29 febbraio 2016

Zootropolis (B. Howard, R. Moore, 2016)

Zootropolis (Zootopia)
di Byron Howard, Rich Moore [e Jared Bush] – USA 2016
animazione digitale
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina.

In un mondo dove tutte le specie di mammiferi (e non solo gli esseri umani, che anzi brillano per la loro assenza) si sono evolute oltre lo stadio selvatico e hanno imparato a convivere pacificamente, la coniglietta Judy Hopps aspira sin da bambina a diventare poliziotta. Nonostante tutti cerchino di dissuaderla (i conigli sono considerati buoni soltanto a fare i contadini), Judy riesce a realizzare il proprio sogno e viene assegnata al distretto centrale di Zootropolis (Zootopia in originale), gigantesca città popolata da milioni di animali antropomorfi, simbolo di integrazione e di convivenza, ogni distretto della quale rappresenta un differente habitat naturale (la foresta pluviale, il deserto, i ghiacci artici, ecc.). Inizialmente preposta all'incarico più umile (l'ausiliaria del traffico), ben presto rimane coinvolta in un caso spinoso, quando scopre che alcuni predatori sono "regrediti" al loro stadio naturale, feroce e selvaggio, mettendo così in pericolo la comunità. E con l'aiuto della cinica volpe Nick Wilde, truffatore di piccolo calibro, scoprirà che è in atto un complotto per rivoltare la popolazione (il 90% della quale è costituita da "prede") contro di essi. Impostato come un classico buddy movie poliziesco, un film vivace e ricco di personaggi simpatici (scena cult: quella dei bradipi impiegati alla motorizzazione civile), ma soprattutto che veicola messaggi importanti: al fianco del classico tema della forza di volontà e di autodeterminazione (tanto Judy quanto Nick devono superare difficoltà e pregiudizi per realizzare i propri sogni: la prima, in quanto "tenera" coniglietta, non è presa sul serio come poliziotta; il secondo, in quanto volpe, è bollato da tutti come infido e pericoloso), e naturalmente a quello dell'amicizia, ci sono quelli del razzismo e dell'ostilità all'integrazione, quanto mai attuali in tempi di migranti e di terroristi (per via di pochi casi, tutti i predatori vengono guardati con sospetto: come non pensare ai musulmani oggi?), con alcuni scambi di battute che mettono anche in luce l'ignoranza degli xenofobi ("Tornatene nella foresta!", "Ma io vengo dalla savana!"). Certo, non tutto brilla per originalità: già l'idea di realizzare un cartoon in stile poliziesco non è nuovissima (era già stata usata, per esempio, nel sottovalutato "Osmosis Jones"). Inoltre parecchi sviluppi della trama sono francamente prevedibili, e alcune citazioni sono un po' inflazionate (c'era davvero bisogno dell'ennesima parodia de "Il padrino"?). La scena dell'addestramento di Judy all'accademia di polizia ricorda quella analoga, che però era migliore e più efficace, di "Mulan". Da notare il personaggio della popstar Gazelle, la cui voce e le cui canzoni sono di Shakira. Alla regia, nominalmente di Byron Howard ("Rapunzel") e Rich Moore ("Ralph Spaccatutto"), ha collaborato anche l'esordiente Jared Bush.

27 febbraio 2016

Remember (Atom Egoyan, 2015)

Remember (id.)
di Atom Egoyan – Canada/Germania 2015
con Christopher Plummer, Martin Landau
***

Visto al cinema Apollo.

Dopo la morte della moglie Ruth, il quasi novantenne ebreo Zev Guttman (un Plummer fenomenale) fugge dalla casa di riposo per andare alla ricerca del comandante nazista che aveva sterminato tutta la sua famiglia ad Auschwitz e che si è rifugiato in Nord America sotto il falso nome di Rudi Gurlander. Il problema è che in giro ci sono quattro Gurlander, e Zev – che fra le altre cose soffre di demenza senile, dimenticando spesso i dettagli della propria missione – dovrà rintracciarli uno dopo l'altro se vorrà ucciderlo e vendicarsi. Dopo diverso tempo Egoyan torna ai livelli dei suoi film migliori ("Exotica", "Il dolce domani", "Il viaggio di Felicia") con una pellicola che – tenendo fede al suo titolo – intreccia mirabilmente i vari temi della "memoria": quella degli eventi storici dell'Olocausto, che rischiano di essere dimenticati man mano che i protagonisti e i sopravvissuti invecchiano e muoiono ("Siamo gli ultimi a poter riconoscere il volto di quell'uomo", spiega a Zev l'amico Max Rosenbaum (Martin Landau), il suo compagno di ospizio che ha rintracciato Gurlander e gli ha fornito tutte le informazioni per raggiungerlo); ma anche quella, più semplicemente, dei ricordi del proprio passato, destinata a degradarsi con la vecchiaia. E infatti Zev, a ogni risveglio, ripiomba in un'epoca in cui la moglie era ancora viva e fa fatica a ricordarsi dove si trova o cosa sta facendo: dovrà annotarsi le informazioni più importanti sulla propria pelle (come in "Memento": ma qui, significativamente, sul braccio ha anche un'altra "annotazione" che gli ricorda il suo passato, ovvero il numero del campo di concentramento) e rileggere in continuazione la preziosa lettera di Max con le istruzioni per la sua missione. Il gioco della memoria e dei ricordi che svaniscono, fra l'altro, non è fine a sé stesso, visto che costituisce un elemento essenziale della trama e giustifica il colpo di scena finale. Grande cast di attori anziani, che oltre a Plummer e Landau comprende anche Bruno Ganz e Jürgen Prochnow (due degli uomini oggetto della "caccia" di Zev). Durante il suo viaggio, il protagonista incontrerà quattro diversi aspetti del nazismo: il soldato inconsapevole, il prigioniero "diverso" (che ci ricorda come gli ebrei non furono le uniche vittime dell'Olocausto: un tema che naturalmente sta molto a cuore a Egoyan, che è di origine armena), il fanatico entusiasta (che non ha partecipato davvero allo sterminio; e proprio questa sua mancanza fa sì che, non rendendosi pienamente conto dell'orrore, possa continuare a professare la propria ideologia) e, infine, l'autentico nazista che si è ricostruito una vita e una famiglia in America, tenendo questa all'oscuro del proprio passato. Il viaggio a tappe di Zev è scandito da incontri con persone di tutte le età, di cui significativi sono quelli con i bambini, che rappresentano l'innocenza della "non conoscenza" (come quando la bimba domanda chi siano i nazisti, e Zev le risponde semplicemente che sono "persone cattive"). Interessante anche il rapporto di Zev con la musica (Moszkowski, Mendelssohn e Wagner: i primi due ebrei, il terzo il musicista più associato – suo malgrado – al nazismo), mentre al tema della memoria e della sua cancellazione (volontaria o meno) si sovrappone quello del delicato equilibrio (non sempre contrapposizione!) fra verità e menzogna ("False verità" era il titolo di un altro film di Egoyan). Henry Czerny è il figlio di Zev, Dean Norris il poliziotto neo-nazista.

25 febbraio 2016

American sniper (Clint Eastwood, 2014)

American sniper (id.)
di Clint Eastwood – USA 2014
con Bradley Cooper, Sienna Miller
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

La storia vera di Chris Kyle (il film è ispirato alla sua autobiografia), soprannominato "il cecchino più letale della storia militare degli Stati Uniti" per aver ucciso in Iraq con il suo fucile, durante la seconda guerra del golfo, oltre 160 soldati e guerriglieri nemici. Cresciuto nel profondo e religioso Texas da un padre che gli ha insegnato che "nella vita esistono tre tipi di persone: le pecore, i lupi e i cani da pastore", lasciandogli poca scelta su quale dei tre diventare ("Noi proteggiamo chi amiamo"), Chris si arruola nei Navy Seals poco prima dell'attacco alle Torri Gemelle. Una volta mandato in Medio Oriente, scopre quasi subito di essere infallibile con il suo fucile, proteggendo i marines che battono le strade delle città casa per casa alla ricerca di sospetti terroristi. Ben presto, visto il numero dei suoi bersagli colpiti, diventa una specie di leggenda, tanto fra i compagni quanto fra i nemici, che giungono persino a mettere una taglia sulla sua testa. Stufo di restare appostato su un tetto, ottiene di partecipare anche alle missioni di terra, dando la caccia insieme al suo gruppo (soprannominato "I punitori", dal personaggio della Marvel il cui teschio diventa il loro simbolo) al terribile "Macellaio", braccio destro di Al-Zarkawi, e instaurando una sorta di duello personale a distanza con il cecchino più pericoloso del nemico, il misterioso Mustafa, campione olimpico siriano di tiro con il fucile. Nel frattempo, durante i fugaci ritorni a casa fra un turno di missione e l'altro, la moglie (Sienna Miller) si rende conto che Chris sta lentamente cambiando, e che diventa sempre più incapace di riabituarsi a una vita normale e civile, con lei e con i figli. La pellicola alterna le scene di guerra urbana in Iraq ai momenti (decisamente più interessanti) che mostrano il disadattamento di Chris in patria, tipico fra l'altro di molti reduci. Senza approfondire il contesto storico (e in particolare le ragioni e i retroscena del conflitto: Chris, come tanti, semplicemente accetta che sia "giusto" andare a combattere per difendere la propria patria), i pregi del film si concentrano tutti sul ritratto umano del protagonista, sul suo sentirsi fuori posto, sul suo irrisolto rapporto con la vita e con la morte, e sulla sua incredibile catena di bersagli colpiti che cominciano, caso crudele, con l'uccisione di una madre e di un bambino. Bravo Cooper. La pellicola si conclude con le immagini del vero corteo e della cerimonia funebre di Kyle, assassinato da un altro reduce poco prima dell'inizio delle riprese del film.

24 febbraio 2016

La villa dei mostri (M. Antonioni, 1950)

La villa dei mostri
di Michelangelo Antonioni – Italia 1950
*1/2

Visto su YouTube.


Bomarzo, piccolo paesino a sessanta chilometri da Roma, è celebre per il suo parco cinquecentesco, popolato da sculture e bassorilievi che ritraggono creature mostruose e mitologiche. Quando Antonioni realizzò questo documentario, la villa e il parco erano in completo degrado, invasi da erbacce e coltivazioni, non ancora restaurati e visitabili come sono oggi. Dopo aver brevemente illustrato l'origine della città e averne mostrato il castello e il tempietto edificato da Vicino Orsini in onore della propria amata, Giulia Farnese, la macchina da presa si aggira per il parco, fra animali e contadini, osservando statue di demoni, mostri, dei ed eroi che evocano le bizzarrie dell'Ariosto o della mitologia greco-romana, come se si trattasse di un giro turistico, con un narratore (la voce è di Arnoldo Foa) che commenta "spiritosamente" ogni cosa, fingendo di rivolgersi a un professore e a una classe di studenti e mescolando motti di spirito a citazioni letterarie e informazioni storiche. Ne risulta un guazzabuglio un po' confuso, se pur interessante per l'argomento trattato.

Sette canne, un vestito (M. Antonioni, 1949)

Sette canne, un vestito
di Michelangelo Antonioni – Italia 1949
*

Visto su YouTube.


Documentario sulla coltivazione della canna comune (Arundo donax) a Torviscosa, in Friuli-Venezia Giulia, e sulla sua lavorazione in fabbriche apposite per produrre prima cellulosa e poi una particolare fibra artificiale, la viscosa, materia prima per la fabbricazione di tessuti. Tali coltivazioni e fabbriche sorsero in larga scala durante il Fascismo, in piena era "autarchica", per essere poi dismesse negli anni sessanta. Ma dei documentari girati da Antonioni (o almeno di quelli ancora reperibili) è probabilmente quello di minor interesse, privo del benché minimo elemento artistico. Il titolo si riferisce al fatto che bastano sette canne per produrre materiale sufficiente a realizzare un vestito (il film si conclude con una breve sfilata di moda). I credits scrivono il nome di Antonioni come "Michelangiolo".

