fra Cordelier e il collega-rivale Séverin (il sempliciotto Joly, dal canto suo, non si immischia in tali argomenti).

26 giugno 2014

Edge of tomorrow (Doug Liman, 2014)

Edge of tomorrow - Senza domani (Edge of tomorrow)
di Doug Liman – USA/Australia 2014
con Tom Cruise, Emily Blunt
***

Visto al cinema Uci Bicocca.

Una razza di alieni, i Mimic, ha invaso la Terra e conquistato quasi tutta l'Europa, ma in cinque anni gli esseri umani si sono organizzati e sono ormai pronti a sferrare la controffensiva vincente. Il maggiore Cage, ex agente pubblicitario che cura le relazioni pubbliche dell'unione delle forze di difesa, si ritrova suo malgrado in mezzo alle truppe d'assalto che devono sbarcare in Normandia (!): ma la missione si rivela un massacro, visto che gli extraterrestri ne erano al corrente. Ucciso da un nemico, Cage si risveglia ventiquattr'ore prima e scopre di aver acquisito la capacità di rivivere sempre lo stesso giorno... E a furia di provarci e riprovarci, da imboscato qual era diventerà un vero soldato, aiutando l'eroina Rita a sconfiggere gli alieni. Fra "Ricomincio da capo" (il nome del personaggio femminile è addirittura lo stesso) e "Source code", una bizzarra versione action-militare-fantascientifica del "giorno della marmotta": il meccanismo del time loop, con la battaglia che si ripete dall'inizio ogni qualvolta il protagonista viene ucciso, lungi dall'essere noioso o ripetitivo, è perfettamente funzionale e integrato nella storia, consentendo anche un'evoluzione credibile del personaggio; e naturalmente non può non far venire in mente la dinamica di un videogioco, dove a ogni "game over" e a ogni successivo reset il giocatore mantiene la memoria e tutta l'esperienza dei tentativi precedenti; ma ricorda anche "Another one bites the dust", uno dei poteri del villain Yoshikage Kira nella quarta serie del manga "Le bizzarre avventure di JoJo". Il tutto è condito da una regia solida, da scene di battaglia sporche e confuse ma assai efficaci, e persino da un Tom Cruise che più invecchia più sembra migliorare (ormai è in grado di sfoggiare più di una sola espressione!). Buona anche l'alchimia con la soldatessa tamarra Emily Blunt (che dopo "Looper" torna a farsi coinvolgere da insoliti viaggi nel tempo). Fosse uscito una ventina d'anni fa, sarebbe già un classico della fantascienza bellica. Peccato solo per il finale, che confonde e non convince su più fronti. Il soggetto è tratto da una light novel giapponese, "All you need is kill" di Hiroshi Sazurazaka, il cui titolo originale è stato modificato perché a Hollywood non piace più mettere la parola "uccidere" nel nome di un film per il grande pubblico.

24 giugno 2014

L'imbalsamatore (Matteo Garrone, 2002)

L'imbalsamatore
di Matteo Garrone – Italia 2002
con Ernesto Mahieux, Valerio Foglia Manzillo
***

Rivisto in DVD, con Eleonora, Marco, Paola, Costanza, Giovanni e Rachele.

Il tassidermista Peppino Profeta, nano e gay represso, assume come apprendista il prestante Valerio, verso il quale manifesta un'attrazione ossessiva. Lo prende sotto la propria ala protettiva, lo riempie di attenzioni e lo ospita persino in casa sua. Ma quando Valerio decide di fidanzarsi con Deborah, una ragazza conosciuta durante una trasferta a Cremona (dove Peppino si era recato per compiere un "lavoretto" per conto della Camorra), le cose si complicheranno. Ispirato a una vicenda di cronaca nera (avvenuta a Roma nel 1990), un thriller psicologico avvincente e inquietante, che si appoggia su un personaggio (quello di Peppino) sfaccettato e ottimamente caratterizzato, "al di là del bene e del male" con i suoi complessi, le sue pulsioni, i suoi tormenti. Basti pensare alle serate con le donnine che organizza pur di stare in compagnia di Valerio, verso il quale, nonostante la propria apparente schiettezza, non ha mai il coraggio di dichiarare i propri sentimenti. Lo stesso lavoro che svolge, quello appunto dell'imbalsamatore, può essere letto come una metafora: la conservazione (sotto formalina?) dei sentimenti e delle emozioni, in un sottile confine a metà fra la vita e la morte. L'atmosfera generale della pellicola (cui giova la fotografia di Marco Onorato) e la parlata napoletana, con il suo tono "normalizzante", donano un ulteriore strato di ambiguità e di inquietudine alla tensione che si respira senza un attimo di tregua. È anche il film con cui Garrone, dopo i primi lavori – peraltro non certo trascurabili: vedi "Estate romana" – raggiunse il successo di critica (vinse, fra le altre cose, il David di Donatello per la miglior sceneggiatura e quello per il miglior attore). Regia, ritmo e montaggio, d'altronde, mostrano dalle prime sequenze che si tratta di un prodotto di qualità superiore alla media del cinema italiano: e negli anni seguenti Garrone dimostrerà di essere, insieme con Paolo Sorrentino, il più promettente dei nuovi talenti nostrani. Girato a Castel Volturno (nella frazione abusiva del Villaggio Coppola) e a Cremona. Oltre all'eccezionale Ernesto Mahieux nei panni di Peppino, il trio di protagonisti è completato dall'esordiente ex-modello Valerio Foglia Manzillo e da Elisabetta Rocchetti. Musiche della Banda Osiris.

23 giugno 2014

Cannes e dintorni 2014 - conclusioni

Rassegna di livello medio-alto, forse senza grandi sorprese o rivelazioni ma anche senza cocenti delusioni. Su tutti hanno brillato due film, quello di Nuri Bilge Ceylan ("Winter sleep", vincitore della Palma d'Oro) e quello di Xavier Dolan ("Mommy", premio della giuria). Bene anche i lavori di Zhang Yimou ("Coming home") e Olivier Assayas ("Clouds of Sils Maria"). L'unico film sotto la sufficienza mi è parso "Catch me daddy" dell'esordiente Daniel Wolfe, malriuscita fusione di thriller on the road e denuncia sociale. A livello di contenuti, poche novità: come l'anno scorso, la famiglia continua a essere l'argomento più frequentato, insieme alla malattia. E comunque quasi tutti gli autori sembrano essere andati sul sicuro, affrontando temi già abbondantemente trattati in passato (i Dardenne, Ken Loach, John Boorman, gli stessi Ceylan e Dolan). Visto il gran caldo dei primi giorni della rassegna, per fortuna alcune pellicole ci hanno tenuti al "fresco" con le immagini di neve ("Winter sleep", "Coming home") o di montagne ("Sils Maria"). Di contro, c'erano anche l'afa estiva di "Tu dors Nicole", le terme di "Thermae Romae II" e il deserto di "Timbuktu".

