26 giugno 2011

Distance (Hirokazu Koreeda, 2001)

Distance (id.)
di Hirokazu Koreeda – Giappone 2001
con Arata, Susumu Terajima, Yui Natsukawa
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Nell'anniversario di un attentato compiuto dai membri di una setta religiosa, che tre anni prima avevano avvelenato l'acquedotto di Tokyo con un virus per poi suicidarsi sulle rive di un remoto lago di montagna, quattro parenti dei responsabili (Arata, Yusuke Iseya, Susumu Terajima, Yui Natsukawa) si recano in visita a quel lago per cercare di capire che cosa possa aver spinto i loro cari a compiere un'azione simile e per trovare un modo di dirgli addio. Costretti a pernottare nella stessa baita dove i loro familiari avevano scelto di vivere in isolamento, incontreranno qui un altro membro della setta (Tadanobu Asano), che all'ultimo momento si era tirato indietro. L'alienazione, la scomparsa e il lutto sono temi tipici del cinema di Koreeda, e questa pellicola (che a tratti ricorda il precedente "Maborosi") li affronta da un punto di vista inedito e delicato. Il film prende naturalmente spunto dall'attentato compiuto nel 1995 con il gas dalla setta Aum Shinrikyo nella metropolitana di Tokyo: ma più che le azioni e le motivazioni dei responsabili (che restano enigmatiche e ambigue), Koreeda preferisce indagare le reazioni e i sentimenti di chi è loro sopravvissuto ed era stato da loro abbandonato, persone "normali" che devono fare i conti con quello che è accaduto, e cercare di comprendere perchè un fratello, una sorella, una moglie o un marito abbiano scelto di staccarsi dal mondo. Lungo e ricco di flashback che intercalano in continuazione la vicenda principale, il film svela lentamente i suoi segreti e si conclude anche con un piccolo mistero relativo all'identità di uno dei protagonisti.

25 giugno 2011

Night fishing (Park Chan-wook, 2011)

Night fishing (Paranmanjang)
di Park Chan-wook, Park Chan-kyong – Corea del Sud 2011
con Oh Kwang-rok, Lee Jung Hyun
**1/2

Visto nella sala Estérel al Palais des Festivals di Cannes.

Un uomo si reca a pescare nel bosco, presso il fiume Han. Di notte incontrerà lo spirito di una donna: ma presto scopriremo che in realtà il defunto è lui, e che la donna è una medium ingaggiata dalla sua famiglia. Ispirandosi allo "sciamanesimo coreano", Park realizza un piccolo film (scritto e diretto insieme al fratello Park Chan-kyong) sulla morte e sulla vita. Ma più che per il soggetto, il lavoro è degno di nota per le sue caratteristiche tecniche: il cortometraggio (dura in tutto 30 minuti) è stato infatti girato esclusivamente e interamente con un Apple iPhone 4 al posto della macchina da presa. L'abilità registica di Park gli consente di fare con lo smartphone tutto quello che farebbe con un normale equipaggiamento: zoom e carrellate, riprese notturne, effetti speciali, montaggio rapido, primi piani e inquadrature d'atmosfera. La minor risoluzione delle immagini, poi, dona alle scene ambientate nel bosco una suggestione horror simile a quella di prodotti che "fingono" soltanto di essere girati con mezzi di fortuna (come "The Blair Witch Project" e simili), mentre aggiunge alle sequenze finali del rito sciamanico una felice aura di realismo. Un esperimento riuscito, dunque, oltre che una notevole operazione di marketing.

24 giugno 2011

E la nave va (Federico Fellini, 1983)

E la nave va
di Federico Fellini – Italia 1983
con Freddie Jones, Barbara Jefford
**1/2

Rivisto in divx.

Luglio 1914: mentre l'Europa sta per entrare in guerra, un transatlantico di lusso salpa da un porto italiano per portare le ceneri della "più grande diva di tutti i tempi", la defunta cantante d'opera Edmea Tetua – come da sue ultime volontà – fino alla sua isola natale, nel mar Egeo, dove verranno disperse in mare. A bordo della nave ci sono molte celebrità e personaggi eccentrici: cantanti, direttori d'orchestra, musicisti, impresari e gente di spettacolo, più alcuni dei più altolocati ammiratori della diva (compreso un granduca austriaco) e un giornalista, il signor Orlando, che presenta al pubblico gli stravaganti ed enigmatici passeggeri e fa la cronaca del viaggio, rivolgendosi agli spettatori in prima persona. Fra amori, capricci, gelosie e piccoli problemi, i primi giorni trascorrono tranquilli: ma poi il "mondo reale" fa irruzione sotto forma di un nutrito gruppo di profughi serbi che invade inaspettatamente il ponte (il comandante li ha raccolti in mare, mentre tentavano di raggiungere l'Italia per fuggire dai disordini in patria) e della minacciosa corazzata austro-ungarica che appare all'orizzonte per reclamare i naufraghi. Ironico e surreale, il film di Fellini (co-sceneggiato da Tonino Guerra) non vuole dunque soltanto omaggiare il mondo del "bel canto" ma anche ritrarre la brusca conclusione di un periodo storico – la Belle Epoque, quella dell'Europa prima della guerra – della cui alta borghesia fa una satira a tratti impietosa. E proprio come in "Titanic", la nave affonda mentre sul ponte si continua a cantare e a suonare.