Superstizione (M. Antonioni, 1949)

Superstizione
di Michelangelo Antonioni – Italia 1949
con attori non professionisti
*1/2

Visto su YouTube.

Girato in un paese di campagna nelle Marche, attraverso una serie di quadretti il breve film illustra alcune credenze popolari degli abitanti delle zone più rurali ed arretrate dell'Italia del dopoguerra (quasi tutte donne, guarda caso): dallo specchio rotto che porta sette anni di guai ai rimedi più insoliti e "naturali" per guarire dalle malattie, dai maghi che predicono l'amore a quelli che, a seconda della richiesta, lanciano o cacciano il malocchio, per concludere con il rito di lasciare una moneta in tasca ai defunti per permettere loro di pagarsi il viaggio verso l'Aldilà. Il narratore descrive i vari "rituali" senza commentarli, in una sorta di indagine antropologica che il regista avrebbe voluto approfondire maggiormente (il progetto originale, boicottato dal produttore, era più ampio e articolato: il saggio "Il mondo magico" di Ernesto De Martino, uscito nel 1948, potrebbe essere stato una fonte di ispirazione) ma che alla fine si limita a presentare i riti "così come sono". Il risultato è inconcludente: non sapremo mai cosa sta alla base degli atti di superstizione che vediamo sullo schermo, o qual è la realtà sociale che li genera. Sono spunti lasciati a sé stessi, in un mondo fuori dal tempo e dalla logica.

L'amorosa menzogna (M. Antonioni, 1949)

L'amorosa menzogna
di Michelangelo Antonioni – Italia 1949
con Sergio Raimondi, Anna Vita
**

Visto su YouTube.

Curioso documentario sul mondo dei fotoromanzi, un genere di origine tutta italiana (tanto che in America sono chiamati con il termine italico "fumetti") che a partire dal dopoguerra ebbe un vero e proprio boom, con riviste – come "Bolero", "Sogno" o "Grand Hotel" – che vendevano milioni di copie, elargendo "sogni a buon mercato" a tanti lettori e (soprattutto) lettrici, visto che in gran parte raccontavano storie romantiche o melodrammatiche. Il corto mostra alcuni momenti della lavorazione di una di queste storie, su un set fotografico che ne ricorda in piccolo uno cinematografico (il genere è paragonato a "una specie di cinema tascabile"), ma soprattutto descrive la popolarità dei divi, assediati dalle lettere delle fan e fermati da queste per strada. Il narratore guarda al fenomeno un po' dall'alto in basso, come se si trattasse di un caso di costume di poco conto, come d'altronde la cultura italiana ha sempre guardato anche ai fumetti veri e propri (quelli disegnati). Antonioni tornerà sul tema qualche anno più tardi, quando un suo soggetto sarà alla base della sceneggiatura de "Lo sceicco bianco" di Fellini (che nei progetti iniziali avrebbe dovuto dirigere lui stesso: e sarebbe stato il suo esordio nel lungometraggio di finzione).

23 febbraio 2016

N.U. - Nettezza urbana (M. Antonioni, 1948)

N.U. - Nettezza urbana
di Michelangelo Antonioni – Italia 1948
con attori non professionisti
**1/2

Visto su YouTube.

Il secondo documentario di Antonioni, forse il migliore fra quelli da lui girati in quegli anni, mostra una giornata di lavoro degli spazzini di Roma, "umili e taciturni lavoratori" che fanno parte integrante della vita cittadina (anche se sembrano invisibili "come se la loro esistenza non ci riguardasse", come sottolinea nella sua introduzione una voce narrante che poi, fortunatamente, non si farà più sentire, lasciando che parlino soltanto le immagini). Dalla loro comparsa per le strade alle prime luci dell'alba, al lavoro ai quattro angoli di Roma, al momento della pausa per il pranzo e un breve riposino (davanti alle rovine archeologiche dei fori romani), fino al ritorno a casa la sera, la pellicola mostra quell'attenzione agli sfondi e agli scenari in cui si muovono le persone che rimarrà una caratteristica importante del cinema di Antonioni sin dai primi lungometraggi (più che i personaggi in sé, a volte sembra interessargli soprattutto il loro rapporto con l'ambiente). Le immagini e le scene (alcune delle quali forse ricreate a beneficio della macchina da presa) sono accompagnate da un commento musicale, curato da Giovanni Musco, che alterna una lenta sonata per pianoforte al ritmo di un'orchestrina jazz.

Gente del Po (M. Antonioni, 1947)

Gente del Po
di Michelangelo Antonioni – Italia 1947
con attori non professionisti
**

Visto su YouTube.

Le prime esperienze alla regia di Michelangelo Antonioni, già entrato nel mondo del cinema come sceneggiatore, furono come autore di una serie di brevi documentari (di circa dieci minuti ciascuno) usciti nel dopoguerra, anche se al primo di questi – "Gente del Po", appunto – aveva cominciato a lavorare già nel 1943. Il film fu poi completato, integrato con nuovo materiale (parte di quello vecchio era ormai rovinato o distrutto) e montato nel 1947. I luoghi sono quelli che il regista conosceva bene: le acque del Po fra l'Emilia-Romagna e il Veneto, dove il fiume è navigabile ed è solcato da carovane di barconi che trasportano merci, a bordo delle quali vivono intere famiglie. Ma il film si focalizza anche su coloro che questi barconi li vedono transitare e scendere verso il mare – gli abitanti delle rive e dei paesi vicini – e mostra gli argini, i campi, le chiuse, le case adiacenti. Ne risulta un documentario antropologico, con influenze neorealiste, ma che si tiene a pudica distanza, evita ogni facile lirismo e osserva da lontano anziché intrufolarsi a forza in ciò che vuole mostrare. La narrazione è fornita da una voce femminile, che occasionalmente usa anche termini dialettali.

22 febbraio 2016

Brick (Rian Johnson, 2005)

Brick - Dose mortale (Brick)
di Rian Johnson – USA 2005
con Joseph Gordon-Levitt, Nora Zehetner
**1/2

Visto in divx.

Lo studente Brendan (Gordon-Levitt) indaga sulla morte della sua ex ragazza Emily, tossicodipendente che due giorni prima di sparire gli aveva chiesto aiuto. Con l'aiuto dell'amico Brain (Matt O'Leary), che gli fornisce informazioni e lo consiglia a distanza, scopre che Emily frequentava una gang di spacciatori guidata dal misterioso "Perno" (Lukas Haas), al suo interno è in corso una lotta di potere a causa di un panetto di droga non tagliata. In cerca dell'assassino della ragazza, Brandan riesce a farsi accogliere nella banda. Ma di chi fidarsi veramente? Forse di Laura (Nora Zehetner), la ragazza più desiderata della scuola, che però sembra invischiata a piene mani nella vicenda? O di Tug (Noah Fleiss), il braccio destro e "picchiatore" del Perno, che pare nascondere un segreto? Intrigante giallo di ambientazione studentesca ma girato in stile hard-boiled (siamo inconfondibilmente dalle parti di Dashiell Hammett e Raymond Chandler), compresi i toni cinici e cupi, i personaggi archetipici, le donne fatali e la complessità narrativa. Nonostante il setting contemporaneo (è ambientato nelle desolate periferie di una tipica cittadina californiana) e protagonisti che vanno al liceo o al college (tanto che anche i più cattivi vivono ancora con la mamma o leggono Tolkien), non si tratta di una parodia o di una satira ma di un noir con tutte le carte in regola, anche se sulle prime può lasciare lo spettatore un po' disorientato (ma basta poco per rendersi conto che ogni personaggio del film corrisponde a una figura classica delle detective story: il vicepreside, per esempio, è il commissario di polizia, la cheerleader è la dark lady). Girato in venti giorni e a basso budget (praticamente sono stati pagati solo gli attori), il film segna il debutto di Rian Johnson (anche sceneggiatore), futuro regista di "Looper" e del prossimo "Star Wars - Episodio VIII". Alla sua uscita in sala, il titolo italiano era "Brick - La roba", poi modificato per la distribuzione in home video.

20 febbraio 2016

Quintet (Robert Altman, 1979)

Quintet (id.)
di Robert Altman – USA 1979
con Paul Newman, Vittorio Gassman
**1/2

Rivisto in divx.

In un lontano futuro, con la Terra ricoperta dai ghiacci e la popolazione ormai sterile e ridotta ai minimi termini, un cacciatore di foche, Essex (Paul Newman), torna nella città che aveva abbandonato dodici anni prima. Qui trova uno scenario desolante, con i cani che divorano i cadaveri nelle strade, le vestigia della civiltà imprigionate fra i ghiacci e le strade decorate da sbiadite gigantografie del passato. L'unica attività rimasta è il Quintet, una sorta di gioco da tavolo che, con le sue cinque fasi, simboleggia la vita stessa, e le cui regole all'interno della pellicola sono appena accennate: a una prima parte ad "eliminazione" fra cinque giocatori, ne segue una seconda dove un sesto è pronto a sfidare il superstite. Quando suo fratello rimane ucciso in un'esplosione, a causa della quale muore anche la sua giovane compagna (incinta!), Essex scopre che in città è in corso un torneo "clandestino" di Quintet dove i giocatori, per primeggiare, devono realmente uccidersi fra loro. Per indagare si sostituisce a uno di essi, assumendone l'identità ed entrando a far parte di un meccanismo pericoloso, costeggiato di alleanze, tradimenti, spietatezze e paranoie... Insolita pellicola di fantascienza post-apocalittica, vagamente ispirata a "La settima vittima" di Sheckley, un unicum nella carriera di Robert Altman che non ebbe alcun successo al botteghino o presso la critica ma che meriterebbe almeno in parte di essere rivalutato – nonostante caratteristiche indubbiamente poco accattivanti (il ritmo quasi soporifero, un messaggio cinico e pessimista) – se non altro per l'aspetto estetico e formale e per il notevole cast internazionale, che oltre a Newman comprende Vittorio Gassman (il giocatore/predicatore Saint Christopher), la bergmaniana Bibi Andersson, il buñueliano Fernando Rey (l'arbitro del gioco), la francese Brigitte Fossey e la danese Nina van Pallandt. Evidente l'intento di ammiccare ai fan del cinema d'autore, come testimonia, oltre al cast, anche il sottotesto filosofico o allegorico della vicenda: si potrebbe paragonare a "Il settimo sigillo", con il Quintet che sostituisce gli scacchi e il giudice-demiurgo interpretato da Rey al posto della Morte. Purtroppo la pellicola soffre anche per una certa pretenziosità (vedi anche la bislacca idea di sfumare i bordi dell'inquadatura, come se sulla macchina da presa fosse applicata una lente o un filtro, per contribuire al senso di torpore e di disperazione che avvolge gli abitanti di un mondo che sta per morire) e per una narrazione un po' prevedibile (che sia in atto una partita di Quintet "dal vivo" è evidente allo spettatore quasi da subito, mentre Essex lo scopre solo alla fine). Interessanti i costumi, che nella loro pesantezza mostrano foggie medievali o rinascimentali, come a sottolineare la regressione della civiltà in seguito all'era glaciale (testimoniata anche dal poco che resta, spesso travisato, del mondo precedente: dai sistemi computerizzati ai riti religiosi). La colonna sonora, ricca di percussioni e di sonorità aspre, è di Tom Pierson.

18 febbraio 2016

La conversa di Belfort (R. Bresson, 1943)

La conversa di Belfort (Les anges du péché)
di Robert Bresson – Francia 1943
con Renée Faure, Jany Holt
***

Visto in divx.