21 giugno 2014

Leviathan (Andrey Zvyagintsev, 2014)

Leviathan (id.)
di Andrey Zvyagintsev – Russia 2014
con Aleksey Serebryakov, Elena Lyadova
**1/2

Visto al cinema Arlecchino, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Per tener testa al corrotto sindaco locale che intende espropriargli il terreno dove ha sempre vissuto, Kolya, un agricoltore che abita in un villaggio di pescatori sulla costa del Mare di Barents, fa venire da Mosca un giovane avvocato che aveva conosciuto durante il servizio militare. Questi afferma di conoscere fatti assai compromettenti che il politico preferirebbe tener segreti, e dunque di poterlo ricattare, ma l'impresa non si rivelerà così facile. E nel frattempo l'avvocato inizia una relazione clandestina con Lilya, la giovane seconda moglie di Kolya, infelice e alla disperata ricerca di una via di fuga. Attraverso una vicenda contorta, che cambia focus più volte e lascia a lungo in dubbio lo spettatore su quale sia davvero il protagonista, Zvyagintsev lancia uno sguardo livido e impietoso al malessere e alle contraddizioni della società russa vista dal suo interno (seppur da una zona periferica), attraverso "una tragedia di bibliche proporzioni" e personaggi imprigionati, con la loro disperazione e solitudine, in un mondo troppo grande per poterlo tenere sotto controllo. La metafora, evidente sin dal titolo, è quella della storia di Giobbe, citata peraltro esplicitamente. In questo caso il leviatano, il mostro contro cui l'uomo lotta inutilmente, può essere il destino, l'ingiustizia, la burocrazia o la politica (impagabile la scena in cui i personaggi si dedicano al tiro al bersaglio contro i ritratti dei precedenti gerarchi che hanno governato il paese; quelli più recenti – come Putin – dovranno però aspettare perché è ancora presto per parlarne con la necessaria "prospettiva storica"), rappresentato visivamente dalle balene che si tuffano nelle gelide acque circostanti (e lo scheletro di una delle quali fa bella mostra di sé adagiato sulla spiaggia), dal mostro di metallo che fa a pezzi la casa di Kolya, o semplicemente dal grasso e corrotto sindaco della cittadina. Le atmosfere cupe e disperate, allievate a tratti da brevissimi lampi di ironia (quanto bevono i russi!), sono servite attraverso una fotografia gelida e concretissima (e che fa un buon uso delle panoramiche), lunghe sequenze senza stacchi di montaggio, e una colonna sonora con robuste dosi di Philip Glass. Soltanto al termine della pellicola si comincia a cogliere la visione d'insieme e il film manifesta tutta la sua epicità, al di là dei singoli personaggi e della metaforica vicenda. Si ha l'impressione che la trama fosse solo un pretesto, una storia come un'altra per raccontare direttamente la condizione umana. Più importante delle vicende, dunque, sono le relazioni fra i personaggi e quelle con l'ambiente in cui vivono, il modo di reagire alle avversità e di rapportarsi con i propri errori e la propria infelicità. Una pellicola estremamente esistenziale, dunque, forse anche troppo ambiziosa, che in più cerca di riportare al centro del dibattito sociale e politico un po' di quella spiritualità che un tempo permeava la Russia e che nei decenni precedenti era stata lentamente messa da parte.

Next to her (Asaf Korman, 2014)

Next to her (At li Layla)
di Asaf Korman – Israele 2014
con Liron Ben-Shlush, Dana Ivgy, Jacob Daniel
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

La ventisettenne Chelli vive insieme alla sorella minore Gabby, che soffre di ritardo mentale sin dalla nascita e della quale si prende cura con amore e pazienza. Nonostante le molte difficoltà quotidiane, Chelli non intende far ricoverare Gabby, anche se talvolta è costretta – pur di potersi recare al lavoro – a lasciarla per brevi periodi in un centro diurno di sostegno. Quando la ragazza si innamora di un collega, Zohar, e l'uomo si trasferisce nella loro casa, il legame simbiotico fra le due sorelle viene messo a dura prova. Un soggetto non certo nuovo (basti pensare – ma quella era una storia vera – al documentario "Elle s'appelle Sabine" di Sandrine Bonnaire) e a forte rischio di stereotipi: ma Korman è bravo a tenersi lontano dalla retorica e a mettere al centro della pellicola i contrasti che nascono nell'animo della protagonista, da un lato desiderosa d'affetto e con un forte bisogno di riprendersi la propria vita, ma dall'altro poco propensa a "condividere" il suo fardello con il resto del mondo (si veda la durezza con cui tratta gli operatori del centro di sostegno, o l'esitazione che prova nell'accogliere Zohar nella propria routine). Il tono è naturalista, a tratti claustrofobico, comunque sempre rigoroso e controllato. Eccellente la prova dei tre interpreti, che contribuiscono alla buona riuscita di un film in fondo semplice ma capace di raggiungere vette di notevole intensità, specialmente nel finale. La protagonista Liron Ben-Shlush, anche sceneggiatrice (il plot è ispirato a esperienze di vita reale), è la moglie del regista.

20 giugno 2014

Mommy (Xavier Dolan, 2014)

Mommy (id.)
di Xavier Dolan – Canada 2014
con Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon
***

Visto al cinema Apollo, con Sabrina, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

In un Canada distopico dove per legge i genitori possono abbandonare i figli problematici o con malattie psichiche, la quarantenne madre single Diane (detta "Die") sceglie invece di tenere con sé Steve, ragazzo borderline e incontrollabile che soffre della sindrome da deficit di attenzione e iperattività. La vita insieme non è facile, e i due si ritrovano spesso a combattere da soli contro il mondo, anche per la mancanza di un impiego fisso e di una figura maschile di riferimento (ci pensa Steve a tenere lontano i possibili uomini che si avvicinano a Diane); soltanto la vicina di casa Kyla, un'insegnante che ha dovuto prendersi un periodo sabbatico perché un disturbo del linguaggio le impedisce di lavorare, riuscirà in qualche modo a far breccia nelle loro barriere e a donargli un pizzico di speranza. Alla sua quinta regia (la prima senza tematiche gay, e solo la seconda in cui rinuncia a recitare nel ruolo del protagonista), il giovanissimo Dolan dimostra ancora una volta di essere un cineasta maturo, di grande talento, conscio dei propri mezzi, e soprattutto coraggioso: non si spiegherebbe altrimenti la scelta di girare quasi l'intero film in un formato di schermo così insolito, praticamente un quadrato 1:1, non un vezzo fine a sé stesso ma un modo assai efficace per indicare come le difficoltà della vita possano "restringere" le prospettive e lo sguardo che si getta sul resto del mondo. Solo in due brevi momenti di speranza e di felicità condivisa (uno dei quali frutto dell'immaginazione) l'inquadratura si allarga e lo schermo si apre a un'ampia panoramica che permette anche allo spettatore di "respirare" finalmente insieme ai personaggi. La potenza e il dinamismo della regia di Dolan non sono dunque solo formali, ma al servizio di una storia che commuove e di personaggi quanto mai vivi. Se il complesso di Edipo è sempre stato al centro del cinema del giovane cadadese (sin dal suo primo film, "J'ai tué ma mère"), in questo "Mommy" – che già dal titolo gira attorno al rapporto con la figura materna – la vera protagonista è la madre più che il figlio (con cui ha un rapporto diretto e senza filtri), il che rende la pellicola una sorta di personale "Mamma Roma". A Cannes ha vinto il premio della giuria (per molti era addirittura da Palma d'Oro), ex aequo – lui che era il regista più giovane del concorso – con Jean-Luc Godard, il più anziano. Ottimi i tre interpreti (La Dorval faceva già la madre nel primo film, Kyla è Suzanne Clément). Nella colonna sonora spiccano canzoni come "White flag" di Dido, "Wonderwall" degli Oasis e, cantata in italiano da Steve al karaoke, "Vivo per lei" di Andrea Bocelli.