Caratterizzato da una struttura episodica che alterna momenti comici e grotteschi (il rinoceronte che soffre di mal di mare, o forse di mal d'amore; il basso che con la sua voce profonda fa cadere in catalessi una gallina) ad altri di grande suggestione (i musicisti che improvvisano un brano di Schubert in cucina, suonando su bicchieri e cristalli; l'esibizione dei cantanti nella sala macchine), il film ha tutti i crismi del divertissement, e come tale va accolto e giudicato. Nel ricco cast internazionale, è da segnalare Pina Bausch nei panni della principessa cieca che "vede" le note musicali e le voci come se fossero colori. Victor Poletti (che con Fellini girò qualche anno dopo un celebre spot per Campari, quello in cui cambiava il paesaggio del finestrino del treno con il telecomando) è il tenore Fuciletto, Sarah-Jave Varley è la giovane e bella Dorotea di cui Orlando si invaghisce, mentre Barbara Jefford è l'altezzosa soprano Ildebranda Cuffari, gelosa della popolarità della diva defunta. Edmea Tetua (interpretata da Janet Suzman in filmati d'epoca), naturalmente, è ispirata a Maria Callas (che era morta poco prima del film). Oltre che con la musica (nel film compaiono tanti brani classici, ludicamente mescolati con le immagini, come nella scena del coro al momento in cui la nave salpa o in quella dove i cuochi lavorano velocemente in cucina e i passeggeri mangiano al rallentatore sulle note di Tchaikovsky; e numerose arie d'opera – soprattutto di Verdi – fuse insieme o cantate su testi nuovi e scritti per l'occasione da Andrea Zanzotto), Fellini gioca con il (meta)cinema: la pellicola si apre come se si trattasse di un film appunto del 1914, muto e in bianco e nero (poi progressivamente arrivano colore e sonoro), e si conclude svelando invece allo spettatore la finzione cinematografica, mostrando cioè il set e la troupe al lavoro (come farà anche Abbas Kiarostami ne "Il sapore della ciliegia").

23 giugno 2011

X-Men: L'inizio (Matthew Vaughn, 2011)

X-Men: L'inizio (X-Men: First Class)
di Matthew Vaughn – USA/GB 2011
con James McAvoy, Michael Fassbender
***

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

Non un reboot, ma un prequel intelligente e appassionante: la franchise cinematografica degli X-Men torna alle origini e rinasce a nuova vita (pare che il film sarà il primo di una nuova trilogia) con una pellicola all'altezza di quelle di Bryan Singer (accreditato come produttore e co-autore del soggetto) che racconta il primo incontro fra i mutanti Xavier e Magneto, la nascita della loro amicizia, la creazione del primo nucleo di X-Men, lo scontro con il Club Infernale guidato da Sebastian Shaw (che mira a scatenare una guerra nucleare), e infine l'inevitabile separazione fra i due amici/rivali, destinati a seguire strade diverse con i loro rispettivi gruppi. Ottima l'ambientazione negli anni sessanta, che integra alla perfezione eventi storici (la crisi dei missili di Cuba) nella cronologia mutante, dando a tutta l'operazione un sapore retrò quasi alla James Bond. Ma soddisfa anche il modo in cui sono stati resi sullo schermo personaggi ben noti ai lettori dei fumetti. La scelta dei character che fanno parte della prima incarnazione di X-Men (Banshee, Havok, Bestia) non è casuale, visto che si tratta di personaggi che anche nei comics hanno un'età media superiore al resto del gruppo: qui vengono caratterizzati in maniera semplice ma efficace (indovinati, per esempio, i riferimenti al celebre racconto di Stevenson "Dottor Jekyll e Mister Hyde" nel caso di Hank McCoy/Bestia). Michael Fassbender convince come Magneto, mentre James McAvoy è uno Xavier assai ironico. Quanto ai nemici, nel Club Infernale affascinano anche personaggi che in tutta la pellicola diranno sì e no quattro parole (Azazel, Riptide). Ma su tutti brilla Kevin Bacon nei panni di Shaw, villain che con le sue azioni ispira quelle future di Magneto: la relatività del bene e del male, e il continuo passaggio di alcuni characters dalle file dei buoni a quelle dei cattivi è un tema che è stato perfettamente estrapolato dalle pagine cartacee allo schermo cinematografico. Evitati alla grande, per fortuna, anche i rischi di sfornare un teen movie, vista la giovane età dei principali personaggi, nonché la tentazione del 3D. Il regista Matthew Vaughn, al suo quarto film dopo "The pusher", "Stardust" e "Kick-Ass", si conferma come uno dei nomi più interessanti del cinema d'intrattenimento americano: nella scena dell'addestramento dei giovani mutanti, ricorre ironicamente agli split screen di cui Ang Lee aveva abusato nel proprio "Hulk". Bella e trascinante la colonna sonora, divertente il cameo di Hugh Jackman/Wolverine (non ho notato, invece, quello consueto di Stan Lee: se c'era, me lo sono perso). Completano il cast January Jones (la telepate Emma Frost), Jennifer Lawrence (una giovane Mystica), Rose Byrne (Moira McTaggart) e, in piccoli ruoli di militari russi e americani, Rade Serbedzija e Michael Ironside.

18 giugno 2011

Cannes e dintorni 2011 - conclusioni

Rispetto all'anno scorso, la rassegna è stata sicuramente di livello più alto. Ho visto meno film del solito (anche perché ho saltato la prima giornata, quando era in programma “The artist” di Michel Hazanavicius, che spero di recuperare in futuro), ma quasi tutti molto interessanti. Uno dei principali temi conduttori è stato senza dubbio quello delle donne: come protagoniste di molte pellicole (da “E ora dove andiamo?” di Nadine Labaki a “La source des femmes” di Radu Mihaileanu, da “Melancholia” di Lars von Trier – ma per il danese non è una novità mettere un personaggio femminile al centro dei suoi lavori – a “Le donne del 6° piano” di Philippe Le Guay) o come registe (la già citata Labaki, ma anche la Maïwenn di “Polisse”; mi sono perso, invece, i lavori di Alice Rohrwacher e Urszula Antoniak). Proprio il film di von Trier mi è parso il migliore fra quelli che ho visto: probabilmente meritava la Palma d’Oro (e chissà, magari l’avrebbe vinta se non ci fossero state le polemiche in conferenza stampa). A seguire, le suddette Labaki e Maïwenn. Buoni anche “Drive” di Nicolas Winding Refn, “Atmen” di Karl Markovics e “Play” di Ruben Östlund. I film che invece mi hanno soddisfatto di meno sono stati quelli di Le Guay e di Mihaileanu.