In un convento domenicano, le suore accolgono abitualmente fra loro le ex carcerate che escono dalla vicina prigione e che intendono abbracciare una nuova vita. Una novizia, Anna Maria, ragazza di buona famiglia che ha scelto di diventare suora per aiutare le peccatrici a "trovare la serenità", si prende a cuore in modo particolare la sorte di Teresa, ex galeotta ribelle e indisciplinata, che però è entrata in convento non per vocazione ma per nascondersi dalla polizia: il giorno stesso in cui era uscita di galera, infatti, ha assassinato l'uomo che l'aveva incastrata per un furto che non aveva commesso. Buona e semplice, ma anche testarda e ostinata, Anna Maria dedica tutta sé stessa alla "redenzione" di Teresa, apparentemente senza successo: anzi, la sua eccessiva dedizione la porta a trascurare gli altri doveri e le mette contro le sue stesse sorelle, che la reputano orgogliosa e piena di sé. Fomentate in parte anche dalla "distruttrice" Teresa, nel convento nascono così tensioni, zizzannie e gelosie... Ma il "percorso parallelo verso la grazia" di Anna Maria e Teresa si concluderà insieme. Girato mentre la Francia era sotto l'occupazione tedesca, il primo lungometraggio di Bresson è ancora lontano dal suo stile asciutto e minimalista, si serve di attori professionisti e mostra più di qualche concessione al melodramma (tutti aspetti che tenderanno a sparire dal suo cinema dopo un paio di film). Eppure, per l'ambientazione e i temi religiosi (su tutti il sacrificio, la redenzione e la lotta fra bene e male), il rigore formale e l'austerità della messa in scena, già prefigura molto di quel che verrà. Alla sceneggiatura ha collaborato anche un prete domenicano, Raymond Leopold Bruckberger, insieme al drammaturgo Jean Giraudoux e a Bresson stesso.

17 febbraio 2016

Salomè (Ugo Falena, 1910)

Salomè
di Ugo Falena – Italia 1910
con Vittoria Lepanto, Ciro Galvani
**

Visto su YouTube.

Ispirato alla vicenda di Salomè come raccontata da Oscar Wilde (o almeno così affermarono i produttori) – dalla sua infatuazione per Giovanni Battista (imprigionato, nella prima scena, in un pozzo sotterraneo dai soldati romani) che la respinge, alla "danza dei sette veli" di fronte al re Erode, in cambio della quale chiede al sovrano di consegnarle la testa di Giovanni su un piatto d'argento – il film (un rullo di durata, per un totale di circa otto minuti) si colloca nel bel mezzo del primissimo periodo del cinema italiano (1905-1915), dominato da soggetti di natura storica, biblica ed epica e che culminerà in "Cabiria". La caratteristica più interessante è la colorizzazione (con il procedimento della Pathé Film), che dona spessore e consistenza alle immagini, anche grazie ai set moderatamente sontuosi ed esotici. Non ci sono dialoghi né cartelli, eppure le caratteristiche dei vari personaggi (lo zelo religioso di Giovanni, l'esuberanza di Salomè, la crudeltà di Erode) e le dinamiche fra di loro sono ben rese, così come lo scenario, pur nella povertà di linguaggio cinematografico (la messinscena consiste in inquadrature statiche, i margini del proscenio sono intuibili). Falena, impresario teatrale, drammaturgo e occasionale librettista d'opera, diresse numerosi film storici nel periodo del muto fra il 1909 e il 1924.

16 febbraio 2016

La ballata di Cable Hogue (Sam Peckinpah, 1970)

La ballata di Cable Hogue (The Ballad of Cable Hogue)
di Sam Peckinpah – USA 1970
con Jason Robards, Stella Stevens
***1/2

Rivisto in DVD.

Abbandonato nel deserto senz'acqua dai suoi due compagni, il cercatore d'oro Cable Hogue (Robards) riesce a scampare alla morte trovando una sorgente "dove non c'era", ossia nel bel mezzo di una distesa arida e inospitale. L'uomo non tarda a rendersi conto che in quel luogo l'acqua è più preziosa dell'oro. E infatti, dopo una breve visita nella città vicina per farsi registrare la proprietà del terreno e cercare finanziatori, diventa il titolare della concessione di una stazione di posta per le corriere di passaggio. Il tutto mentre "corteggia" la prostituta locale, Hildy (Stella Stevens), e attende con pazienza di ritrovare gli uomini che lo avevano abbandonato, per vendicarsi. Subito dopo la violenza e il dramma de "Il mucchio selvaggio", Peckinpah realizza il suo film più leggero e affabile, dall'andamento (come sottolinea il titolo) quasi musicale. Pur affrontando in maniera realistica molti temi tipici del western (la vendetta, la giustizia, la ricerca della ricchezza), "La ballata di Cable Hogue" è un film a tratti comico-farsesco (ci sono persino scene accelerate, come nelle comiche mute), con un protagonista umanissimo che nella sua schiettezza e semplicità di spirito ricorda il Popeye (Braccio di Ferro) di Segar, e tanti personaggi-macchiette che sembrano uscire da una commedia o da una parodia: il bizzarro predicatore Joshua (David Warner), fondatore di una sua parrocchia "personale" e sempre a caccia di gonnelle; i due ex compagni di Cable (Strother Martin e L. Q. Jones); i notabili del vicino villaggio (il gestore delle corriere Quittner e il banchiere Cushing); e naturalmente Hildy, la prostituta dal cuore d'oro. L'incipit con i titoli di testa, caratterizzati dall'uso dello split screen, introduce la bella canzone di Richard Gillis e Jerry Goldsmith "Tomorrow is the Song I Sing" (il tema di Hogue; ma ogni personaggio ha una sua canzone). Nel finale, l'arrivo delle prime automobili rappresenta la fine del Vecchio West e l'arrivo di un nuovo progresso, destinato a "passare sopra" gli uomini che hanno costruito la frontiera e che ora sono troppo vecchi e inutili per il mondo che si sta formando. In questo senso, la morte di Cable è simbolica quanto lo era quella dei membri del "Mucchio selvaggio" (e, se vogliamo, dei personaggi di "C'era una volta il west").

14 febbraio 2016

Harry ti presento Sally (Rob Reiner, 1989)

Harry ti presento Sally (When Harry Met Sally...)
di Rob Reiner – USA 1989
con Billy Crystal, Meg Ryan
***

Rivisto in TV, con Sabrina.

Per non essere un regista di punta, né tantomeno un "autore", è incredibile quanti grandi film abbia girato Rob Reiner, soprattutto nella prima parte della sua carriera. Grazie anche alla perfetta sceneggiatura di Nora Ephron, "Harry ti presento Sally" è uno dei classici della commedia romantica degli anni ottanta, forse il più celebre film sul filo sottile che lega l'amicizia e l'amore, e sui differenti modi in cui uomini e donne vedono il sesso e le relazioni sentimentali. Quella fra i due protagonisti è infatti la storia di una conoscenza casuale (e senza particolare simpatia) che, a dieci anni di distanza, si trasforma dapprima in una profonda amicizia (cosa che all'inizio sembrava impossibile, soprattutto al cinico Harry, convinto che "un uomo non può essere amico di una donna che trova attraente") e poi, lentamente ma in maniera evidente (a tutti prima che a loro stessi), in amore. I caratteri e i rispettivi modi di approcciarsi alla vita sembrerebbero essere opposti e in perenne conflitto: col tempo, però, le certezze giovanili lasciano il passo a una miglior conoscenza di sé stessi e degli altri (l'evoluzione dei personaggi è uno dei punti di forza del film). Dopo essere passati attraverso relazioni infelici, cominciano a confidarsi a vicenda progetti, paure e fantasie, oltre che discutere in generale della propria visione del mondo e dei rapporti di coppia (memorabile la scena cult del finto orgasmo al ristorante). Il tutto con la decisione di non andare a letto insieme per non "rovinare" il proprio affiatamento. I tentativi di "sistemarsi" con i rispettivi migliori amici si rivelano fallimentari (saranno invece i suddetti amici, interpretati da Carrie Fisher e Bruno Kirby, a convolare a nozze fra loro). E proprio quando finalmente prendono coscienza di essere innamorati l'uno dell'altro, le cose sembrano di colpo complicarsi: che Harry avesse ragione sull'amicizia fra un uomo e una donna? Oltre alla simpatia dei due protagonisti (che, fra le altre cose, hanno improvvisato diverse battute) e all'affascinante ambientazione newyorkese (c'è qualcosa di più romantico della New York autunnale o, soprattutto, invernale?), la pellicola può contare su dialoghi spigliati e amichevoli schermaglie fra due personaggi che il regista e la sceneggiatrice hanno modellato su sé stessi. A far da insolita cornice, una serie di brevi interviste a coppie di anziani coniugi che raccontano come si sono conosciuti (le storie sono reali, anche se sullo schermo sono reinterpretate da attori), giustificate dal fatto che il film, naturalmente, termina con un'intervista simile ai nostri Harry e Sally. Lieto fine a parte, ogni forma di sentimentalismo sdolcinato è assente o comunque corretta dall'ironia, da una punta di cinico realismo (la pellicola non si fa scrupolo di mostrare anche i lati meno luminosi delle relazioni, come litigi, separazioni, divorzi) e soprattutto da una fine psicologia di coppia. In poche parole, un perfetto manuale su come realizzare un chick flick che possa piacere anche ai maschi, con tanto di (poche) venature woodyalleniane. Citazioni ripetute ed esplicite a un altro grande film sull'amore e l'amicizia, "Casablanca", mentre le scene girate in split screen sono un evidente omaggio a "Il letto racconta". Billy Crystal era amico di lunga data di Reiner, mentre per Meg Ryan, allora agli esordi, fu il primo ruolo importante: curiosamente, né l'uno né l'altra erano le prime scelte per le rispettivi parti. La donna che al ristorante recita la celebre battuta "Quello che ha preso la signorina", Estelle Reiner, è la madre del regista, mentre Emily, giovane fidanzata di Harry per una serata, è la sua figlia adottiva Tracy. Nella ricca colonna sonora, imbottita di canzoni classiche, spicca "Let's Call the Whole Thing Off" di George Gershwin ("You like potayto, I like potahto...").

13 febbraio 2016

L'amore a vent'anni (aavv, 1962)

L'amore a vent'anni (L'amour à vingt ans)
di François Truffaut, Andrzej Wajda, Renzo Rossellini, Shintaro Ishihara, Marcel Ophüls – Fra/Ita/Gia 1962
**

Visto in divx.

Film a episodi sul tema dell'amore giovanile, voluto dal produttore Pierre Roustang e girato da un eterogeneo gruppo di cineasti di cinque diverse nazionalità: due promettenti registi allora a inizio carriera, il francese François Truffaut e il polacco Andrzej Wajda, appena reduci da grandi successi (rispettivamente "Jules e Jim" e "Cenere e diamanti"); due "figli d'arte", ovvero l'italiano Renzo Rossellini e il tedesco Marcel Ophüls; e uno scrittore e futuro uomo politico, il giapponese Shintaro Ishihara. Il film è da ricordare soprattutto per il primo segmento, quello di Truffaut, con il quale il regista riporta in scena il personaggio di Antoine Doinel, già protagonista del suo lungometraggio d'esordio ("I quattrocento colpi"), mostrandoci cosa ne è stato di lui dopo la conclusione del film precedente e tramutandolo, dunque, in un personaggio "vivo", che invecchia in tempo reale insieme al suo interprete, Jean-Pierre Léaud. La saga di Doinel, vero e proprio alter ego dello stesso Truffaut, continuerà nel corso degli anni con altri tre film (a partire da "Baci rubati" del 1968). Il tema musicale dei titoli di testa (con relativa canzone, ogni strofa della quale è cantata in una lingua diversa) è di Georges Delerue, mentre a fare da collegamento fra i vari segmenti ci sono anche delle fotografie scattate da Henri Cartier-Bresson. Da notare che non tutte le copie del film presentano gli episodi nello stesso ordine: di solito quello di Truffaut è sempre il primo, ma quello di Wajda a volte è il secondo e a volte l'ultimo.