19 giugno 2014

Due giorni, una notte (J. e L. Dardenne, 2014)

Due giorni, una notte (Deux jours, une nuit)
di Jean-Pierre e Luc Dardenne – Belgio/F/I 2014
con Marion Cotillard, Fabrizio Rongione
**1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Ritornata al lavoro dopo una lunga assenza per depressione, a Sandra – impiegata in una piccola azienda che produce pannelli solari – viene prospettato il licenziamento: sarà reintegrata soltanto se gli altri sedici operai rinunceranno al bonus di mille euro promesso loro a fine anno. La votazione, a scrutinio segreto, avverrà lunedì mattina: la ragazza ha dunque a disposizione tutto il weekend per recarsi da ciascuno dei colleghi e convincerli a rinunciare al prezioso bonus pur di salvare il suo posto di lavoro. Costruito su uno spunto piuttosto semplice, una nuova parabola anti-capitalista (con morale finale) da parte dei fratelli Dardenne sul tema della solidarietà fra lavoratori. Di fronte al "ricatto" dei loro capi, i vari dipendenti devono scegliere come comportarsi, cercando di mettersi l'uno nei panni dell'altro: per alcuni rinunciare al bonus, su cui tanto hanno contato, sarà impossibile; per altri è molto più importante aiutare un'amica e collega. Forse un po' schematico, e di certo trascinato ripetitivamente un po' troppo a lungo (per gran parte del film vediamo Sandra presentarsi dai colleghi uno a uno, mentre insieme a noi spettatori tiene il conteggio dei voti a lei favorevoli e contrari), ma in ogni caso d'impatto (c'è chi ha parlato di una variazione su "La parola ai giurati"): e la regia naturalistica dei Dardenne aiuta a mantenere la tensione fino alla fine e a rendere questo piccolo episodio quanto mai vivo ed umano.

Party girl (Amachoukeli, Burger, Theis, 2014)

Party girl (id.)
di Marie Amachoukeli, Claire Burger, Samuel Theis – Francia 2014
con Angélique Litzenburger, Joseph Bour
**1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Angélique ha lavorato per tutta la vita come entreneuse in un night club situato sul confine fra Francia e Germania. Quando un cliente di vecchia data le propone di sposarlo, è l'occasione per cambiare vita, mettere finalmente la testa a posto e magari riallacciare i rapporti con i quattro figli (la più giovane dei quali è stata data in affido a un'altra famiglia). Ma i dubbi, le paure, il desiderio di proseguire con la sua vita "notturna" e soprattutto la consapevolezza di non essere innamorata del futuro marito torneranno a tormentarla. Spietato e profondo ritratto di una donna inquieta, troppo vecchia per continuare con la vita che ha sempre condotto (nel cabaret è ormai circondata solo da ragazze più giovani), e combattuta fra il desiderio di avere una casa e una famiglia normali (fare la nonna, essere amata e circondata da figli e nipoti) e l'impossibilità di stare vicino a qualcuno che non ama. I rimpianti, i sogni, il bilancio di una vita: temi impegnativi, e forse non troppo originali, che però vengono portati sullo schermo con grande naturalezza e indubbia sincerità. Ottimi interpreti non professionisti (il film ha vinto a Cannes il premio per il miglior cast) e una fotografia avvolgente per una pellicola "di frontiera" (l'ambientazione lungo il confine non è casuale: persino i dialoghi originali sono metà in francese e metà in tedesco), scritta e diretta insolitamente a sei mani e girata in famiglia.

18 giugno 2014

Sils Maria (Olivier Assayas, 2014)

Sils Maria (Clouds of Sils Maria)
di Olivier Assayas – Svizzera/Francia/Germania 2014
con Juliette Binoche, Kristen Stewart
**1/2

Visto al cinema Orfeo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Dopo l'improvvisa morte dello scrittore e regista che l'aveva lanciata quando aveva solo 18 anni, l'attrice francese Maria Enders (Juliette Binoche) accetta di recitare in una nuova edizione della piéce teatrale con cui aveva esordito al cinema, una scabrosa storia d'amore: soltanto che ora dovrà interpretare il personaggio più anziano, quello della donna matura che si lascia sedurre e abbandonare da una ragazzina giovane e manipolatrice, il cui ruolo viene invece affidato a una stellina hollywoodiana del momento. Per preparare al meglio la parte, l'attrice si trasferisce nella casa dello scrittore defunto, fra le montagne svizzere (per l'appunto a Sils Maria, nell'Engadina), in compagnia della sua assistente personale Val (Kristen Stewart). Ma fare i conti con sé stessa e con il proprio passato sarà difficile e doloroso. Profonda riflessione sul tempo che passa, sull'importanza di accettare i cambiamenti e su come rispecchiarsi (o meno) nel mondo che ci circonda. A fare da contraltare alla protagonista, più che l'attricetta trasgressiva e iper-paparazzata con cui dovrà lavorare (Jo-Ann, interpretata da Chloë Grace Moretz), c'è la sua giovane assistente: è dal continuo confronto con lei e con la sua visione della vita che Maria imparerà ad affrontare il presente, la propria fragilità e le proprie paure. Ambizioso, colmo di citazioni metacinematografiche e di riferimenti al mondo reale (il "curriculum" di Maria è quasi identico a quello della Binoche, per dirne una), il film affianca alla buona caratterizzazione psicologica dei personaggi alcune interessanti riflessioni sul rapporto fra l'arte e la vita (vedi le differenti interpretazioni a proposito della piéce teatrale, o i pareri sul cinema commerciale con la pellicola di fantascienza pop che Maria e Val vanno a vedere a Sankt Moritz). Peccato però per un certo eccesso di freddezza e precisione, che a tratti dona alla pellicola il tono di un distante gioco intellettuale e gli impedisce di decollare pienamente (anche se non mancano alcuni momenti lasciati all'immaginazione dello spettatore, vedi la misteriosa scomparsa di Val: che la sua presenza a Sils fosse solo frutto della fantasia di Maria, un modo per restare ancorata alla propria giovinezza?). A proposito, data per scontata la bravura della Binoche, sorprende invece la Stewart, autrice di una prova intensa e convincente. Affascinante l'ambientazione: il titolo della piéce che Marie deve recitare, "Il serpente del Maloja", si riferisce al fenomeno atmosferico delle nuvole che si formano lungo il passo del Maloja, la serpentina che dall'Italia conduce alla bellissima valle dell'Alta Engadina. La pellicola è stata girata in parte anche in Alto Adige (in Val Gardena).

Voce umana (Edoardo Ponti, 2014)

Voce umana
di Edoardo Ponti – Italia 2014
con Sophia Loren
**

Visto al cinema Orfeo (rassegna di Cannes).