17 giugno 2011

Polisse (Maïwenn, 2011)

Polisse
di Maïwenn – Francia 2011
con Karin Viard, Joeystarr
***

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

A metà strada fra il police procedural e il cinema-verità, questo bel film segue le vicende di un gruppo di agenti dell’unità per la protezione dei minori di Parigi, alle prese con pedofili o con bambini avviati alla delinquenza. Alle azioni sul campo si alternano scene della vita privata dei poliziotti stessi, fra momenti di tensione e altri di allegria, speranze e disillusioni, litigi e nascite di nuovi amori. Il titolo, naturalmente, è la parola “Police” come verrebbe scritta da un bambino. La regista e sceneggiatrice si ritaglia per sé il ruolo di Melissa, la fotografa che accompagna i poliziotti per documentarne l’azione per un servizio giornalistico (un ruolo in parte autobiografico, visto che per raccogliere materiale prima di girare la pellicola aveva ottenuto l’autorizzazione a restare con i membri dell’unità per un certo periodo di tempo, facendo ricerca sul campo: tutti i casi che si vedono sullo schermo sono basati su eventi di cui lei stessa è stata testimone o che le sono stati raccontati dagli agenti). Quello fornito dal film è dunque uno spaccato diretto di realtà, con la macchina da presa che indaga senza pudore negli sguardi dei bambini e nei sentimenti dei poliziotti. Molte le sequenze scioccanti o comunque memorabili: gli interrogatori ai parenti pedofili e le loro reazioni (che spaziano dall'inconsapevolezza all'arroganza), l’incursione al campo rumeno, le discussioni sulla gerarchia all’interno della polizia (dove gli agenti dell’unità minorile sono considerati l’ultima ruota del carro), la missione al centro commerciale, la ricerca della madre fuggita con il suo bambino, o quella che si presenta volontariamente per affidare loro il figlio. Di molti di questi casi non viene rivelato l'esito o la conclusione: la scelta è motivata dal fatto che gli stessi poliziotti talvolta non ne vengono messi al corrente. La regista, il cui nome completo è Maïwenn Le Besco, ha un passato di modella ed è stata compagna di Luc Besson, nei cui film ha fatto piccole apparizioni (era, per esempio, la cantante aliena Plavalaguna ne “Il quinto elemento”). I due ebbero un figlio nel 1993, quando Maïwenn aveva solo 16 anni: Besson l'ha poi lasciata per sposare Milla Jovovich (a sua volta mollata dopo pochi anni). Qui si dimostra davvero all’altezza del compito, riuscendo a mantenere le redini di un film complesso e delicato e, in particolare, rivelandosi un’ottima direttrice di attori, tutti credibili e in parte. Il lungometraggio è esemplare persino quando offre alcune belle scene di litigate, da cui molti registi italiani dovrebbero apprendere qualcosa. Trattandosi di un film corale e dalla struttura episodica, il cast è assai vasto e comprende il rapper francese Joeystarr (Fred), Karin Viard (Nadine), Marina Foïs (Iris), Nicolas Duvauchelle (Mathieu), Karole Rocher (Chrys), Emmanuelle Bercot (Sue Ellen), Frédéric Pierrot (Baloo), Arnaud Henriet (Bamako), Naidra Ayadi (Nora), Jérémie Elkaïm (Gabriel), più un ruolo minore anche per Riccardo Scamarcio (che recita in francese e in italiano). Ottima l’accoglienza a Cannes, dove ha vinto il Premio della Giuria.

16 giugno 2011

Il ragazzo con la bicicletta (J. e L. Dardenne, 2011)

Il ragazzo con la bicicletta (Le gamin au vélo)
di Jean-Pierre e Luc Dardenne – Belgio 2011
con Thomas Doret, Cécile De France
**1/2

Visto al cinema Arlecchino, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il piccolo Cyril, abbandonato dal padre e ospite di un centro di accoglienza, va all'ostinata ricerca del genitore con la sua bicicletta: quando si rende conto che l’uomo non intende riprenderlo con sé, accetta l’affetto di Samantha, una gentile parrucchiera che si offre di dargli una nuova famiglia: al posto del padre, troverà così una madre. Ma la frequentazione di cattive compagnie rischierà di portarlo sulla cattiva strada. Una pellicola carina, di impianto neorealista e dai toni quasi fiabeschi, anche se un po’ inconcludente e con alcuni passaggi forzati (come quando il compagno di Samantha le impone di scegliere fra lui e il bambino): decisamente meglio la prima parte, quella della ricerca del padre, rispetto alla seconda, quella del tentativo di rapina. La mancanza di un finale tragico (quando tutto ormai lasciava crederlo) sembra quasi un regalo che i registi hanno voluto fare in extremis agli spettatori. Bravo il piccolo attore Thomas Doret (Cyril, a ben vedere, potrebbe benissimo essere il bebè de "L'enfant" ormai cresciuto: non a caso il padre è interpretato da Jérémie Renier, già protagonista del film precedente), mentre Cécile De France si era vista in “Hereafter” di Clint Eastwood. Lo scarno commento musicale è composto esclusivamente da poche battute del secondo movimento del concerto n. 5 per piano e orchestra di Beethoven, che solo nei titoli di coda si dispiegano più a lungo.