"Parigi" (aka "Antoine e Colette"), di François Truffaut (***), con Jean-Pierre Léaud e Marie-France Pisier
Dopo la fuga dal riformatorio (al termine de "I quattrocento colpi"), Antoine Doinel è stato ripreso ed è passato da un istituto minorile a un altro. Ora, a 17 anni, è finalmente libero di vivere la propria vita da solo, senza dover più rendere conto a nessuno. Ha un appartamento in zona Place de Clichy, lavora in una fabbrica di dischi, continua a frequentare l'amico René e trascorre molto tempo al cinema o nelle sale da concerti. In una di queste conosce la giovane Colette, di cui si innamora a prima vista: per frequentarla più spesso, si trasferisce a vivere in una stanza proprio di fronte all'abitazione di lei, ma la ragazza non sembra volerlo considerare più di un semplice amico. A nulla serve entrare nelle grazie dei suoi genitori, che lo invitano spesso a casa. Alla fine l'infatuazione per Colette, il suo primo amore, si tramuterà per Antoine nella sua prima delusione sentimentale. Sketch delicato, introspettivo, psicologicamente raffinato, pieno d'affetto per un personaggio che ha perso l'innocenza dell'infanzia ma non ha ancora acquisito la consapevolezza dell'età adulta e che pertanto si getta allo sbaraglio in tutte le cose della vita. C'è anche l'inserimento di una scena girata ai tempi de "I quattrocento colpi" ma poi esclusa dal montaggio finale di quel film.

"Varsavia", di Andrzej Wajda (**1/2), con Zbigniew Cybulski e Barbara Lass
Allo zoo di Varsavia una studentessa, Basia, e il suo fidanzato, Wladek, assistono a quella che potrebbe essere una tragedia: una bambina cade nella fossa degli orsi polari. Basia invita Wladek a salvarla, ma tutto quello che il ragazzo riesce a fare è scattare delle fotografie con la sua macchina. A calarsi nella fossa, coraggiosamente, è un altro uomo, Zbyszek, che riesce a portare in salvo la piccola. Colpita dal suo coraggio, Basia "scarica" Wladek e se ne va con l'uomo, invitandolo a salire in casa sua per rimettersi in sesto dopo la brutta esperienza. Qui i due sono raggiunti dagli amici della ragazza, che organizzano una festa in onore dell'"eroe". Ben presto, però, le differenze generazionali vengono alla luce (Zbyszek, che ha combattuto durante la guerra, non si trova a proprio agio con i giovani studenti, e la cosa è reciproca: alla fascinazione subentra la noia). E al mattino, la ragazza è pronta a perdonare e a riappacificarsi con il fidanzato, che nel frattempo era rimasto sotto casa sua, fra la neve, per tutta la notte.

"Roma", di Renzo Rossellini jr. (*), con Eleonora Rossi Drago, Cristina Gaioni
Leonardo (Geronimo Meynier) decide di lasciare Valentina (Rossi Drago), la sua fidanzata ricca e dell'alta società, per restare al fianco di Cristina (Gaioni), ragazza povera che ha messo incinta. Gelosa, Valentina si reca a casa di Cristina per confrontarsi con lei e metterla in guardia: Leonardo, ormai abituato a una vita di agi, si stuferà presto di lei... Episodio banale e pure senza una conclusione vera e propria.

"Tokyo", di Shintaro Ishihara (*1/2), con Koji Furuhata e Nami Tamura
Hiroshi, giovane operaio timido e taciturno, si innamora di una ragazza che incrocia per strada quando va al lavoro. Non ha il coraggio di parlarle, così la pedina ogni giorno fino a casa. Alla fine, senza nemmeno essere venuto a conoscenza del suo nome, la pugnalerà: il ragazzo è infatti un serial killer, che uccide le donne che ama ("Solo così mi apparterrà per sempre"). Mah. Episodio notturno e angosciante, con musica di Toru Takemitsu.

"Monaco", di Marcel Ophüls (**), con Christian Doermer e Barbara Frey
Toni, un giovane fotoreporter, sempre in giro per il mondo, trova il tempo di tornare a Monaco di Baviera per un giorno per far visita a Ursula, la ragazza che gli ha appena dato un figlio. I due, che si erano incontrati a una festa e avevano trascorso pochi giorni insieme, quasi non si conoscono. Ma la breve visita aiuterà Toni a responsabilizzarsi: arrivato con l'intenzione di riconoscere il figlio ma di chiudere lì la storia, ripartirà deciso a formare con la ragazza una vera famiglia.

10 febbraio 2016

The hateful eight (Quentin Tarantino, 2015)

The Hateful Eight (id.)
di Quentin Tarantino – USA 2015
con Samuel L. Jackson, Kurt Russell
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina e Paola.

Per sfuggire a una terribile tempesta di neve, otto uomini (e una donna) si rifugiano in un emporio sperduto nel bel mezzo del Wyoming. Siamo qualche anno dopo la conclusione della guerra civile americana (le cui conseguenze si fanno ancora sentire), in una frontiera dove la legge e la giustizia faticano ancora ad arrivare. La donna è Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), condannata a morte per omicidio e prigioniera del cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell), detto "Il boia" perché porta sempre le sue prede vive fino alla forca, che la sta scortando verso la cittadina di Red Rock, dove sarà impiccata. Gli altri uomini sono il maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), già soldato yankee e ora a sua volta cacciatore di taglie; Chris Mannix (Walton Goggins), già guerrigliero sudista e ora futuro sceriffo di Red Rock; Osvaldo Mobrey (Tim Roth), eccentrico boia della cittadina; Joe Gage (Michael Madsen), un misterioso mandriano; il generale Sanford Smithers (Bruce Dern), anziano veterano sudista; il messicano Bob (Demián Bichir), gestore della locanda; più il cocchiere O.B. Jackson (James Parks). Costretti a condividere il locale mentre fuori la bufera infuria, ben presto risulta chiaro a tutti che qualcuno fra loro non è chi dice di essere: che si tratti di un complice di Daisy, giunto lì con l'intenzione di uccidere John Ruth e di liberarla? La situazione, poi, è resa ulteriormente tesa dai contrasti fra il nero Warren, che durante la guerra si è stato il responsabile della morte di numerosi soldati confederati, e il rancore o l'odio provato verso di lui da Mannix e soprattutto dal generale Smithers. Le alleanze si formano e si disfano in un attimo, ai seconda dei sospetti e della fiducia, fino a quando le carte non vengono messe in tavola e scoppia la carneficina...

Al suo secondo western di fila dopo "Django Unchained" (ma come al solito la pellicola è in realtà un miscuglio di generi, come testimoniano le fonti di ispirazione: dal giallo alla Agatha Christie di "Dieci piccoli indiani" all'horror fra le nevi de "La cosa" di Carpenter, film che non a caso vedeva proprio Kurt Russell fra i protagonisti), Tarantino realizza un film ambientato (quasi) tutto in una stanza, sfruttando i vasti panorami innevati soltanto come ambiente ostile che circonda i personaggi e li costringe a fare i conti con sé stessi, le loro alleanze e le loro idiosincrasie. I temi della verità, della fiducia e della giustizia nascondono un desiderio di morte e di odio che permea quasi tutti (il titolo della pellicola, oltre a risultare un ironico spoof di celebri western quali "I magnifici sette", potrebbe essere tradotto "Gli odiosi otto" ma anche "Gli otto pieni d'odio"), che per motivi di razza, di denaro, di opportunità o di famiglia sono pronti a mentire o a compiere le maggiori nefandezze. Lungo (quasi tre ore) e a tratti lento (il compiacimento e l'eccessiva verbosità portano il regista a trascinare un po' troppo alcune scene che avrebbero potuto essere raccontate in maniera più secca ed efficace: vedi, per esempio, il flashback sull'arrivo della prima diligenza all'emporio), il film punta quasi tutto sulla caratterizzazione dei personaggi, sostenuta peraltro da ottimi attori, che però per molti di loro non va oltre un certo schematismo quasi caricaturale. Anche i dialoghi risultano molto di maniera, benché sfiorino temi a 360 gradi, di natura politica e sociale: qualche critico ha affermato che è come se nell'emporio del film si fosse rifugiata l'intera nazione americana. Nel complesso, comunque, il personaggio più riuscito mi è parso quello interpretato da Kurt Russell.

La pellicola è divisa in capitoli, con alcune sorprese: nel quarto e nel quinto capitolo (di sei), irrompe una voce narrante (in originale dello stesso Tarantino) che si rivolge allo spettatore ma che in precedenza era assente. Molto bella la colonna sonora di Ennio Morricone (è la prima volta che Tarantino si affida a una soundtrack originale), quasi da thriller psicologico più che da western, che in certi passaggi evoca il cinema di Hitchcock e De Palma. E a proposito di Hitchcock: memorabile la scena in cui si vede una mano in primo piano versare il veleno nel bricco del caffè, azione sottolineata dal narratore e prodromo a una sequenza, questa sì, colma di suspense perché per una volta lo spettatore sa qualcosa che i personaggi ignorano. Nel cast anche Channing Tatum (Jody, il fratello di Daisy Domergue) e la stuntwoman Zoë Bell (la cocchiera Judy). Le scene iniziali, con i paesaggi innevati attraversati dalla carrozza, ricordano "Il grande silenzio" di Corbucci (anche quello musicato da Morricone), mentre un'altra fonte di ispirazione potrebbe essere stata il misconosciuto "La notte senza legge" di André De Toth. Eppure, per una volta, forse il regista americano ha voluto citare soprattutto sé stesso. Il meccanismo di tutta la pellicola è infatti simile a quello del film d'esordio di Tarantino, "Le iene", con cui ha davvero molto in comune: uomini chiusi in un edificio, false identità, una carneficina finale (e anche attori come Tim Roth e Michael Madsen). Ma il gioco non funziona allo stesso modo, e la tensione è sostituita da una violenza sopra le righe e talmente splatter da non poter essere facilmente presa sul serio. Una curiosità: nella scena in cui Kurt Russell distrugge la chitarra di Daisy, per errore è andato in pezzi un preziosissimo strumento del 1800, prestato ai cineasti da un museo: la reazione d'orrore dell'attrice che si vede sullo schermo è del tutto reale!

9 febbraio 2016

Delicatessen (Jeunet, Caro, 1991)

Delicatessen (id.)
di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro – Francia 1991
con Dominique Pinon, Jean-Claude Dreyfus
**1/2

Rivisto in divx.

In un mondo post-apocalittico, dove la mancanza di risorse ha spinto l'umanità alla fame e il baratto ha sostituito l'uso del denaro, gli inquilini di un enorme caseggiato di periferia sopravvivono grazie al macellaio (Dreyfus) che ha il suo negozio nel palazzo e che uccide sconosciuti per farli a pezzi e vendere la loro carne. Louison (Pinon), ex clown che ha risposto ingenuamente a un annuncio sul giornale (una stanza in affitto in cambio di piccoli lavoretti da effettuare nel condominio), rischia di essere la sua prossima vittima: ma Julie (Marie-Laure Dougnac), la timida figlia del macellaio, se ne innamora, e per salvarlo chiederà aiuto ai "Trogloditi", una comunità clandestina di vegetariani che vive nei sotterranei della città. Comico, grottesco, surreale e parodistico (a partire dal titolo, che non è altro che il nome del negozio del macellaio), è il lungometraggio d'esordio della coppia Jeunet-Caro, in precedenza autori di tre cortometraggi (di cui due in animazione): nei titoli di testa, il primo figura come responsabile della "messa in scena" e il secondo della "direzione artistica". Le future carriere confermeranno che è Jeunet il vero regista. Più che sulla trama da cartoon, semplice e lineare, la pellicola punta le sue carte sulle dinamiche fra i personaggi (i vari inquilini del caseggiato, tratteggiati in modo caricaturale e grottesco: dal vecchio che vive da solo in soffitta e alleva lumache e rane per "non dipendere da nessuno", alla donna che "sente le voci" e tenta ripetutamente il suicidio, dalla coppia di bambini pestiferi che giocano scherzi a tutti, alla ragazza piacente (Karin Viard) che si concede periodicamente al macellaio in cambio di cibo) e sull'aspetto visivo, graziato dalla fotografia colorata di Darius Khondji e dalle scenografie retrò. Se il sodalizio con Marc Caro durerà ancora un solo film ("La città dei bambini perduti"), l'attore Pinon e il montatore Hervé Schneid rimarranno collaboratori costanti di Jeunet anche nei lavori successivi.