Il figlio Edoardo dirige la madre Sophia Loren in questo breve adattamento (25 minuti) di un testo di Jean Cocteau (già interpretato da Anna Magnani ne "L'amore" di Rossellini), sceneggiato insieme a Erri De Luca che ha fatto ampio ricorso al dialetto napoletano. In scena c'è sempre e quasi solo la Loren, nei panni di una donna appena abbandonata dal suo uomo. Siamo a Napoli nel 1950, in una casa signorile, e la donna è al telefono impegnata in una lunga conversazione con lui, con la disperata illusione di farlo tornare a casa. La domestica, come ogni martedì sera, ha preparato la parmigiana (yum!), ma il "Signore" naturalmente non si presenterà. Ricordi del passato (brevi flashback ci mostrano l'incontro fra i due o alcuni momenti felici: lui, di cui non si udrà mai la voce né si vedrà chiaramente il volto, è interpretato da Enrico Lo Verso), dolore, risentimento, speranza, in un lungo monologo telefonico. Confezione patinata, impreziosita dalla fotografia di Rodrigo Prieto e dagli scorci di una Napoli d'antan. Ma francamente, se non fosse per la presenza della quasi ottantenne Loren, i motivi di interesse sarebbero ben pochi.

17 giugno 2014

Il regno d'inverno (Nuri Bilge Ceylan, 2014)

Il regno d'inverno - Winter sleep (Kış uykusu)
di Nuri Bilge Ceylan – Turchia 2014
con Haluk Bilginer, Melisa Sözen
***1/2

Visto al cinema Anteo, con Sabrina e Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il benestante Aydin, ex attore di teatro, gestisce un suggestivo albergo scavato nella pietra fra le colline della Cappadocia ed ereditato dai genitori, dove vive con la giovane e bella moglie Nihal e con la sorella Necla. Intellettuale dall'indole bonaria, ma misantropo in fondo all'anima, è apparentemente benvoluto da tutti: progetta da diverso tempo di redigere un saggio sulla storia del teatro turco, e nel frattempo cura una rubrica su un giornale locale ("Voci della steppa") nella quale si ritiene in diritto di pontificare con un certo snobismo sulla vita dei poveri abitanti della valle sottostante (compresi gli inquilini di diverse case di sua proprietà) in ragione della sua cultura e del suo maggior senso estetico. Mentre iniziano a cadere le prime nevi dell'inverno e gli ultimi turisti lasciano l'albergo, le tensioni con la moglie (che pur di trovare una propria ragione di vita si dedica alla beneficenza), con la sorella (a modo suo filosofa e idealista) e con gli abitanti della valle raggiungono un punto di non ritorno. Lungo (oltre tre ore e un quarto) ma rigoroso e avvincente nel suo studio dei personaggi (la caratterizzazione psicologica emerge lentamente attraverso lunghi dialoghi e continui confronti), il nuovo film di Nuri Bilge Ceylan è finalmente valso al talentuoso regista turco la Palma d'Oro al Festival di Cannes, dopo che con i lavori precedenti aveva già ricevuto due Grand Prix ("Uzak" e "C'era una volta in Anatolia") e un premio alla miglior regia ("Le tre scimmie"). I magnifici paesaggi della Cappadocia, i dialoghi densi ma anche fluidi che mettono a confronto le differenti personalità (la sceneggiatura "cechoviana" è il vero punto di forza della pellicola), lo scavare lentamente nelle psicologie per portare alla luce i rispettivi punti di vista e i difetti presenti in ciascuno di essi (non c'è divisione fra buoni e cattivi, o fra giusto e sbagliato: abbiamo a che fare con personaggi "veri", con tutte le loro ambiguità e sfaccettature, e in cui non è difficile identificarsi) donano un sapore esistenzialista a una vicenda peraltro non priva di metafore (il cavallo selvaggio che Aydin fa catturare per il beneficio dei turisti, e al quale poi sceglie di restituire la libertà; il titolo stesso della pellicola, dove l'inverno è quello dell'anima del protagonista). I personaggi sono mossi da presunzione, rassegnazione, ostinazione e orgoglio (su tutte spicca la scena dell'inquilino moroso che sceglie di bruciare il denaro ricevuto da Nihal come elemosina) e i piccoli episodi della vita di tutti i giorni riflettono, fra le pieghe e le sfumature, la complessità delle loro anime. Alla fine, la riflessione o il pentimento potranno condurre al perdono e alla catarsi (e Aydin potrà cominciare il suo libro). Ottima anche la confezione, come Ceylan ci aveva abituati nei precedenti lavori: da elogiare in particolare l'avvolgente fotografia di Gökhan Tiryaki e la colonna sonora minimalista, che si appoggia sul malinconico secondo movimento della sonata in la maggiore di Schubert.

Jimmy's hall (Ken Loach, 2014)

Jimmy's hall (id.)
di Ken Loach – GB/Irlanda 2014
con Barry Ward, Simone Kirby
**

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Rientrato in patria nel 1932, dopo dieci anni trascorsi in esilio negli Stati Uniti per aver combattuto dalla parte "sbagliata" durante la guerra civile, l'irlandese Jimmy Gralton decide di riaprire la vecchia sala da ballo di campagna che fu costruita anni prima sul terreno della sua fattoria. La sua scelta fa felici i giovani (e non solo) della regione, che hanno finalmente un luogo dove divertirsi che non sia sotto il controllo delle istituzioni (la chiesa cattolica in primis), tanto più che nella sala in questione, oltre a ballare, si organizzano anche corsi di lettura, di poesie, di canto, e persino di pugilato...; ma inevitabilmente si attira gli strali del parroco locale, dei notabili e dei "benpensanti" che vedono di cattivo occhio le idee socialiste di Jimmy e dei suoi amici. La tensione cresce, la politica ci si mette in mezzo, e Gralton finirà con l'essere espulso nuovamente dal paese. Ispirandosi a una storia vera, Loach racconta una vicenda che, se fosse stata trattata con maggior ironia, avrebbe potuto quasi sembrare un episodio della saga di Don Camillo e Peppone. Invece, con il suo solito schematismo (i buoni tutti da una parte, i cattivi tutti dall'altra), il regista la rende un pesante atto d'accusa contro chi cerca di limitare la libertà altrui, anche quando si tratta di qualcosa di assolutamente innocuo (canti e danze di campagna). Nella scena in cui Jimmy fa il suo discorso contro i "padroni" e contro il capitalismo, pare quasi rivolgersi al pubblico di oggi: e l'ombra delle Grande Depressione riecheggia quella dell'attuale crisi economica, rendendo la pellicola una metafora della situazione odierna.

16 giugno 2014

Queen & country (John Boorman, 2014)

Queen & country
di John Boorman – GB 2014
con Callum Turner, Caleb Landry Jones
**1/2