15 giugno 2011

Drive (Nicolas Winding Refn, 2011)

Drive (id.)
di Nicolas Winding Refn – USA 2011
con Ryan Gosling, Carey Mulligan
***

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il taciturno protagonista del film (di cui non ci viene mai detto il nome: nei titoli di coda figura come “driver”) è un pilota provetto che lavora come meccanico in un garage di Los Angeles e, part-time, come stuntman in alcuni dei più pericolosi set cinematografici. Ma soprattutto, offre i propri servizi a criminali che necessitano di un buon autista per portare a termine i loro colpi. La sua vita cambia quando si innamora della vicina di casa, una giovane mamma il cui marito è in galera: per aiutare quest’ultimo, si lascia coinvolgere in una rapina a un banco di pegni che lo trascinerà in mezzo a una faida all’ultimo sangue con la criminalità organizzata. Il soggetto, tratto da un romanzo di James Sallis, non è certo nuovo, e la storia percorre territori già battuti più volte dal cinema noir e d’azione (il modello principale è probabilmente “Driver l’imprendibile” di Walter Hill): ma lo stile di Winding Refn, uno dei registi attualmente più interessanti in circolazione (il film che gli ha dato la fama, “Bronson”, uscirà a breve – con tre anni di ritardo – nelle sale italiane), è folgorante e pieno di energia. Le panoramiche notturne della città, il sincero ritratto dei personaggi, le improvvise esplosioni di violenza (come il pestaggio nell’ascensore), l’utilizzo della musica, e persino la grafica dei titoli di testa e di coda sono tutti elementi che contribuiscono a costruire un’atmosfera urbana di grande spessore, che compensa in parte lo scarso approfondimento psicologico e la poca originalità della vicenda. Il bravo Ryan Gosling dà vita a un protagonista apparentemente inespressivo come un Big Jim, sempre con uno stecchino in bocca (come Chow Yun-Fat in "A better tomorrow"!), ma attraverso il cui sguardo sono percepibili emozioni e sentimenti. Indimenticabile il suo giubbotto bianco con l’immagine di uno scorpione dorato. Nel cast ci sono anche Ron Perlman, Christina Hendricks, Albert Brooks e Oscar Isaac.

14 giugno 2011

E ora dove andiamo? (N. Labaki, 2011)

E ora dove andiamo? (Et maintenant, on va où?)
di Nadine Labaki – Libano/Francia 2011
con Leyla Hakim, Julian Farhat
***1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

In un villaggio libanese, circondato dalla guerra e da un campo minato e separato dal resto del mondo da un ponte semidistrutto, la comunità cristiana e quella musulmana riescono miracolosamente a convivere in pace e in amicizia: la chiesa e la moschea si affacciano sulla stessa piazza, gli uomini frequentano lo stesso bar, e le donne si recano insieme al cimitero a piangere i loro figli morti in guerra. Ma l’equilibrio è assai fragile, e l’eco delle rivolte e dei dissidi del mondo esterno rischia di metterlo in discussione: già i primi germi dell’intolleranza religiosa fanno la loro apparizione per dar vita a faide e atti di violenza. Nel tentativo di evitare che la follia divida anche il loro paese, le donne del villaggio fanno davvero di tutto: sabotano l’unico televisore del villaggio affinché non diffonda più notizie che possano scaldare gli animi; assoldano un gruppo di spogliarelliste ucraine perché si stabiliscano nel villaggio per “distrarre” i mariti in modo che pensino ad altro anziché a farsi la guerra; distribuiscono pane e focacce condite con hashish per rendere più saldi i legami di amicizia; nascondono persino la morte di uno dei loro figli pur di evitare un’inutile vendetta; e infine, come ultima risorsa, cambiano religione in modo che in ciascuna casa e in ciascuna famiglia ci sia almeno un rappresentante di una delle due fedi, rendendo impossibile continuare a sentirsi divisi. Nadine Labaki, la regista di “Caramel”, riesce ancora una volta a divertire e a sorprendere con un film corale, colorato e vivace, ma anche sofferto e drammatico, arricchito da canzoni che in certe sequenze lo trasformano in un vero e proprio musical (memorabili la scena iniziale al cimitero e quella della preparazione del cibo drogato). Da paragonare con “La source des femmes” di Radu Mihaileanu, proiettato nella stessa rassegna e dai temi molto simili: tanto quello è un film fasullo, ruffiano e “di plastica”, tanto questo è sincero e pieno di vitalità (oltre a presentare l’amore e il sesso con valenza salvifica e liberatoria, anziché come arma di ricatto e di violenza). Quanto al giudizio complessivo, la pellicola merita mezzo punto in più soltanto per il messaggio che veicola: la vita è più importante della religione.

13 giugno 2011

Sulla strada di casa (E. Corapi, 2011)

Sulla strada di casa
di Emiliano Corapi – Italia 2011
con Vinicio Marchioni, Daniele Liotti
**1/2

Visto al cinema Arcobaleno (rassegna di Cannes).