8 febbraio 2016

Time lapse (Bradley King, 2014)

Time Lapse (id.)
di Bradley D. King – USA 2014
con Matt O'Leary, George Finn, Danielle Panabaker
**

Visto in divx, con sottotitoli.

Tre giovani coinquilini scoprono che nell'appartamento del vicino di casa, uno scienziato da poco scomparso, c'è una strana macchina puntata contro la loro finestra che scatta una polaroid, alle 8 di ogni sera, mostrando il loro soggiorno 24 ore nel futuro. All'inizio sconvolti, cominciano però a usare le fotografie per interessi personali: uno di loro per giocare alle corse, appendendo sulla finestra cartelli con i risultati del giorno in modo da conoscerli in anticipo; un altro – un pittore in crisi di ispirazione – per mostrare a sé stesso i dipinti che realizzerà nel corso della giornata... Film indipendente e a basso costo che segna il debutto del filmmaker Bradley D. King (anche co-sceneggiatore): se qualcuno lo ha paragonato a un episodio de "Ai confini della realtà", a tratti sembra invece un incrocio fra il classico "Avvenne domani" di René Clair e "Piccoli omicidi fra amici" di Danny Boyle. Fra i tre ragazzi, infatti, cominceranno a nascere paure, gelosie e paranoie che finiranno col porli l'uno contro l'altro. In mezzo a questo, i "soliti" paradossi causali che sorgono quando si traffica con il tempo: in particolare, le azioni dei protagonisti vengono influenzate dalla foto del giorno successivo (sono convinti che trasgredire a quello che si è visto possa causare la loro morte, come nel caso dello scienziato), portandoli a compiere azioni che normalmente non avrebbero intrapreso, anche se poi la foto è il frutto di quelle stesse azioni. Per non parlare dei dipinti di Finn: da dove nasce la sua creatività, se non fa altro che riprodurre quadri che però lui stesso ha dipinto? Se le premesse sono intriganti, comunque, lo sviluppo arranca. E il finale, pur non barando, cambia un po' le carte in tavola. In ogni caso, più accessibile e meno cervellotico di "Primer", altra recente pellicola indipendente sui viaggi nel tempo. Regia e recitazione di buon livello, ma più televisive che cinematografiche.

7 febbraio 2016

Mimic (Guillermo del Toro, 1997)

Mimic (id.)
di Guillermo del Toro – USA 1997
con Mira Sorvino, Jeremy Northam
*1/2

Visto in divx.

Tre anni dopo aver debellato una terribile epidemia portata dagli scarafaggi grazie a una specie di insetto modificata geneticamente e utilizzata come agente biologico, l'immunologo Jeremy Northam e l'entomologa Mira Sorvino scoprono che alcuni individui di quella specie sono sopravvissuti (nonostante fossero stati programmati come sterili) e sono mutati in maniera mostruosa e inquietante. Il metabolismo accelerato degli insetti, infatti, ne ha velocizzato l'evoluzione. E la capacità di "mimare" i loro predatori, in questo caso l'uomo, li ha trasformati in un gigantesco ibrido uomo-insetto che ora infesta i sotterranei e i tunnel in disuso della metropolitana di New York. Il secondo lungometraggio di Guillermo Del Toro, al suo primo lavoro negli Stati Uniti, è un fanta-horror a tinte cronenberghiane e che richiama a tratti il mix fra azione e claustrofobia di "Alien", ma che dopo un promettente inizio non sfugge alle trite logiche del film da totomorti (il gruppo di persone in pericolo in un luogo chiuso: assieme ai due protagonisti ci sono l'immancabile poliziotto nero, due piccoli ladruncoli, e un anziano ciabattino con figlio autistico). Buoni gli spunti di partenza (la passione del regista per gli insetti era evidente sin dal suo film d'esordio, il messicano "Cronos") e il focus sui bambini, per non parlare dell'aspetto visivo, ma per lunghi tratti ci si annoia e di brutto. A onor del vero, Del Toro ha lamentato di non aver potuto gestire il montaggio finale, dichiarandosi insoddisfatto del risultato (nel 2011 è comunque uscita una "Director's Cut"). Nel cast anche Josh Brolin, Giancarlo Giannini e F. Murray Abraham. Con due seguiti direct-to-video (non di Del Toro).

6 febbraio 2016

La parte degli angeli (Ken Loach, 2012)

La parte degli angeli (The Angels' Share)
di Ken Loach – GB/F/I/B 2012
con Paul Brannigan, John Henshaw
**1/2

Visto in DVD, con Sabrina.

Robbie (Branningan), teppista di Glasgow che ha sempre condotto una vita problematica, vorrebbe mettere la testa a posto, anche perché sta per diventare padre. Ma non è facile, visto che nessuno sembra disposto a dargli fiducia. Condannato a trecento ore di lavori socialmente utili in seguito a una rissa, fa la conoscenza del bonario Harry (Henshaw), che lo prende sotto la propria ala protettiva e, fra le altre cose, lo introduce al mondo della degustazione del whisky. L'occasione della riscossa giungerà quando verrà a conoscenza dell'imminente vendita, in un'asta esclusiva, di un barile di preziosissimo whisky invecchiato oltre quarant'anni, particolarmente bramato dagli appassionati... Di solito apprezzo Loach a corrente alternata, trovando alcuni suoi lavori troppo schematici e manichei, ma mi sembra che il regista – che pure non rinuncia mai a ritrarre il mondo dei più deboli e degli emarginati, e soprattutto il contesto sociale di povertà e disoccupazione in cui si muovono – dia il meglio di sé quando, più che lanciare un messaggio, si "limiti" a raccontare una storia, meglio se condita da una venatura leggera e ottimista, all'insegna della redenzione, come nel caso de "Il mio amico Eric" o del film in questione. La simpatia dei personaggi, l'insolito contesto "enologico" (da confrontare con "Sideways" di Payne, dove si degustavano vini in California!), il tema del riscatto dei perdenti e il valore dell'amicizia si fondono mirabilmente in una commedia realistica e non consolatoria, dove non tutto fila liscio ma ci si ingegna per trarre il meglio da ciò che si ha a disposizione, e dove per una volta la volontà e la solidarietà vengono ricompensate. In più, un setting inconfondibilmente e orgogliosamente scozzese, che fonde ambienti proletari (le periferie di Glasgow), scenari turistici (il castello di Edimburgo) e gli elementi più caratteristici della nazione (i kilt, i pub, e ovviamente il whisky). Premio della giuria a Cannes. Il titolo si riferisce a quella parte di distillato che evapora in modo naturale dai barili durante l'invecchiamento. Nella colonna sonora spicca la classica "I'm Gonna Be (500 Miles)" dei Proclaimers.

4 febbraio 2016

Il castello della purezza (A. Ripstein, 1972)

Il castello della purezza (El castillo de la pureza)
di Arturo Ripstein – Messico 1972
con Claudio Brook, Rita Macedo
***

Visto su YouTube, con sottotitoli inglesi.

Tratto dal libro "La carcajada del gato" di Luis Spota (a sua volta ispirato a fatti realmente avvenuti), un film inquietante e claustrofobico su un uomo che da 18 anni tiene reclusa in casa la propria famiglia (la moglie e tre figli), impedendo loro ogni contatto con il mondo esterno per "proteggerli" dalla malvagità e dalla corruzione che, a suo dire, imperano al di fuori. Severo e autoritario, Gabriel impone alla famiglia una rigida disciplina e impartisce punizioni per ogni mancanza da parte dei figli, rinchiudendoli in cellette nei sotterranei dell'edificio. I ragazzi, che non sono mai usciti dalla villa, cominciano a sviluppare istinti di ribellione, il che mette sotto pressione il genitore, progressivamente più paranoico, folle e violento. Come si vede, lo spunto è simile a quello del recente "Dogtooth" di Yorgos Lanthimos, ma i toni sono assai diversi: qui c'è più realismo e focalizzazione sulla figura del padre, mentre il film greco corre sul filo del paradosso e della metafora e si incentra maggiormente sui figli. La dimora della famiglia Lima è una villa lugubre e fatiscente, ormai consunta dal tempo e piena di infiltrazioni d'acqua (il che è ironico, visto che secondo Gabriel è invece il mondo esterno a essere corrotto). Al suo interno, padre e figli fabbricano pesticidi e veleno per topi, che l'uomo (l'unico che può uscire di casa: i vicini credono che viva da solo) vende poi nei negozi della zona. Ispirato dalla massima di Goethe "Un uomo con forte volontà forgia il mondo a suo desiderio", Gabriel ha voluto erigere attorno alla sua famiglia un "castello" per difenderli dai pericoli ma soprattutto per non farli contaminare dal resto dell'umanità. Curiosamente, "Il castello" è anche il nome di una elaborata trappola per topi che l'uomo progetta di costruire. E nei suoi discorsi, il parallelo fra uomini e topi è ripetuto ed esplicito: nella sua ossessiva ricerca di perfezione e purezza, Gabriel vede il resto dell'umanità come ratti, portatori di infezioni e di corruzione. Ancor più che misantropo, l'uomo è misogino e attribuisce la colpa di ogni peccato alle donne. Per questo insulta e maltratta anche sua moglie Beatriz, che pure gli è completamente sottomessa, e nonostante tutto continua ad amarlo e ad approvare la sua scelta di tenere rinchiusi i loro figli. Alla fine, probailmente, una vera liberazione è impossibile. Ripstein aveva mosso i suoi primi passi nel cinema come assistente (non accreditato) di Luis Buñuel durante le riprese de "L'angelo sterminatore": e questa pellicola, caratterizzata da un ritmo lento e da una progressiva costruzione della tensione, è paragonabile ai migliori lavori del maestro spagnolo nel mettere in scena una distorta versione delle regole sociali (che, a sia volta, produce altre distorsioni, come dimostra la scena dell'incesto fra fratello e sorella, ma soprattutto la relazione snaturata fra il carceriere e le sue confuse vittime, che nonostante tutto continuano ad amarlo o a rispettarlo fino alla fine).

3 febbraio 2016

La taverna della Giamaica (A. Hitchcock, 1939)

La taverna della Giamaica (Jamaica Inn)
di Alfred Hitchcock – GB 1939
con Charles Laughton, Maureen O'Hara
**1/2

Visto in divx.