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Seguito dell'autobiografico "Anni '40" dello stesso regista, di cui riprende il protagonista principale (che allora era un bambino, alle prese con i bombardamenti tedeschi su Londra, e ora è appena diventato maggiorenne). Siamo all'inizio degli anni cinquanta, nel periodo in cui Elisabetta II sale al trono d'Inghilterra e i venti della guerra in Corea si fanno più forti. Il giovane Bill Rohan (Callum Turner), in servizio di leva, è assegnato all'addestramento delle reclute che partiranno per il fronte. Per sopravvivere al "sistema", insieme all'amico Percy (Caleb Landry Jones), ancora più refrattario di lui alla disciplina e irriverente verso le istituzioni, imbastisce una sorta di guerra al proprio superiore, il sergente maggiore Bradley (un grande David Thewlis), che al contrario di loro è dedito all'applicazione del regolamento alla lettera. E nel frattempo si innamora di Ophelia (Tamsin Egerton), misteriosa, sfuggente e tormentata ragazza d'alta classe. Con il suo cinema introspettivo ma ironico, nostalgico ma mai retorico, Boorman torna a lanciare uno sguardo disincantato al passato recente del suo paese. Si scherza e si ride, ma la guerra e le disavventure della vita incombono. Memorabile la casa dove vive la famiglia di Bill, su un'isola in mezzo al Tamigi. La pellicola è impreziosita da un ottimo cast (Vanessa Kirby è la sorella, Sinéad Cusack è la madre, Pat Shortt è il soldato "lavativo" Redmond, Richard E. Grant è il maggiore della caserma), una bella atmosfera retrò e numerose citazioni cinefile d'epoca (i personaggi parlano di Hitchcock, Wilder, Preminger, "Casablanca", e vanno al cinema a vedere "Rashomon" di Kurosawa). E proprio al cinema potrebbe essere legata la futura vita del protagonista, che nel finale vediamo alle prese con una videocamera. L'impressione è che Boorman stia costruendo, appunto in chiave autobiografica, un proprio "Antoine Doinel": vedremo i prossimi sviluppi.

Timbuktu (Abderrahmane Sissako, 2014)

Timbuktu (id.)
di Abderrahmane Sissako – Francia/Mauritania 2014
con Ibrahim Ahmed, Abel Jafri
***

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

A Timbuktu, ai confini del deserto del Sahara, arriva un gruppo di ribelli islamici che occupa la città e instaura la legge della sharia: divieto di fare musica, di fumare, di indugiare in qualsiasi forma di svago, di andare in giro con parti del corpo scoperte (per le donne)... La popolazione, rassegnata, ubbidisce, anche se molti a modo loro tenteranno di ribellarsi. Tanti piccoli episodi si dipanano attorno a una trama principale: quella di Kidane, pastore nomade che ha scelto di vivere con la sua famiglia ai margini del deserto, e che uccide senza volerlo il pescatore che gli aveva abbattuto una mucca, rea di essersi avvicinata troppo alle sue reti nel fiume. La denuncia contro il fondamentalismo, i soprusi e le violenze dei fanatici è puntuale e rigorosa, ma è sempre accompagnata da una vena di ironia che sdrammatizza (numerosi i momenti in cui l'estremismo o le ipocrisie dei jihadisti sono messe in ridicolo e portate allo scoperto). E non mancano alcune vette surreali (la partita di calcio giocata senza pallone, che richiama la celebre partita a tennis del "Blow up" di Antonioni).

Thermae Romae II (Hideki Takeuchi, 2014)

Thermae Romae II
di Hideki Takeuchi – Giappone 2014
con Hiroshi Abe, Aya Ueto
**1/2

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Tornano l'architetto romano Lucius e i suoi bizzarri viaggi nel tempo fino al Giappone moderno, per "carpire" i segreti delle terme nipponiche e riproporli nell'Antica Roma. Se possibile, questo secondo lungometraggio tratto dal manga di Mari Yamazaki (che stavolta si identifica in tutto e per tutto nella coprotagonista femminile, Mami) è ancora più kitsch e divertente del primo capitolo, del quale ripropone temi, soggetto, stile e ambientazione. Dopo aver realizzato terme per i gladiatori del Colosseo (ispirandosi a quelle per i lottatori di sumo) e per i bambini (copiando i moderni "acquapark"), per difendere il sogno di pace dell'imperatore Adriano dagli intrighi del Senato Lucius dovrà creare un'utopica città termale senza precedenti, con tanto di "bagni misti". Gag a profusione, anacronismi (voluti), strizzatine d'occhio, il tutto condito con molta ironia, l'umorismo demenziale tipico dei manga e le arie d'opera di Puccini, Leoncavallo e Verdi (a proposito: l'improbabile cantante pavarottiano è qui protagonista a sua volta di una serie di sketch con tutta la sua famiglia!), più – tanto per far numero – brani di Smetana e di Dvořák. E nel finale si sfiora il metacinema (o il metafumetto?). Ancora ottimi, visto che si tratta di un film giapponese (che si solito non brillano per budget) scenografie, effetti e ricostruzione storica: ma quando i personaggi parlano in latino, è meglio tapparsi le orecchie o, magari, riderci sopra!

15 giugno 2014

Lettere di uno sconosciuto (Zhang Yimou, 2014)

Lettere di uno sconosciuto (Guilai, aka Coming home)
di Zhang Yimou – Cina 2014
con Gong Li, Chen Daoming
***

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Incarcerato durante la Rivoluzione Culturale, l'intellettuale Lu Yanshi torna a casa dopo vent'anni di "riabilitazione" solo per scoprire che la moglie non lo riconosce più. La donna soffre infatti di un raro disturbo mentale, un'amnesia selettiva che le impedisce di ricordare il volto del marito. Con l'aiuto della figlia, e per starle sempre vicino, l'uomo si stabilisce in una casa a fianco di quella della moglie, tentando in tutti i modi di riattivarle la memoria: ma né le immagini (le fotografie di quando era giovane) né i suoni (la musica del pianoforte) riescono a fare il miracolo. Zhang Yimou torna al suo fortunato filone intimista con una pellicola ispirata a un romanzo di Yan Geling (la stessa autrice de "I fiori della guerra", da cui Zhang aveva tratto il suo film precedente). Se l'incipit poteva far pensare anche in questo caso a un dramma a sfondo politico-sociale (fra l'altro il regista aveva già parlato della Rivoluzione Culturale in "Vivere!"), progressivamente invece il film perde le connotazioni storiche e ideologiche per tramutarsi in un'accattivante versione cinese di "Amour" (con echi di "Memento": vedi i bigliettini sparsi per casa), con l'uomo che per anni rimane a vivere al fianco di una donna che non lo riconosce (e alla quale deve presentarsi nuovamente ogni giorno, sempre con una diversa identità) ma che tuttavia continua ad amarlo, al punto da recarsi ogni 5 del mese alla stazione nella speranza di vederlo tornare. E per comunicare in qualche modo con lei, le scriverà false lettere dalla "prigionia". Evidente, a livello di metafora, il tema della rimozione e dell'alterazione della memoria storica: quando il padre era imprigionato, la figlia – indottrinata dal partito – aveva tagliato via con la forbice il suo volto da tutte le fotografie presenti in casa; quando l'uomo ritorna, invece, a sparire in maniera analoga è il suo volto dalla memoria della moglie. Bello e toccante il finale, sotto la neve invernale. A otto anni da "La città proibita" e per solo la seconda volta in quasi vent'anni Zhang torna a collaborare con Gong Li, la sua musa di un tempo, qui autrice di una prova intensa e commovente. Bravi anche Chen Daoming e la giovane Zhang Huiwen nei panni della figlia Dandan, che si esibisce fra l'altro come danzatrice in una rappresentazione del classico balletto dell'era comunista "Il distaccamento femminile rosso".