Alberto, piccolo imprenditore ligure soffocato dalla crisi economica, per arrotondare le entrate accetta di lavorare come corriere per conto di una cosca calabrese. Ma prima della sua partenza per uno di questi viaggi, la sua famiglia viene sequestrata da un altro gruppo di malviventi che minacciano di uccidergli moglie e figli se non consegnerà a loro la merce che deve ritirare. Giunto sul luogo convenuto, scopre che i suoi committenti hanno deciso che questa volta dovrà fungere soltanto da diversivo, e che il vero carico è stato affidato a un secondo corriere: capisce allora che l’unico modo per salvare i propri cari è quello di mettersi alle calcagne di quest’ultimo e di sottrargli in qualche modo la merce… Un buon thriller sul tema dell’uomo comune che rimane coinvolto in una vicenda criminosa e più grande di lui, con una discreta costruzione della suspense (soprattutto negli inseguimenti in automobile e nell’uso del paesaggio, dalle stradine della Calabria ai vigneti dell’astigiano) e un colpo di scena che cambia le carte in tavola prima del finale. Corapi guarda in parte ai poliziotteschi del passato (a tratti vengono in mente road movie d'antan come “Cani arrabbiati”) e sforna un onesto e convinto prodotto di genere, che si lascia guardare con interesse fino alla fine.

Il venditore di miracoli (B. Pawica, J. Szoda, 2009)

Il venditore di miracoli (Handlarz cudów)
di Boleslaw Pawica, Jaroslaw Szoda – Polonia 2009
con Borys Szyc, Sonia Mietielica
**

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Stefan, con un passato (non ancora superato) di alcolizzato e una recente conversione religiosa, sta per partire dalla Polonia in pellegrinaggio per Lourdes, dove intende portare – dietro compenso – anche le preghiere di altri residenti di case delle cura e di accoglienza che frequenta. Lungo il viaggio scopre però di avere nel furgone due piccoli clandestini, un fratello e una sorella ceceni, che gli chiedono di accompagnarli fino in Francia, dove li attende il padre. Inizialmente ostile, l’uomo finirà con l'affezionarsi ai due ragazzi e farà di tutto per aiutarli, aiutando così anche sé stesso. Un film con molte buone intenzioni, ma che non riesce a decollare. Lo spunto ricorda in parte “L’estate di Kikujiro”, ma la pellicola non ha l’anima, la poesia e l’umorismo che rendevano grande il film di Kitano. Primo premio al Bergamo Film Meeting.

12 giugno 2011

Play (Ruben Östlund, 2011)

Play
di Ruben Östlund – Svezia 2011
con Anas Abdirahman, Sebastian Blyckert
***

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

In una Göteborg piovosa e indifferente, una banda di ragazzini di colore intimidisce i coetanei in un centro commerciale per poi rapinarli dei loro cellulari e di altri oggetti di valore. Il film racconta un piccolo episodio di estorsione con grande cura e con dettagli a volte fin troppo espliciti, ma anche con pacatezza e una certa levità, mettendo sotto la lente d'ingrandimento non solo le tre vittime impotenti ma anche i cinque teppistelli, e mostrando come il mondo dei minorenni protagonisti segua regole proprie e spesso crudeli, che si sviluppano nell'incuranza degli adulti. Girata con uno stile realista, lucido e rigoroso, che si affida a lunghi piani sequenza caratterizzati dalla camera fissa, la pellicola non si fa scrupoli nel mostrare uno cupo spaccato di realtà urbana e affronta temi delicati e attuali (la delinquenza giovanile, l'integrazione degli immigrati, il difficile rapporto dei ragazzi con adulti assenti ma sempre pronti a fare la morale: vedi la scena in cui i ragazzini, rimasti senza denaro e senza telefonino, vengono multati e rimproverati dai controllori perché sono saliti sul tram senza biglietto). Inganni, intimidazione psicologica, violenza e sopraffazione sono le armi dei piccoli delinquenti, verso i quali però non c'è una condanna morale da parte del regista, il cui sguardo è semmai fin troppo distaccato, quasi da documentarista. A tratti fra vittime e soverchiatori c'è anche una sorta di complicità infantile, che non può sfociare nell'amicizia soltanto perché i due mondi dai quali provengono (bianchi e neri, svedesi e immigrati, ricchi e poveri) sono separati da barriere insormontabili, anche se poi gusti e interessi coincidono. E proprio l'incapacità di integrazione sembra essere il dramma della società attuale. Un film che offre molti spunti di riflessione e che, con suo grande merito, lo fa senza gridare e senza volerne semplificare la complessità ingabbiandola in schemi artificiali e scontati, affidandosi invece a un insignificante fatto di cronaca e a piccole pennellate di vita cittadina (i pellerossa che si esibiscono in piazza prima di andare a mangiare al McDonald's, l'inserviente che pulisce i vetri in ufficio, "l'odissea" della culla abbandonata in treno).

La sorgente dell'amore (R. Mihaileanu, 2011)

La sorgente dell'amore (La source des femmes)
di Radu Mihaileanu – Francia 2011
con Leïla Bekhti, Hafsia Herzi
*1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Stufe di dover percorrere un ripido e pericoloso sentiero di montagna per andare a prendere l'acqua a una lontana sorgente, mentre gli uomini trascorrono la giornata seduti a non fare nulla e a bere il tè, le donne di uno sperduto e desertico villaggio del Maghreb decidono di indire uno "sciopero dell'amore", che perdurerà fino a quando non sarà stata realizzata una conduttura che porterà l'acqua fino alla piazza del villaggio. Mantenere la decisione presa sarà difficile, vista anche la condizione di subalternità delle mogli nei confronti dei mariti nella società islamica, i quali possono ripudiarle o picchiarle a piacere: ma alla fine la forza di volontà avrà il sopravvento sulle tradizioni e sulle ingiustizie. Una commedia sulla battaglia dei sessi in chiave araba/femminista? Da "Train de vie" a "Il concerto", la ricetta del cinema radical chic di Mihaileanu è sempre la stessa: soggetti incentrati su una trovatina simpatica (ispirata, in questo caso, alla "Lisistrata" di Aristofane), tanti (anche troppi) personaggi, un pizzico di ironia, e uno sviluppo scontato e prevedibile. C'è a chi piace questo tipo di cinema ruffiano e insincero, condito da abiti colorati, da canti e da balli, e da filippiche sull'uguaglianza e sui buoni sentimenti con le quali non si può, naturalmente, non essere d'accordo. Ma è troppo facile mettere le mani avanti, spiegando sin dall'inizio che si tratta di una "favola", per giustificare il tono fasullo e irreale della vicenda e le caratterizzazioni manichee di personaggi improbabili. Un film come questo avrebbe valore se fosse stato davvero pensato e realizzato dagli abitanti di quei luoghi (si pensi per esempio alle vette raggiunte dal cinema iraniano, ma anche – per non andare troppo lontano – al ben più interessante "E ora dove andiamo?" della libanese Nadine Labaki, presente a questa stessa rassegna e che offre molti spunti simili), e non "imposto" dall'esterno, da un regista e da una produzione europea, che inscenano uno spettacolino esotico a beneficio esclusivo degli spettatori occidentali, proprio come i balletti per i turisti fatti dalle protagoniste della pellicola.