A inizio Ottocento, lungo le coste frastagliate della Cornovaglia, un gruppo di banditi e pirati provoca ad arte il naufragio sugli scogli delle navi mercantili di passaggio per poterle saccheggiare impunemente, dopo aver sterminato tutti i marinai. La banda, che ha base nella malfamata "Taverna della Giamaica", è guidata dal taverniere Joss (Leslie Banks): ma all'insaputa dei suoi stessi uomini, egli è al soldo del nobile sir Humphrey Pengallan (Charles Laughton), il giudice di pace locale, che gli fornisce informazioni sulle rotte delle navi e nelle cui tasche finisce la maggior parte del bottino. L'arrivo nella taverna della giovane Mary (Maureen O'Hara, al primo ruolo importante della sua carriera), nipote orfana della moglie di Joss, Patience (Marie Ney), cambierà gli equilibri, anche perché la ragazza aiuterà – sia pure un po' controvoglia, non volendo coinvolgere la zia – Jem Traherne (Robert Newton), un agente al servizio del re che si è introdotto sotto copertura nella banda per smascherarne il vero capo. L'ultimo film di Hitchcock in patria prima del "gran balzo" a Hollywood, tratto da un romanzo di Daphne Du Maurier, è decisamente un lavoro in chiave minore, con una trama da fumetto o da romanzo avventuroso di serie B che solo a tratti riesce a tenere lo spettatore sulle spine. I critici dell'epoca, che non apprezzarono il tono della pellicola (più leggero rispetto alla cupezza del romanzo), lo considerarono "un film di Charles Laughton più che di Hitchcock", e a ben ragione: nonostante il cast piuttosto ampio, l'esuberante attore inglese – anche co-produttore – domina la scena nel ruolo del cattivo (molto ampliato rispetto al romanzo, dove fra l'altro era un prete e non un magistrato), avido e folle, a discapito di una protagonista femminile debole e poco caratterizzata, benché ricordi altri personaggi hitchcockiani che rimangono coinvolti in vicende più grandi di loro. Non mancano comunque spunti interessanti, a partire dall'ambiguità di molti personaggi, combattuti fra il bene e il male (come gli zii della protagonista). E il regista, come sempre, si diverte a caratterizzare con pochi tocchi anche le figure minori, dai vari membri della banda di Joss alla servitù di sir Humphrey (in particolare il valletto Chadwick, interpretato da Horace Hodges), creando un affresco tutto sommato gradevole e sottovalutato, se pur poco originale, anche grazie all'ambientazione e all'atmosfera quasi gotica. Hitchcock – che aveva accettato di dirigere il film, oltre che per il lauto compenso, anche per "rafforzare" i rapporti con la Du Maurier, della quale intendeva adattare un altro romanzo, "Rebecca", per il suo esordio a Hollywood – ebbe a lamentarsi delle continue interferenze di Laughton, che modificò a proprio piacimento la sceneggiatura e la caratterizzazione del suo personaggio. L'attore riporterà con sé la O'Hara in America per girare "Notre Dame".

2 febbraio 2016

Trash (Stephen Daldry, 2014)

Trash (id.)
di Stephen Daldry – GB/Brasile 2014
con Rickson Tevez, Eduardo Luis
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Tre bambini di una favela brasiliana, che vivono rovistando fra i rifiuti di una discarica, trovano un portafoglio contenente le prove della corruzione di un importante uomo politico. Presi di mira dalla polizia e dagli sgherri al servizio dell'uomo, riusciranno con ostinazione a seguire gli indizi che li porteranno fino alla verità. Da un romanzo di Andy Mulligan, adattato da Richard Curtis (ma che ci fa qui?), una storiellina banalotta e retorica sulla bontà degli innocenti e contro la corruzione dei potenti. La confezione patinatissima e i toni avventurosi non mascherano i veri intenti del film, che vorrebbe iscriversi nel filone di "City of God" (di cui è una versione edulcorata in tutto e per tutto) o, magari, di "Slumdog Millionaire" (pellicole di registi occidentali su realtà "povere" e del terzo mondo, che sarebbero però molto più efficaci se fossero state girate direttamente da cineasti del luogo). Non si capisce bene a chi è rivolto: i protagonisti bambini e il meccanismo della caccia al tesoro sembrano quelli di una pellicola per adolescenti, ma i contenuti socio-politici sono più da spettatore adulto e radical-chic. In ogni caso, paternalista, evitabile e dimenticabile: metafore di grana grossa (i poveri trattati come "spazzatura", e che infatti proprio nella spazzatura vivono e sguazzano), temi sociali qualunquisti, con accuse mai circostanziate, e finale lieto e scontato come non mai (ci sono persino i soldi gettati al vento). Nel cast, fra gli "adulti", Martin Sheen (il prete), Rooney Mara, Wagner Moura e Selton Mello.

31 gennaio 2016

Medea (Pier Paolo Pasolini, 1969)

Medea
di Pier Paolo Pasolini – Italia/Fra/Ger 1969
con Maria Callas, Giuseppe Gentile
***1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Dopo l'"Edipo Re" di due anni prima, Pasolini firma un altro adattamento cinematografico di una tragedia greca, scegliendo questa volta la "Medea" di Euripide, di cui realizza una versione impressionante sotto tutti i punti di vista. E in particolare sotto l'aspetto visivo: i colori, i costumi e le scenografie sovrastano a tratti le parole, soprattutto in una prima parte (quella che narra l'antefatto della tragedia, ovvero la nascita di Giasone, la sua ricerca del Vello d'Oro, l'arrivo nella Colchide dove lui e gli Argonauti vengono aiutati da Medea, e il ritorno a Corinto) fatta di silenzi, sguardi, canti e riti ancestrali. Fra questi spicca il sacrificio umano per donare fertilità ai campi, una sorta di abbattimento del capro espiatorio, veicolato da una religione pagana cui Medea appartiene in tutto e per tutto: non a caso, a sua volta, sacrifica il fratello e ne smembra il corpo pur di facilitare la fuga degli Argonauti, in una scena che dunque introduce da subito la parte più sanguinaria del personaggio, anche se in questo caso non è mossa da odio o rancore ma dall'amore. Il tutto esplicita nella maniera più efficace (e visiva) possibile il tema generale della natura violenta dell'uomo, addomesticata e incanalata attraverso i riti e la religione, ma pronta a riaffiorare in ogni momento se spinta da passioni come l'ira, la gelosia e la vendetta. Se la parte ambientata nella Colchide è stata girata da Pasolini in Cappadocia (i paesaggi mozzafiato, i campi e le pietre rendono meravigliosamente l'idea di un mondo lontano), per portare sullo schermo Corinto il regista ha scelto nientemente che la piazza dei Miracoli di Pisa, le cui architetture rinascimentali ben simboleggiano un regno più moderno e civilizzato. Non a caso Medea, donna appartentente a un mondo più "arcaico" e antico, vi si scopre spaesata. E di fronte al tradimento di Giasone, che la lascia con l'intenzione di sposare la giovane figlia del re Creonte, progetta una tremenda vendetta. Questa, curiosamente, viene (almeno in parte) mostrata sullo schermo due volte: Pasolini lascia infatti che Medea prima la immagini, come in una visione (in questo caso la veste che regala a Glauce prende fuoco), e poi la attui davvero (con una veste che la rende folle), ripetendo diverse sequenze pari pari. Allo stesso modo, nella Colchide, la donna aveva avuto una visione dell'arrivo di Giasone. In effetti – e questo spiega il carattere onirico e allucinatorio di diverse sequenze – il film inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi "Visioni della Medea".

Se Giasone è interpretato dall'atleta Giuseppe Gentile (medaglia di bronzo nel salto triplo alle Olimpiadi del 1968), per il ruolo di protagonista Pasolini scelse la cantante lirica Maria Callas (alla prima e unica esperienza come attrice cinematografica), sua grande amica, che non solo era greca per nascita, ma l'anno prima era stata lasciata da Aristotele Onassis: non aveva figli da uccidere né poteri magici, ma – chissà! – se avesse potuto, magari avrebbe incenerito volentieri Jacqueline Kennedy! In quanto nipote di Elio, Medea trae i suoi poteri magici dal Sole, e questo viene esplicitato in una scena. Una certa enfasi, però, viene data anche alla Luna, corpo celeste "femminile" per eccellenza, e se vogliamo collegato alla Callas attraverso la "Norma" di Bellini ("Casta diva..."). La luna, in generale, risveglia l'arcaico potere dentro la donna: anche dentro l'uomo, però, c'è un sapere antico, che nel film è rappresentato dal centauro Chirone, mentore di Giasone, che lo accompagna durante tutte le fasi della crescita all'inizio della pellicola (educandolo sul ruolo della natura e degli dei) e che poi ricompare in due distinte forme (centauro e umano), spiegandogli come i miti siano qualcosa che fa parte di lui, degli archetipi che accompagnano l'uomo anche in età adulta e civilizzata. La voce di Chirone (l'attore è il francese Laurent Terzieff) è di Enrico Maria Salerno. Furono doppiati anche Medea (Rita Savagnone) e Giasone (Pino Colizzi), che peraltro condividono ben pochi dialoghi in un film fatto di silenzi: il loro innamoramento, ma anche la separazione, è narrato per immagini, e l'unico momento in cui i due si confrontano a parole è nel finale, quando ormai la tragedia è compiuta. Il resto del cast comprende Massimo Girotti (Creonte), Margareth Clementi (Glauce) e Annamaria Chio (la nutrice). Qualche accenno merita anche la suggestiva colonna sonora, che come in "Edipo Re" Pasolini ha riempito di sonorità lontane ed arcaiche, compresa una preghiera giapponese. Nel complesso, un film ricco di forza e di significati che vanno al di là dei semplici eventi narrati, "universale" come lo erano le tragedie greche e come è il miglior cinema che sa superare i propri confini, opera non solo di un grande regista ma in generale frutto di una stagione in cui il cinema italiano (ed europeo) sapeva lanciare uno sguardo verso l'esterno, con un'attenzione ad altri mondi e altre culture e un approccio quasi etnografico (si pensi ai colori, ai costumi, ai canti) che fonde alla perfezione la profondità dei contenuti con la potenza delle immagini.

30 gennaio 2016

La bella scontrosa (Jacques Rivette, 1991)

La bella scontrosa (La belle noiseuse)
di Jacques Rivette – Francia 1991
con Michel Piccoli, Emmanuelle Béart
***

Visto in divx, per ricordare Jacques Rivette.

L'anziano pittore Frenhofer (Piccoli), da anni in crisi di ispirazione e ritiratosi a vivere in un castello in campagna (siamo nella regione della Linguadoca-Rossiglione), trova nella bella ma scostante Marianne (Béart), fidanzata di un suo giovane ammiratore, la modella ideale per riprendere in mano un progetto che aveva in mente da tempo: un ritratto della "Bella scontrosa", una cortigiana del millesettecento, che aveva inutilmente provato a realizzare dieci anni prima con la propria moglie Liz (Jane Birkin) come modella. Le lunghe sessioni di lavoro, in cui Marianne posa nuda per lui, si rivelano faticose e stressanti per entrambi. All'iniziale imbarazzo, ai dubbi e alle paure, si sostituiscono progressivamente dedizione e complicità, con i due – il pittore e la modella – che si sorreggono alternativamente e a vicenda, conducendo ora l'uno ora l'altra le regole del gioco. Nel loro progressivo andare sempre più lontano (l'obiettivo di Frenhofer, che cerca "la verità nella pittura", è quello di "catturare tutta la vita sulla tela di un quadro"), causano l'insorgere di gelosie e timori nei rispettivi compagni, mettendo in luce la fragilità dei loro legami: Liz, la moglie del pittore, comincia a sentirsi sostituita, mentre il rapporto fra Marianne e il fidanzato Nicolas (David Bursztein) si incrina irreparabilmente. Alla fine, quando il quadro è completato, si rivela un punto di non ritorno: la ragazza non sopporta la visione diretta del proprio "Io", così arido e freddo, mentre il pittore sceglie di murarlo di nascosto all'interno del proprio atelier, mostrando invece al mondo (e al mercante d'arte che lo acquista) un altro dipinto, falso e decisamente più innocuo. Liberamente ispirato a un racconto di Balzac ("Il capolavoro sconosciuto"), ambientato però ai giorni nostri, un film che indaga il rapporto fra l'arte (in quanto imitazione della natura) e la realtà (ossia la vita), oltre che sul processo artistico, sulla crisi e il risveglio creativo: una specie di "Ritratto di Dorian Gray" senza l'elemento fantastico, dove dipingere diventa un atto catartico e farsi ritrarre si trasforma in una seduta psicanalitica. Al fianco di un intenso Piccoli e di una dimessa Jane Birkin, l'affascinante Béart si mostra praticamente sempre nuda, ma in maniera assai naturale e mai sfacciata. Gilles Arbona è Porbus, il mercante d'arte. Del film, insignito a Cannes del Gran Premio della Giuria, esistono due versioni: una lunga (circa quattro ore, forse estenuante, ma più "avvolgente" e completa) e una breve (due ore, nota anche con il titolo "Divertimento"). Nelle inquadrature ravvicinate, la mano del pittore che si vede è quella di Bernard Dufour.