Tu dors Nicole (Stéphane Lafleur, 2014)

Tu dors Nicole
di Stéphane Lafleur – Canada 2014
con Julianne Côté, Juliette Gosselin
**

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Rimasta a casa da sola durante un'estata calda e tranquilla (i genitori sono andati in vacanza e le hanno lasciato la villa con piscina tutta per lei), la ventiduenne Nicole trascorre il tempo in compagnia dell'amica Véronique, del fratello Rémi e dei membri della rock band di quest'ultimo, il batterista JF e il bassista Pat. Le giornate si succedono tutte uguali, e anche il progetto di partire con l'amica per un viaggio in Islanda non si concretizzerà. Alla fine, proprio come nei geyser di quell'isola, la pressione accumulata sotto terra finirà con l'esplodere. Girato in un bianco e nero "artistico" e alla Jarmusch, un film esistenzialista dai toni leggeri e a tratti surreali (vedi il bambino "filosofo" che parla con la voce di un uomo adulto), dove per la maggior parte del tempo non sembra accadere davvero nulla. Nicole (come peraltro il fratello) si rivela incapace di portare a termine qualsiasi progetto: le sue giornate sono tutte uguali e noiose, a malapena ravvivate dal lavoro presso un negozio che vende abiti donati in beneficienza, dalle passeggiate notturne per le strade del quartiere (con incontri bizzarri, come l'uomo che gira in auto per far addormentare il bambino), dalle chiacchiere con i membri della banda di Rémi (la simpatia che sia lei che Véronique provano per JF metterà in discussione la loro amicizia), e la sua vita è ben simboleggiata dalla bicicletta con cui si sposta e che rimane perennemente bloccata da una catena difettosa. L'ambiente suburbano è quello della provincia canadese francofona del Quebec.

Catch me daddy (Daniel Wolfe, 2014)

Catch me daddy
di Daniel Wolfe – GB 2014
con Sameena Jabeen Ahmed, Conor McCarron
*1/2

Visto al cinema Apollo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Laila, ragazza di origini pakistane fuggita di casa, si nasconde con il suo ragazzo Aaron fra le colline e le squallide cittadine del centro-nord dell'Inghilterra. Alla sua ricerca c'è il fratello Zaheer, insieme a un gruppo di uomini inviati dal vendicativo padre. L'esordio cinematografico del regista di videoclip Daniel Wolfe (scritto insieme al fratello Matthew) è un film cupo e disperato, dalle atmosfere plumbee e dal ritmo lento e dilatato. Se la confezione è accettabile (buona soprattutto la fotografia notturna di Robbie Ryan, ricca di atmsofera) e il cast tutto sommato convince (su tutti spicca il mercenario cocainomane interpretato dal veterano Gary Lewis), il mix fra denuncia sociale e thriller on the road (con echi di "Voglio la testa di Garcia") non funziona del tutto per colpa di una sceneggiatura sfilacciata, che tiene lo spettatore sulle corde eccessivamente a lungo per poi non risolversi compiutamente. Proprio come i suoi personaggi, per lunghi tratti il film sembra non sapere dove sta andando. E le cose "non dette" della prima parte (quasi tutti i personaggi vengono introdotti con una certa ambiguità) non acquisiscono un particolare significato nella seconda. Più si va verso la conclusione della vicenda, più questa perde interesse: e non bastano la violenza e la mancanza di lieto fine ad aggiungere valore all'insieme.

14 giugno 2014

Pride (Matthew Warchus, 2014)

Pride (id.)
di Matthew Warchus – GB 2014
con Ben Schnetzer, George MacKay
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Nella Gran Bretagna del 1984, durante la stagione degli scioperi dei minatori contro il governo Thatcher che minacciava la chiusura delle miniere, un gruppetto di attivisti gay e lesbiche di Londra decide di organizzare un movimento di solidarietà a favore dei minatori ("In fondo abbiamo gli stessi nemici: il governo, i poliziotti e i tabloid"), offrendo in particolare il proprio sostegno economico agli abitanti di un villaggio del Galles. Accolti da questi inizialmente con qualche preclusione, ne conquisteranno pian piano l'amicizia: e l'anno dopo, a sciopero finito, saranno i minatori a sfilare al loro fianco durante il Gay Pride. Ispirata ad eventi reali, scritta dal commediografo Stephen Beresford e diretta da un regista teatrale alla seconda prova cinematografica (ben quindici anni dopo la prima, "Inganni pericolosi"), è una commedia a sfondo sociale nello stile tipicamente britannico di "Grazie signora Thatcher" o "Full Monty", che ha il pregio di divertire e "trascinare" il pubblico senza banalizzare il contesto sottostante (anzi, rivitalizzandolo, all'insegna di un'auspicata "contaminazione" fra impegno militante e vita privata) e soprattutto senza rifugiarsi in scontati luoghi comuni. Certo, in fondo si basa su un'unica idea (quella di due comunità parallele, veri e propri mondi diversi che si incontrano e imparano ad aiutarsi a vicenda), ma supera quelli che potevano essere i limiti del soggetto affidandosi a un numerosissimo roster di personaggi, e dunque offrendo diversi punti di vista: di fatto è un film corale, con decine e decine di protagonisti, ciascuno con il proprio background e i propri problemi personali. A interpretarli c'è un nutrito cast che affianca nomi sconosciuti a vecchie glorie del cinema britannico: dal giovane gay impegnato e di sinistra (Ben Schnetzer) al gallese che ha timore di tornare nel paese da cui è fuggito (Andrew Scott), dal timido ventenne che non ha ancora fatto "coming out" e vive con i genitori (George MacKay) alla simpatica lesbica anti-femminista (Faye Marsay), e ancora Dominic West, Freddie Fox, Joseph Gilgun e, fra i minatori e le loro mogli, Paddy Considine, Jessica Gunning, Bill Nighy, Imelda Staunton e Menna Trussler. Se la Thatcher affermava che "non esiste la società; esistono gli individui, uomini e donne, e poi c'è la famiglia", i protagonisti del film sono convinti del contrario e vogliono dimostrare che l'unione fa la forza. La pellicola nel complesso copre gli eventi di un anno, visto che si apre con la sfilata del 1984 e si conclude con quella del 1985.

13 giugno 2014

Cannes e dintorni 2014

Se la scorsa edizione del Festival di Cannes aveva regalato tanti ottimi film, quella di quest'anno si preannuncia sicuramente meno ricca e interessante. Spero di essere smentito! Fatto sta che da oggi, grazie alla consueta rassegna milanese (che ha corso il rischio di saltare per mancanza di fondi: un grazie, dunque, agli sponsor e ai sostenitori che hanno reso possibile organizzarla), mi vedrò alcune delle pellicole passate di recente sulla Croisette. Innanzitutto la Palma d'Oro, "Winter sleep" del talentuoso Nuri Bilge Ceylan, ma anche i film di Xavier Dolan, Ken Loach, i Dardenne, Assayas, Zvyagintsev e Zhang Yimou. Peccato invece per l'assenza delle opere di Godard, Wenders, Alonso e Östlund.

10 giugno 2014

Il dottor Jekyll e Mr. Hyde (V. Fleming, 1941)

Il dottor Jekyll e Mr. Hyde (Dr. Jekyll and Mr. Hyde)
di Victor Fleming – USA 1941
con Spencer Tracy, Ingrid Bergman
**

Visto in divx.