11 giugno 2011

Atmen (Karl Markovics, 2011)

Atmen
di Karl Markovics – Austria 2010
con Thomas Schubert, Karin Lischka
***

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il diciottenne Roman Kogler, cresciuto fra orfanotrofi e riformatori (e dunque mai veramente "libero"), è ora imprigionato in un centro di detenzione giovanile per avere involontariamente ucciso un coetaneo quattro anni prima, in reazione al suo tentativo di soffocarlo per scherzo con la maglietta. Apatico, chiuso e introverso, è in attesa dell'udienza che potrebbe restituirgli la libertà condizionata; e nel frattempo ottiene un permesso per uscire ogni giorno ed andare a lavorare in un mortuario, dove si occupa del trasporto di cadaveri (il che richiede, occasionalmente, anche di prelevarli nelle case, di lavarli e di vestirli: proprio come in "Departures", film con il quale questa pellicola condivide alcuni aspetti ma non certo il taglio narrativo e l'estetica romantica). In difficoltà nei confronti del mondo e della vita ("L'inferno sono gli altri", cita a un certo punto un personaggio), Roman si trova invece a proprio agio con i morti: ma lentamente il difficile rapporto con i colleghi si scioglie nell'amicizia, alcuni brevi incontri (come quello con una ragazza straniera in treno) lo spingono a una maggiore apertura, e soprattutto ha la forza di andare in cerca della madre che lo aveva abbandonato alla nascita (e che, a sua volta, aveva tentato di soffocarlo da piccolo, prima di reinfondere in lui il soffio della vita). Un film dalle scenografie fredde e asettiche e dall'incedere minimalista, ma che affronta temi psicologici che vanno ben oltre la semplice esistenza del protagonista. Il tema del soffocamento (reale o metaforico) e del bisogno di "respirare" è esplicitato dal titolo, che significa appunto "respiro", e si rispecchia in molti particolari del film, che dunque dimostra di essere assai meditato: dal fumo delle sigarette che Roman inala, all'aria che trattiene quando si tuffa in piscina. Eccellenti le interpretazioni, e davvero un buon esordio alla regia per l'attore Karl Markovics.

Le nevi del Kilimangiaro (R. Guédiguian, 2011)

Le nevi del Kilimangiaro (Les neiges du Kilimandjaro)
di Robert Guédiguian – Francia 2011
con Jean-Pierre Darroussin, Ariane Ascaride
**

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il cinquantenne Michel, appena licenziato – insieme ad altri 19 colleghi – dall'industria portuale di Marsiglia dove era impiegato come operaio ma anche come sindacalista, dopo tanti anni di lavoro e di lotta sociale si trova un po' a disagio a vivere un dorato prepensionamento da piccolo borghese, attorniato dall'affetto della famiglia e dei nipoti. In occasione delle nozze d'argento, parenti e amici donano a lui e alla moglie Marie-Claire una grossa somma di denaro e due biglietti per una vacanza in Africa, ai piedi del Kilimangiaro: ma prima che i due coniugi possano partire, vengono rapinati in casa da una coppia di ladri mascherati. Avendo riconosciuto in uno dei due il giovane Christophe, un operaio che era stato licenziato insieme a lui, Martin lo fa arrestare: ma solo per farsi poi prendere dai sensi di colpa quando scopre che il ragazzo aveva agito per necessità e per mantenere i due fratelli piccoli. Lui e Marie-Claire rinunceranno così al viaggio e accoglieranno a vivere con sé i due bambini. Nonostante la troppa carne al fuoco (il dramma esistenziale, i conflitti familiari e generazionali, il confronto fra coscienza e giustizia sociale), una regia un po' anonima e una sceneggiatura non sempre equilibrata, grazie ai toni leggeri e alle buone interpretazioni il film riesce a mantenersi a galla fino alla fine e risulta una gradevole visione. Filo conduttore della vicenda è un vecchio albo a fumetti dell'Uomo Ragno ("Strange") che era appartenuto a Michel da ragazzo (il protagonista ha sempre sognato di essere un supereroe anche nella vita, impegnandosi nelle battaglie che riguardano i più deboli e indifesi) e che, rubato da Christophe insieme al denaro, permette all'uomo di identificare il colpevole. Il titolo, invece, non si riferisce al racconto di Hemingway (da cui fu tratto un film con Gregory Peck) ma a una bella canzone di Pascal Danel. Nei titoli di coda si rivela l'ispirazione al poema di Victor Hugo "La povera gente".