The Virginian (Cecil B. DeMille, 1914)

The Virginian
di Cecil B. DeMille – USA 1914
con Dustin Farnum, Winifred Kingston
**1/2

Visto su YouTube.

Primo adattamento cinematografico (ne seguiranno numerosi altri) de "Il Virginiano" di Owen Wister, considerato il primo romanzo western della storia (se si eccettuano le dime novel e i racconti brevi). Il protagonista, senza un vero nome, lavora come mandriano in un ranch del Wyoming insieme al suo miglior amico Steve, che però cade preda di cattive compagnie e si unisce a una banda di ladri di bestiame. Sarà proprio il Virginiano a guidare la posse che dà la caccia ai banditi, ritrovandosi così costretto a impiccare l'amico (curiosamente, e al contrario di ciò che insegneranno molti western in futuro, qui l'amicizia passa in secondo piano rispetto alla legge). In parallelo, la pellicola racconta la sua storia d'amore con Molly, maestra di scuola giunta nell'ovest in cerca di fortuna e che fatica ad adattarsi alla ruvida vita del west. Dopo un primo rullo francamente poco interessante, caratterizzato dagli scherzi infantili che il protagonista e l'amico giocano agli abitanti del villaggio (fra cui quello di scambiare i bambini nelle culle!), la storia prende il largo da metà film in poi, quando l'azione si sposta negli spazi aperti e negli scenari naturali del selvaggio nord-ovest, con il lungo inseguimento ai banditi sulle montagne e la resa dei conti nel finale (il classico duello nella main street con il capo della banda, Trampas, colui che aveva "corrotto" Steve). Dustin Farnum, già protagonista della pellicola d'esordio di DeMille, "The squaw man", nel 1904 aveva interpretato il Virginiano anche nella versione teatrale di Kirke La Shelle (da cui il film è tratto). Grazie a questi ruoli, rimarrà per una decina di anni uno dei più riconoscibili attori western. La regia di DeMille non è trascendentale, ma offre alcuni buoni momenti (come la scena dell'impiccagione, mostrata soltanto attraverso le ombre). In ogni caso, il film contribuì a rendere il pubblico conscio delle possibilità superiori che il cinema offriva rispetto al teatro, in particolare nell'uso degli ambienti esterni.

28 gennaio 2016

Alps (Yorgos Lanthimos, 2011)

Alps (Alpeis)
di Yorgos Lanthimos – Grecia 2011
con Angeliki Papoulia, Ariane Labed
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Dopo il successo di "Dogtooth", Lanthimos – sempre in coppia con il co-sceneggiatore Efthymis Filippou – realizza un altro film paradossale e bizzarro, anche se decisamente meno sconvolgente o d'impatto rispetto al lavoro precedente. La trama ruota attorno a un gruppo di quattro persone – un'infermiera, un portantino di ambulanza, una giovane ginnasta e il suo allenatore – che si sostituiscono a individui morti di recente, impersonandoli dietro pagamento per aiutare i loro cari ad elaborare il lutto in maniera più soft. Il nome della squadra è "Alpi" (per due ragioni, spiega il leader: perché non rivela nulla delle loro attività, e perché le montagne delle Alpi possono sostituire qualsiasi altra vetta ma a loro volta non possono essere sostituite... una spiegazione un po' fumosa, in effetti), mentre loro stessi si fanno chiamare Monte Bianco, Monte Rosa, Cervino e... Junior. Per meglio svolgere il loro compito, i membri del gruppo indagano su abitudini e caratteristiche di coloro che devono impersonare (per esempio, qual era il loro attore preferito). Fra coloro che li assumono, il film ci mostra un venditore di lampade che ha perso di recente la fidanzata canadese (e colei che la sostituisce è costretta a parlare in inglese), un'anziana vedova cieca il cui marito la tradiva con la sua migliore amica (e dunque viene "ricreato" anche il tradimento) e soprattutto i genitori di una giovane tennista morta in un incidente stradale. Il compito di impersonare quest'ultima ragazza è particolarmente conteso fra due dei membri di "Alpi" (l'infermiera e la ginnasta), al punto che la prima – Monte Rosa – nasconde ai compagni il fatto che sia morta e assume l'incarico per contro proprio, esacerbando le tensioni già presenti all'interno del gruppo (quelle fra la ginnasta e il suo allenatore, che sfociano addirittura in un tentativo di suicidio; il fatto che il severo leader non perdoni il minimo errore). Progressivamente Monte Rosa diventa dipendente da questo "gioco di ruolo", al punto da smarrire la propria identità: quando gli viene tolto l'incarico di impersonare la tennista, scopre di non poterne più fare a meno e finisce col fare effrazione in casa della ragazza pur di dormire nel suo letto. Se lo spunto alla base del film può ricordare una sottotrama minore di "Noriko's dinner table" di Sion Sono, il concetto di "ricreare" la realtà tramite la finzione e la recitazione sembra tornare dal primo film di Lanthimos stesso, "Kinetta": come in quello, o almeno parzialmente, la narrazione è volutamente enigmatica e la caratterizzazione si ferma spesso alla superficie dei personaggi. Soltanto dopo oltre mezz'ora di pellicola, infatti, ci viene rivelato cosa fanno i protagonisti (il regista sembra divertirsi a lasciare gli spettatori all'oscuro di ciò che accade veramente sullo schermo), i cui comportamenti sono peraltro spesso assurdi prima ancora che incomprensibili. La perdita dell'identità personale, trattandosi di un film di Lanthimos, rispecchia metaforicamente quella culturale o nazionale (innumerevoli sono infatti i riferimenti a icone del cinema, della musica o dello spettacolo americane od occidentali, mentre la cultura greca è quasi assente). Ma soprattutto la pellicola è un attacco alla moderna società consumistica, dove persino le emozioni e i rapporti con i propri cari possono essere venduti, acquistati o – quando si "rompono" – sostituiti. Tali emozioni, naturalmente, non possono che essere finte o "schermate" (si pensi alla maniera quasi robotica in cui le scene vengono recitate). L'attrice Angeliki Papoulia, che interpreta Monte Rosa, era presente anche in "Dogtooth" e la rivedremo (così come Ariane Labed) nel successivo "The lobster".

27 gennaio 2016

La cosa più dolce... (Roger Kumble, 2002)

La cosa più dolce... (The Sweetest Thing)
di Roger Kumble – USA 2002
con Cameron Diaz, Christina Applegate
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Christina (Diaz) – come le amiche e co-inquiline Courtney (Applegate) e Selma (Jane Burns) – passa da un uomo a un altro senza mai legarsi sentimentalmente, considerando il genere maschile come un divertimento "usa e getta". Tutto cambia quando conosce in discoteca il bel Peter (Thomas Jane), a San Francisco in occasione del matrimonio del fratello Roger (Jason Bateman), con il quale ha un breve litigio e che non riesce più a togliersi dalla testa. Al punto da coinvolgere Courtney in un viaggio in auto fuori città verso la cittadina dove si stanno per celebrare le nozze... solo per scoprire che lo sposo è Peter, e non suo fratello. Naturalmente, alla fine il matrimonio andrà a monte e Peter e Christina scopriranno di essere fatti l'uno per l'altra. Commedia "scollacciata" (con innumerevoli battute sul sesso) in stile "Una notte da leoni" ma al femminile, che unisce i temi dei classici chick flick a quelli del buddy movie on the road, ravvivata dalla verve delle protagoniste (in parallelo al viaggio di Christine e Courtney, ci sono le comiche disavventure di Selma con il suo nuovo ragazzo) e da una serie di gag che punteggiano una trama esile e prevedibile. Non mancano un paio di canzoni "osé" (come quella che coinvolge un intero ristorante). La sceneggiatrice Nancy Pimental avrebbe basato i personaggi di Christina e Courtney su sé stessa e sulla sua amica Kate Walsh. Il fidanzato di Courtney, nel finale, è interpretato dal regista James Mangold.

25 gennaio 2016

Revenant - Redivivo (Alejandro G. Iñárritu, 2015)

Revenant - Redivivo (The Revenant)
di Alejandro González Iñárritu – USA 2015
con Leonardo DiCaprio, Tom Hardy
***

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina.

Nel cinema hollywoodiano recente sembra esserci una tendenza a raccontare storie di sopravvivenza in ambienti ostili e in condizioni quasi impossibili. Dopo "Gravity" di Cuarón e "The martian" di Ridley Scott (entrambi di genere fantascientifico), anche Iñárritu – reduce dal successo di "Birdman" – offre il proprio contributo con una saga di coraggio e di vendetta, ambientata ad inizio ottocento negli scenari selvaggi e innevati del North Dakota, al confine fra Canada e Stati Uniti. Qui una spedizione di trapper e di militari in cerca di preziose pelli viene attaccata e sterminata da una tribù di indiani Arikara. I pochi sopravvissuti, guidati dall'esperto scout Glass (DiCaprio), cercano di riguadagnare la strada per il forte. Ma quando Glass viene ferocemente assalito da un gigantesco orso grizzly, i suoi compagni sono costretti a lasciarlo indietro, nel bel mezzo delle terre selvagge, per via delle sue gravi ferite. Fitzgerald (Hardy), il soldato incaricato di restare con lui per proteggerlo, decide di lasciarlo morire e di raggiungere gli altri al forte, non prima di aver pugnalato a tradimento il giovane figlio meticcio dello stesso Glass che voleva rimanere al suo fianco. Lo scout, però, riesce miracolosamente a sopravvivere: e sostenuto dal desiderio di vendetta, attraverserà vasti territori, cibandosi di radici e di resti di carcasse, evitando gli attacchi degli indiani (e dei francesi, le cui spedizioni sono in rivalità con quelle americane), fino a raggiungere colui che lo aveva abbandonato. Se nei suoi lavori precedenti Iñárritu aveva sempre puntato le carte maggiori sulla sceneggiatura (anche se pure non disdegna gli elaborati esercizi di stile: vedi in questo caso il sofisticato piano sequenza con cui apre il film, che mette in scena l'attacco degli indiani ai cacciatori di pelli), stavolta si affida alla forza del silenzio, alla potenza delle immagini, agli scenari mozzafiato e alla recitazione intensa e senza compromessi di un DiCaprio "fisico" come non mai (e che francamente si meriterebbe finalmente il suo premio Oscar). La natura è la vera protagonista del film, fra fiumi gelidi, laghi ghiacciate, montagne innevate, distese rocciose e un ambiente realistico e crudo (prima ancora che crudele), dove anche l'essere umano è ridotto alla sua matrice animale (e si comporta come un lupo o un orso). Il bianco della neve è spesso tinto dal rosso del sangue, che sia quello degli animali usati per la sopravvivenza (per cibarsi delle loro carni crude, o per scaldarsi con i loro corpi) o di quello degli stessi uomini, in lotta fra loro (le fazioni in campo sono tante: americani, francesi, indiani Arikara o Pawnee, quando non si lotta all'interno della stessa fazione, come nel caso di Glass contro Fitzgerald). A volte le immagini assumono una natura onirica e irreale, come nel caso delle "visioni" che Glass sperimenta durante la propria odissea (e in cui gli appare la sua defunta compagna come una sorta di "spirito guida"). Alcune sequenze, addirittura, ricordano il cinema di Tarkovskij (il sogno con la chiesa diroccata, soprattutto, ma anche il passaggio nel bosco di betulle). Il film è tratto "in parte" da un romanzo di Michael Punke, a sua volta ispirato al personaggio (vissuto realmente) di Hugh Glass. Il progetto iniziale era addirittura di Park Chan-wook (con Samuel L. Jackson come protagonista! Ne sarebbe uscita una tarantinata...). Nel cast anche Domhnall Gleeson (il capitano del forte) e Will Poulter (il giovane soldato).