Nella Londra vittoriana, il devoto ma eccentrico medico Henry Jekyll (chiamato "Enrico" nel doppiaggio d'epoca, che italianizza tutti i nomi propri) mette a punto una pozione che permette di separare la parte "malvagia" di un uomo da quella "buona". Frustrato dalla lunga assenza della fidanzata Beatrice, che il padre ha portato con sé in un viaggio in Europa, la sperimenta su sé stesso: e nei panni del deforme Hyde si dedica al vizio e ai bagordi. Ma scoprirà che tenere sotto controllo il proprio lato oscuro non è così facile. Il film è praticamente un remake della precedente versione del 1931 con Fredric March, alla quale non aggiunge nulla e di cui ricalca pari pari non solo la struttura ma anche numerose scene. Nei dieci anni trascorsi da allora, però, a Hollywood era entrato in vigore il codice Hays di autocensura: e dunque la nuova pellicola non può che risultare blanda e annacquata se confrontata con quella di Mamoulian. È inoltre molto più moralista (si apre e si chiude con sermoni e preghiere religiose), assai meno estrema (a parte il finale, nel quale Hyde uccide il padre di Beatrice, tutto quello che il mostro fa è procurarsi un'amante e scatenare risse nei locali: altro che "malvagità assoluta"!) e molto meno efficace nel mettere visivamente in scena gli impulsi animaleschi o sessuali che facevano del personaggio interpretato dieci anni prima da March quel capolavoro di caratterizzazione che era. Qui le uniche sequenze degne di nota sono le brevi visioni che Jekyll sperimenta mentre beve la pozione: deludono, invece, gli effetti ottici della trasformazione, resa tramite una banale serie di dissolvenze. Anche Spencer Tracy, stranamente inadeguato e insicuro nei panni di Jekyll e mai terrorizzante in quelli di Hyde, sfigura rispetto al suo predecessore; tanto che March (che era suo amico) all'uscita del film gli spedì un ironico telegramma in cui lo ringraziava per la forte spinta data alla sua carriera dai paragoni che tutti facevano fra le due prove, invariabilmente a favore del primo. Per evitare troppi confronti scomodi, comunque, i produttori acquistarono i diritti del film precedente e tentarono di farne sparire tutte le copie dalla circolazione (per fortuna qualcuna si è salvata dalla distruzione, altrimenti sarebbe diventato un film perduto). Quanto alle due attrici, è curiosa la scelta di assegnare alla sensuale Lana Turner il ruolo della fidanzata perbene e alla pudica Ingrid Bergman quello della prostituta tentatrice (che qui, a dire il vero, è soltanto una cameriera). Nei progetti iniziali, in effetti, era l'esatto contrario: fu proprio la Bergman, stufa di personaggi "buoni", a chiedere l'inversione. Pare che Tracy avrebbe voluto Katharine Hepburn (con cui all'epoca non aveva ancora mai lavorato!) in entrambi i ruoli, a suggerire uno sdoppiamento anche della figura femminile: sarebbe stato interessante. In ogni caso, la Bergman nei panni di Eva, viziosi prima e spaventati poi, è probabilmente la cosa migliore della pellicola.

8 giugno 2014

City of god (Fernando Meirelles, 2002)

City of God (Cidade de Deus)
di Fernando Meirelles, Katia Lund – Brasile 2002
con Alexandre Rodrigues, Leandro Firmino da Hora
***1/2

Visto in divx, con Sabrina.

Storie di banditi, trafficanti di droga e bambini di strada in una delle più povere e pericolose favelas di Rio de Janeiro, denominata per l'appunto "la città di Dio". Testimone e voce narrante della pellicola, che si ispira ad eventi reali e intreccia come in un mosaico le vicende di numerosi personaggi, dipanandosi per un lungo arco di tempo (dagli anni '60 all'inizio degli anni '80), è Buscapé, uno dei pochi abitanti della favela che cerca di mantenersi onesto in un ambiente dove la criminalità sembra essere l'unico possibile sbocco di tanti giovani e bambini. Quasi un alter ego di Paulo Lins, l'autore del romanzo da cui è tratto il film, il protagonista (ma il termine sovrastima il suo ruolo) aspira invece a diventare fotografo e giornalista: e sarà proprio lui a documentare le dinamiche e le fasi più calde di una guerra fra bande che, in un crescendo inarrestabile, insanguinerà case e strade della "cidade de deus". La regia moderna e folgorante, coadiuvata da un montaggio rapido e da una fotografia ipersatura che varia a seconda del periodo storico (il film è praticamente diviso in tre parti, una per ciascun decennio), guarda in parte a Scorsese ma soprattutto si sposa con una struttura di chiara derivazione post-tarantiniana (compresa la frammentazione cronologica della narrazione, con continue disgressioni, passaggi da un personaggio all'altro, balzi temporali, scritte in sovrimpressione che introducono i vari capitoli, e persino alcune scene ripetute più volte da differenti punti di vista), benché il contesto appaia decisamente più "realistico" e meno fumettoso: siamo più dalle parti della cronaca nera a sfondo sociale che da quelle della narrativa pulp o dall'exploitation, e nonostante l'alto tasso di violenza sono quasi assenti compiacimenti o strizzatine d'occhio per "gasare" gli spettatori. A questa sensazione di realismo (per quanto stilizzato, certo: sarebbe forse meglio parlare di neo-neorealismo) contribuiscono gli attori, praticamente tutti non professionisti o senza esperienza, molti dei quali abitavano davvero nella favela in questione. Interpreti capaci di dare vita a un variopinto gruppo di personaggi che, come i calciatori del loro paese, sono identificati da soprannomi (Ze Pequeno, Mané Galinha, Cabeleira, Marreco, ecc.) anziché dai veri nomi di battesimo, e i cui caratteri fluiscono in maniera naturale dai loro comportamenti e dalle loro azioni. E proprio la violenza non filtrata o edulcorata dalle lenti hollywoodiane, spesso con i bambini come protagonisti (nel ruolo di vittime ma anche di carnefici, nella totale assenza di toni moralistici o educativi) contribuisce alla potenza espressiva della pellicola e al risultato complessivo, quasi un'evoluzione de "I figli della violenza" di buñueliana memoria. Peccato che Mereilles, allora etichettato come regista fra i più promettenti (anche se alla pellicola ha contribuito anche la co-regista, Katia Lund), non si sia più ripetuto in seguito agli stessi livelli.

7 giugno 2014

Vienna di Strauss (Alfred Hitchcock, 1934)

Vienna di Strauss (Waltzes from Vienna)
di Alfred Hitchcock – GB 1934
con Esmond Knight, Jessie Matthews
*1/2

Visto in divx, in lingua originale.

Il giovane Johann Strauss, aspirante compositore, sogna di affrancarsi dall'ingombrante figura del padre, il musicista più celebre di Vienna ma a lui profondamente ostile. Otterrà il successo con il "Bel Danubio blu", valzer composto grazie all'ispirazione della fidanzata Rasi e al sostegno della Contessa Helga. Durante il primo periodo della sua carriera in Inghilterra, Hitchcock ha girato diverse commedie romantiche, melodrammi o pellicole che comunque esulano dai generi a lui più congeniali del thriller e della suspense. Ma questo, tratto da una commedia musicale di due anni prima, è forse il titolo più atipico della sua filmografia (nonché il suo "punto più basso" secondo lo stesso regista, che ricorda di averlo realizzato soltanto perché in quel periodo non aveva altri lavori per le mani). La verosimiglianza storica è un optional (nella realtà, il celebre valzer fu composto quando Strauss padre era già morto da tempo), le fiacche scene romantiche (con il triangolo fra Strauss junior e le due donne) si alternano ad altre che si rifanno alla comicità slapstick (l'incipit con il carro dei pompieri) e la recitazione è altalenante (il protagonista Esmond Knight sembra spesso a disagio: meglio le due controparti femminili – Jessie Matthews e Fay Compton – nonché Edmund Gwenn nei panni del padre). Il tutto in un clima da "operetta" non particolarmente accattivante, anche se alcuni comprimari (come il geloso marito della Contessa) riescono a strappare qualche sorriso. La lavorazione servì comunque a sir Alfred per mettere a punto diverse tecniche legate all'utilizzo della musica in fase di montaggio.