10 giugno 2011

Melancholia (Lars von Trier, 2011)

Melancholia (id.)
di Lars von Trier – Danimarca/Sve/Fra/Ger 2011
con Kirsten Dunst, Charlotte Gainsbourg
***1/2

Visto al cinema Colosseo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

L'ansia, la paura e la depressione, patologie con cui von Trier convive da tempo anche nella vita reale, ritratte attraverso le esperienze di due sorelle alle prese con situazioni quasi speculari e su ordini di grandezza ben distinti: il timore per un cambiamento personale (il matrimonio) e quello per una catastrofe universale (la fine del mondo), in un film dall'estetica curatissima e che anche per contenuti sorprende sotto diversi punti di vista. Dopo un magnifico incipit che consiste in una serie di quadri cinematografici che anticipano quello che verrà (scene notturne viste al rallenti, momenti pittorici, spettacolari immagini di pianeti in collisione) e che viene naturale paragonare alle sequenze di un'altra pellicola in concorso allo stesso Festival di Cannes, "The tree of life" (ma senza la zavorra teosofica del film di Malick), il lungometraggio si presenta nettamente diviso in due parti (peraltro con la stessa ambientazione e gli stessi personaggi). La prima è dedicata a Justine (Kirsten Dunst), che soffre di depressione, e al ricevimento del suo matrimonio con Michael (Alexander Skarsgård), organizzato con grande dispendio di risorse ed energie dalla sorella Claire (Charlotte Gainsbourg) e dal suo compagno John (Kiefer Sutherland) nella loro lussuosa tenuta di campagna. Imprevisti, ritardi (la limousine che fatica a percorrere la strada sterrata e piena di curve) e dissapori familiari fra i genitori divorziati (la madre cinica e scostante è Charlotte Rampling, il padre infantile è John Hurt) fanno da sfondo al terrore di Justine per l’inizio di nuova vita alla quale non si sente pronta o adeguata, e che la spingerà a mandare a monte tutto.

Nella seconda parte, dedicata a Claire e ispirata alle leggende urbane che circolano sul pianeta Nibiru (quello che, secondo le profezie attribuite ai Maya, dovrebbe distruggere il mondo nel 2012), scopriamo che un gigantesco pianeta blu chiamato Melancholia, in precedenza nascosto dietro il Sole, si sta dirigendo verso la Terra. Nonostante gli scienziati dichiarino che non c’è pericolo di collisione, Claire è sconvolta e si lascia prendere dal panico, mentre paradossalmente Justine riesce a mantenere la calma (Von Trier ha dichiarato di aver voluto realizzare il film proprio per mostrare come le persone che soffrono di depressione possano reagire con maggiore lucidità di altre in situazioni estreme). In un’atmosfera di attesa e di sospensione, l’enorme corpo celeste si avvicina sempre più, invadendo il cielo e le coscienze fino a un finale catastrofico di sublime bellezza. Lungo e per certi versi estenuante, il film affascina per l'insolito mix di generi e per la commistione di sensazioni che getta in pasto allo spettatore. È più lineare e meno complesso di "Antichrist", ma – specie nella seconda parte – altrettanto suggestivo. Naturalmente la storia è del tutto implausibile dal punto di vista astrofisico, ma l'intento del regista non era quello di realizzare un disaster movie realistico bensì di indagare la psiche umana di fronte alla fine del mondo. Memorabile l’accompagnamento musicale a base di Wagner, con l'ouverture di “Tristano e Isotta”, che ben si sposa con i riferimenti visivi all’arte romantica (una citazione su tutte: il dipinto “Ophelia” di John Everett Millais). Nel cast anche Stellan Skarsgård, Brady Corbet, Jesper Christensen e Udo Kier. Kirsten Dunst ha vinto a Cannes il premio per la miglior interpretazione femminile (il ruolo era stato inizialmente pensato per Penélope Cruz, che ha collaborato con il regista all'idea della storia), ma la Gainsbourg non è certo da meno.

Le donne del 6° piano (P. Le Guay, 2010)

Le donne del 6° piano (Les femmes du 6ème étage)
di Philippe Le Guay – Francia 2010
con Fabrice Luchini, Natalia Verbeke
*1/2

Visto al cinema Anteo (rassegna di Cannes).

Siamo a Parigi, nel 1962. Le famiglie dell'alta borghesia francese si affidano a donne spagnole per la pulizia della loro casa, un po' come oggi facciamo noi con le filippine, ma ignorano tutto della loro vita e delle loro difficoltà. Un gruppo di queste domestiche risiede al fatiscente sesto piano di un palazzo dove, ai piani bassi, abitano i metodici coniugi Joubert, attaccati alle loro false convinzioni e ai riti sempre uguali (come l'uovo alla coque del mattino). Ma affascinato dalla nuova donna di servizio, la giovane e bella Maria, il consulente finanziario Jean-Louis entra improvvisamente in contatto con il mondo delle domestiche e finisce col diventarne amico, confidente e paladino, mandando all'aria tutto quello in cui credeva. Un filmetto buonista e facilone, autoindulgente e fintamente edificante, costruito su cliché e personaggi-macchiette e solo lievemente nobilitato da un accenno di riflessione sociale, con in sovrappiù una storia d'amore del tutto superflua. Se nella parte centrale, quella della scoperta di sé stesso da parte del protagonista (che, scacciato di casa dalla moglie, si trasferisce anche lui a vivere in soffitta con "le spagnole"), la commediola guadagna qualche colpo, li perde però tutti nel finale retorico e posticcio. Fra i pochi motivi di interesse, la recitazione di uno spaesato Luchini e di un'ottima Sandrine Kiberlain (la moglie Suzanne). Fra le domestiche, invece, si riconoscono volti almodovariani come Carmen Maura e Lola Dueñas. Nel complesso, una cazzatina degna al massimo di una prima serata su Rai 2.