23 gennaio 2016

Il ponte delle spie (S. Spielberg, 2015)

Il ponte delle spie (Bridge of Spies)
di Steven Spielberg – USA 2015
con Tom Hanks, Mark Rylance
**

Visto al cinema Arlecchino.

Nel 1957, in piena guerra fredda, il governo degli Stati Uniti identifica e cattura a New York una presunta spia russa, Rudolf Abel (Rylance). Il malcapitato compito di difenderla al processo tocca all'avvocato James Donovan (Hanks), che fa quel che può per garantirgli quei diritti costituzionali che nessuno sembra volergli riconoscere. Ma il coinvolgimento di Donovan non termina con la condanna di Abel: l'avvocato viene infatti incaricato di negoziare la sua consegna ai sovietici in cambio di un soldato americano, il pilota Francis Gary Powers (Austin Stowell), il cui aereo è stato abbattuto dai russi. Lo scambio, che giustifica il titolo del film, avverrà sul Ponte di Glienicke, tra Berlino Ovest e Berlino Est. Da una storia vera, un film che gronda retorica spielberghiana: in primis a favore della costituzione (con Donovan solo contro tutti, in un clima di caccia alle streghe: immancabili le scene con la famiglia e i bambini del protagonista messi in pericolo a causa della sua integerrimità), e poi – quando l'azione si sposta in Germania – nel mettere in luce le fondamentali differenze fra lo stile di vita americano e quello del blocco sovietico (la scena in cui Donovan assiste alla fucilazione dei disperati che tentano di scavalcare il muro di Berlino, appena costruito, è messa a confronto con quella analoga, nel finale, in cui attraversa i quartieri di Brooklyn a bordo della metropolitana). Agiografico (Donovan, come lo definisce lo stesso Abel, è un uomo "tutto d'un pezzo"), ideologico (come in "Salvate il soldato Ryan", ogni singolo americano, persino il più umile – lì un soldato semplice, qui lo studente Frederic Pryor, catturato dalla Stasi e che Donovan insiste nell'includere nello scambio – merita di essere salvato a ogni costo, anche correndo il rischio di mettere a repentaglio l'intera missione) e appunto retorico (le due scene nel vagone del treno in cui i passeggeri riconoscono il volto dell'avvocato dai giornali, biasimandolo o ammirandolo a seconda delle circostanze). Di tutti i personaggi, quello più interessante è proprio il "colonnello" Abel, la spia sovietica, con il suo fatalismo ("Servirebbe?" risponde quando gli si chiede se è preoccupato), la sua umanità, il suo basso profilo (è quanto mai lontano dalle classiche figure di spie alla James Bond), le sue abitudini (la pittura, il fumo): a differenza delle figure che Donovan incontra a Berlino, vere e proprie macchiette, contribuisce a dare una dimensione più tragica e umana alle dinamiche dell'epoca della guerra fredda. Impeccabili, come sempre quando si tratta di Spielberg, regia, fotografia e confezione in generale. La sceneggiatura, tesa quanto basta, è di Matt Charman e dei fratelli Coen.

21 gennaio 2016

Una giornata particolare (Ettore Scola, 1977)

Una giornata particolare
di Ettore Scola – Italia 1977
con Sophia Loren, Marcello Mastroianni
***1/2

Visto in divx, per ricordare Ettore Scola.

La "giornata particolare" è quella del 6 maggio 1938, data della visita di Adolf Hitler a Roma per incontrare Mussolini e suggellare l'alleanza fra Germania e Italia. La grande parata delle forze belliche italiane al cospetto dello stato maggiore tedesco, in via dei Fori Imperiali, catalizza l'attenzione e la presenza di quasi tutta Roma... E nel frattempo, nelle case rimaste vuote, avviene un "breve incontro fra due solitudini", quello fra due individui all'apparenza l'uno all'opposto dell'altro: la Loren è Antonietta, stanca madre di una famiglia numerosa (sei figli!), incolta, conformista (o meglio, che non ha mai messo in dubbio ciò che le viene inculcato) e perfettamente integrata nella retorica del regime (lei stessa conserva in un album le foto e le frasi più "machiste" del Duce); Mastroianni è Gabriele (come l'arcangelo?), scapolo, intellettuale, antifascista (o meglio, consapevole delle storture del regime), perseguitato perché gay, in procinto di essere mandato al confino e che medita propositi di suicidio. Eppure, bastano pochi minuti di conoscenza fortuita (l'uomo aiuta la donna a recuperare l'uccellino di casa, un merlo indiano, fuggito dalla gabbietta), di parole e di sguardi, per capire di trovarsi di fronte a un'anima gemella, nel vero senso della parola: così simili in infelicità e disagio, entrambi soffrono per la difficoltà di trovarsi fuori posto in un mondo non fatto a loro misura, che li sfrutta, li soffoca e li tormenta. Entrambi sono "diversi", ciascuno a proprio modo, ma il reciproco incontro saprà cambiarli ancor più profondamente. Nell'arco di pochissime ore, nelle stanze di un condominio composto da palazzoni quasi vuoti, sapranno entrare in contatto fino in fondo, parlando, confessandosi apertamente a cuore aperto, perfino amandosi. E tutto mentre, come incessante colonna sonora, nell'aria risuona la radio che trasmette ad alto volume i cori e la cronaca della parata. Dramma intimo e tragedia storica al tempo stesso, il film è diretto da uno Scola che lascia i personaggi padroni dell'inquadratura, accompagnandoli con una regia ariosa, caratterizzata dai long take o piani sequenza, che li segue attraverso momenti memorabili (la raccolta dei panni stesi sul tetto; i passi di rumba accennati nell'appartamento di Gabriele; la macinazione del caffé in quello di Antonietta), mentre i due eccellenti interpreti danno vita con estrema intensità a due personaggi a tutto tondo, grazie a una sceneggiatura (di Scola e Ruggero Maccari, con la collaborazione di Maurizio Costanzo) così precisa e attenta alle finezze della loro psicologia che gli si può pure perdonare qualche luogo comune (la moglie trascurata e infelice, lo stesso uso dello sfondo storico). Come aveva già fatto nel suo altro capolavoro, "C'eravamo tanto amati", Scola riflette sul presente dell'Italia usando il suo passato: se lì, però, la finestra di tempo ritratta era di trent'anni, qui è di un solo giorno. Curiosità: nel cast, nel piccolo ruolo della figlia maggiore di Antonietta, figura una giovane Alessandra Mussolini (della quale la Loren era la zia).

20 gennaio 2016

La chiave di vetro (Stuart Heisler, 1942)

La chiave di vetro (The Glass Key)
di Stuart Heisler – USA 1942
con Alan Ladd, Veronica Lake
***

Visto in divx.

Il potente e corrotto Paul Madvig (Brian Donlevy), presidente dell'influente "Lega degli Elettori", decide di appoggiare Ralph Henry (Moroni Olsen), candidato del partito riformista, nelle imminenti elezioni alla carica di governatore, solo perché innamorato di sua figlia Janet (Veronica Lake). Questo indispone il suo ex partner, il gangster Nick Varna (Joseph Calleia), proprietario di numerose sale da gioco, che teme che Henry gliele faccia chiudere. Nonostante i consigli dell'amico e braccio destro Ed Beaumont (Alan Ladd), Madvig rifiuta di tornare sui propri passi: ma presto si ritrova costretto a difendersi da un'accusa di omicidio. Fomentati da Varna (e da alcune lettere anonime), i giornali lo accusano infatti di aver ucciso Taylor (Richard Denning), figlio di Henry e fratello di Janet, perché non approvava la sua relazione con la propria sorella Opal (Bonita Granville). A indagare sull'assassinio, nella speranza di scagionare l'amico verso il quale nutre la più completa fiducia, sarà proprio Beaumont, "duro" tutto d'un pezzo, che dovrà vedersela con gli sgherri di Varna e gli intrighi della bella Janet, al cui fascino nemmeno lui è immune... Da un romanzo di Dashiell Hammett, che mette in luce i rapporti torbidi e sottobanco fra politica, malavita, polizia e informazione e che era già stato portato sullo schermo sette anni prima da Frank Tuttle, un noir affascinante e contorto, stratificato e influente. Anche se il personaggio "maneggione" interpretato da Donlevy resta costantemente al centro della vicenda e quello di Alan Ladd è di fatto il vero protagonista, nella memoria restano molti character secondari, da Matthews (Arthur Loft), il pavido proprietario del giornale che piega l'informazione alle necessità della malavita, alla sua infedele moglie Eloise (Margaret Hayes), dalla conturbante e glaciale Janet (si tratta del terzo di sette film in cui Ladd e la Lake recitano insieme) a – soprattutto – lo sgherro sadico e picchiatore Jeff (William Bendix), con il quale Beaumont ha più di uno scontro "fisico" (e che nel romanzo di Hammett presentava sottotesti gay). Mentre il tema delle commistioni non proprio limpide fra i "poteri forti" della città rimane sempre sullo sfondo, quello in primo piano – il giallo della morte di Taylor – si risolverà naturalmente soltanto alla penultima scena, dopo numerose false piste sull'identità dell'assassino. Il titolo si riferisce a uno scambio di battute fra Madvig (che afferma che Henry gli ha praticamente consegnato le chiavi di casa) e Beaumont (che lo avvisa che tale chiave potrebbe essere di vetro, ossia molto fragile). La migliore battuta del film, comunque, è: "La mia prima moglie era seconda cuoca in un locale di terz'ordine della quarta strada".

18 gennaio 2016

Carol (Todd Haynes, 2015)

Carol (id.)
di Todd Haynes – GB/USA 2015
con Cate Blanchett, Rooney Mara
*1/2

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina, Daniela e Alessandro.

Una storia d'amore fra due donne nell'America di Eisenhower. Siamo nell'inverno del 1952, anni del Maccartismo e del "politicamente corretto". Therese è una giovane impiegata dei grandi magazzini Frankenberg di Manhattan, aspirante fotografa e piena di dubbi e incertezze sul proprio futuro; Carol è una sofisticata signora dell'alta borghesia, madre di una bambina che però rischia di perdere perché impegnata in una causa di divorzio, con il marito che l'accusa di comportamento immorale per via delle sue frequentazioni femminili che vanno al di là delle normali convenzioni sociali. E proprio l'amicizia spontanea che nasce fra Carol e Therese (con tanto di breve vacanza passata insieme "on the road", fra Natale e Capodanno, che culmina in una notte d'amore in un motel) rischia di far precipitare la situazione. Haynes – che in un certo senso aveva già affrontato l'argomento e lo stesso periodo storico in "Lontano dal paradiso" (a mio parere più bello) – adatta un romanzo semi-autobiografico di Patricia Highsmith con uno stile lucido e controllato, una grande attenzione alla ricostruzione d'epoca (gli abiti, le automobili, le canzoni) e una cura ricercata nei dettagli e nelle finezze psicologiche, ma il risultato è troppo freddo e sospeso, privo di ritmo e di tensione, a tratti noioso anche perché in fondo è tutto molto scontato. Se la backstory di Carol (il divorzio, le precedenti amicizie, il rapporto con il marito e la bambina) guida la storia, il vero punto di riferimento per lo spettatore è invece Therese, personaggio purtroppo molto meno interessante (anche perché la Mara recita con una sola espressione) e con cui dunque il coinvolgimento scatta, se mai lo fa, con estrema fatica. Decisamente Haynes è un regista con cui non riesco proprio ad entrare in sintonia (il suo precedente "Io non sono qui" è stato l'unico caso – su migliaia di film visti – in cui sono uscito da un cinema prima della fine).