6 giugno 2014

Numero diciassette (Alfred Hitchcock, 1932)

Numero diciassette (Number seventeen)
di Alfred Hitchcock – GB 1932
con John Stuart, Leon M. Lion
**

Visto in divx alla Fogona.

Al calar della sera, incuriosito dal cartello "Vendesi", un uomo entra a visitare una casa abbandonata e diroccata (al numero civico diciassette, come indica il titolo). Vi troverà un cadavere, tanto per cominciare, e rimarrà invischiato in una contorta vicenda a base di detective, gangster e collane di diamanti rubate. Un mystery mediocre e pasticciato, tratto da una commedia teatrale di Joseph Farjeon, che Hitchcock non voleva girare (il copione gli fu imposto dai produttori) ma che pure riserva qualche gradita sorpresa. A partire dall'ironia con cui è condita la prima parte, tutta ambientata sulle scale e i pianerottoli della "casa dei misteri", dove improbabili ed enigmatici personaggi (nessuno dei quali è veramente chi dice di essere) si avvicendano in continuazione, favoriti da una fascinosa atmosfera a base di giochi di ombre proiettati dalle luce delle candele. Ovviamente il morto non è davvero morto, le ragazze piovono dal cielo, un imprevedibile e bizzarro senzatetto si mette in mezzo, e tanti misteri si affastellano progressivamente per poi essere svelati, poco a poco, in una seconda parte che culmina in un finale mozzafiato e ricco d'azione, con l'inseguimento fra un autobus "dirottato" e un treno senza controllo che corre a tutta forza verso il traghetto sulla Manica (furono usati dei modellini, ma il risultato è più che soddisfacente). Peccato per la recitazione non certo eccelsa, la sceneggiatura poco equilibrata e la difficoltà di trovare un personaggio in cui identificarsi (protagonista compreso): la pellicola fu un flop, ma sir Alfred farà tesoro dell'esperienza e ne riproporrà diversi elementi nei film successivi.

4 giugno 2014

Pelle di serpente (Sidney Lumet, 1960)

Pelle di serpente (The fugitive kind)
di Sidney Lumet – USA 1960
con Marlon Brando, Anna Magnani
***

Visto in divx, con Marisa.

Val Xavier (Brando), vagabondo e musicista nei night club di New Orleans, detto "Pelle di serpente" per via della giacca che indossa, giunge in una cittadina rurale del profondo Sud con l'intenzione di rifarsi una vita. Trova un impiego nel negozio gestito da Lady Torrance (Anna Magnani), ma non riuscirà a salvare la donna dall'inferno del suo matrimonio infelice e da un ambiente ostile, razzista e violento. Ardita rilettura del mito di Orfeo ed Euridice, tratta dal dramma "Orpheus Descending" di Tennessee Williams (anche co-sceneggiatore), impreziosita dalla regia di Lumet, dalla fascinosa fotografia in bianco e nero di Boris Kaufman e dall'interpretazione di un Brando al culmine del carisma e della prestanza fisica, qui affiancato da un'intensa Magnani al suo terzo film hollywoodiano e alla seconda collaborazione con Williams dopo "La rosa tatuata" (entrambi i testi, pare, furono scritti dal drammaturgo pensando proprio all'attrice italiana come protagonista). L'origine teatrale della sceneggiatura è evidente dalla preponderanza dei dialoghi, dall'ambientazione circoscritta e dal tipico stile di Williams che, attraverso i drammi e le dinamiche dei suoi personaggi, denuncia il malessere sociale dell'America contemporanea. Diversi (ma non banali) i riferimenti al mito di Orfeo, a partire dalla chitarra da cui Xavier non gli separa mai (che gli è stata donata non da Apollo ma da un grande musicista jazz, il cui suono "incantava" non gli animali ma i procuratori!). Se Brando è un cantastorie affabulatore, affascinante e dai poteri magici, la Magnani è una novella Euridice, "simbolicamente morta" e prigioniera in un inferno fatto di solitudine, violenza e ingiustizia, che si aggrappa al nuovo venuto per ricominciare disperatamente a vivere. È un mondo – come spiega Brando – che si divide in chi compra e chi viene comprato: ma c'è anche un terzo tipo di uomini, quelli sempre in movimento (da qui il titolo originale del film) e che si lasciano trasportare dal vento come gli uccelli. Altra metafora animale è quella del serpente, la cui pelle passa nel finale da Brando a un altro personaggio (la ragazza trasgressiva e ninfomane interpretata da Joanne Woodward). Maureen Stapleton è la "veggente" Talbot, moglie dello sceriffo, mentre Victor Jory è Jabe Torrance, il marito di Lady. Da notare che anche per Brando si trattava del secondo incontro con Tennessee Williams (dopo "Un tram che si chiama desiderio").

3 giugno 2014

Diverso da chi? (Umberto Carteni, 2009)

Diverso da chi?
di Umberto Riccioni Carteni – Italia 2009
con Luca Argentero, Claudia Gerini
*1/2

Visto in divx alla Fogona.

In "una città di destra del nord" (non viene detto, ma è Trieste) il partito di centrosinistra è costretto a candidare come sindaco un giovane militante gay (Argentero), dopo che il vincitore delle primarie, il candidato dal volto rassicurante, è stato messo fuori gioco da un infarto improvviso. Per renderlo più "presentabile" all'elettorato, gli viene affiancata come possibile vicesindaco una "centrista di ferro" (Gerini): tanto lui è progressista e aperto alle differenze, tanto lei è conservatrice e a favore delle famiglie tradizionali. I punti in comune sono pochi e lo scontro sembra inevitabile, con gravi danni sulla campagna elettorale. E invece, nonostante l'ostilità iniziale, i due finiscono con l'andare d'amore e d'accordo: persino troppo, visto che tra loro nasce una relazione sentimentale clandestina che metterà in crisi le rispettive identità e valori. Soggetto (di Fabio Bonifacci) schematico, personaggi costruiti a tavolino e dalla caratterizzazione "disinvolta", situazioni inverosimili, assenza di battute memorabili, per un film che vorrebbe fuggire dai luoghi comuni (l'intento era quello di mettere in scena "la diversità nella diversità" e di denunciare come i pregiudizi possano funzionare anche all'incontrario) ma che paradossalmente vi affonda invece a piene mani. E se la satira politica sullo sfondo è assai superficiale, anche i temi personali o sociali (l'identità sessuale, la famiglia allargata), vero fulcro del film, sono trattati con tale leggerezza da risultare implausibili e rischiando di scontentare un po' tutti. Filippo Nigro interpreta il compagno del protagonista, Francesco Pannofino è il candidato rivale di centrodestra. Confezione mediocre ed esordio alla regia senza guizzi per Carteni.