8 giugno 2011

Cannes e dintorni 2011

Nei prossimi giorni seguirò la rassegna dei film di Cannes che come ogni anno si tiene qui a Milano. Ma il programma, ancora una volta, è piuttosto scarno (tanto che ha dovuto essere rimpolpato con alcune pellicole provenienti dal Bergamo Film Meeting) e a prima vista deludente: mancano del tutto i film asiatici, ovvero che quelli che più mi interessavano (Takashi Miike, Naomi Kawase, Kim Ki-Duk, fra gli altri); e nulla da fare nemmeno per le pellicole di Aki Kaurismäki, Pedro Almodóvar, Nuri Bilge Ceylan, Paolo Sorrentino, Gus Van Sant. Beh, mi consolerò con i "nordici" (Lars von Trier e Nicolas Winding Refn) e i vari francesi, sperando poi di scoprire qualcosa di nuovo e di inatteso.

7 giugno 2011

Nanga Parbat (J. Vilsmaier, 2010)

Nanga Parbat (id.)
di Joseph Vilsmaier – Germania 2010
con Florian Stetter, Andreas Tobias
*1/2

Visto in TV, con Hiromi.

La vera storia dei fratelli Messner, Reinhold e Günther, che nel 1970 furono i primi a salire sul leggendario Nanga Parbat (chiamato "la montagna dei tedeschi" dagli alpinisti teutonici, che tentarono a più riprese di sfidarla) dalla difficilissima parete Rupal, la più alta del mondo (oltre 4500 metri dalla base alla vetta!). Durante la discesa, che i due furono costretti ad affrontare da un altro versante e senza l'attrezzatura adatta, una valanga di neve travolse Günther: e Reinhold (all'epoca solo 26enne e non ancora divenuto celebre come "Re degli 8000": quella fu la sua prima esperienza nell'Himalaya), sopravvissuto per miracolo, venne investito dalle critiche perché molti – a cominciare da Karl Herligkoffer, il medico tedesco che aveva organizzato la spedizione – lo accusarono di aver lasciato solo il fratello durante la salita pur di raggiungere per primo la cima. Per anni continuò a tornare sul Nanga Parbat alla ricerca del corpo di Günther: ma solo trentacinque anni dopo, nel 2005, lo scioglimento dei ghiacci ne riportò alla luce i resti sul versante Diamir, dimostrando che i due fratelli stavano effettivamente scendendo insieme per quella via e mettendo fine alle polemiche. Il film ripercorre la storia di quella spedizione, intervallandola con alcuni brevi momenti dell'infanzia dei due protagonisti in Alto Adige, e si concentra dunque – oltre che sui magnifici scenari delle montagne himalayane – sul rapporto fra i due fratelli, legatissimi sin da bambini ed entrambi grandi appassionati di scalate. Se la storia è appassionante e l'ambientazione è mozzafiato, la realizzazione è didascalica: per darle maggiore spessore ci sarebbe forse voluto un regista con più personalità, per esempio uno come Werner Herzog, con il quale peraltro Reihnold Messner (che in questa occasione ha fatto da consulente) aveva collaborato in "Grido di pietra", altro film sull'alpinismo e sulle sfide estreme dell'uomo alla natura e a sé stesso.

5 giugno 2011

L'uovo del serpente (I. Bergman, 1977)

L'uovo del serpente (Ormens ägg, aka The Serpent's Egg)
di Ingmar Bergman – USA/Germania 1977
con David Carradine, Liv Ullmann
**

Rivisto in divx, con Marisa.

Siamo a Berlino nel 1923, in piena crisi economica e sociale, un'epoca di paura e confusione. L'inflazione è alle stelle (un pacchetto di sigarette costa quattro miliardi di marchi), la povertà, la disoccupazione e il malcontento pure, e i primi germi del nazismo stanno cominciando a nascere (come nell'uovo del serpente, "attraverso la sottile membrana si intravede già il rettile che si sta formando"). L'acrobata ebreo Abel Rosenberg, alcolizzato e rimasto solo dopo l'inspiegabile suicidio del fratello Max, viene accolto insieme a Manuela (già moglie di suo fratello e ora ballerina in un cabaret nonché prostituta part-time) dall'ambiguo medico Hans Vergerus, che offre loro un appartamento e un lavoro nella propria clinica. Ma scoprirà che la catena di delitti e di suicidi che sta funestando la città è provocata proprio dai folli esperimenti di Vergerus su cavie umane. Sullo sfondo del putsch (fallito) di Hitler a Monaco, Bergman realizza – su richiesta del produttore Dino De Laurentiis e senza troppa ispirazione (si trovava in un momento difficile della propria carriera: aveva problemi con il fisco e soffriva di depressione) – un film inquietante e claustrofobico che fonde in sé diversi elementi senza trovare un pieno equilibrio fra le sue tante anime (si passa dal dramma esistenziale all'inchiesta poliziesca, dalla rappresentazione socio-politica del periodo storico a inutili sottotrame romantiche), con un'ispirazione che guarda a Kafka e a Fritz Lang.

Se alla fine il film riesce a trasmettere la sensazione di paura e di cambiamento che caratterizzava quell'epoca (ma forse prendendosi qualche libertà: troppe cose sembrano mostrate o dette "con il senno di poi"), fallisce invece sul piano narrativo, complici anche personaggi poco riusciti: il protagonista Abel, in particolare, è troppo elusivo e distante dallo spettatore. Rimangono più impressi i character di contorno, a cominciare dal proto-nazista Vergerus con i suoi crudeli e folli esperimenti (Heinz Bennent), o l'anziana padrona di casa di Manuela (Edith Heerdegen), ma anche il corpulento ispettore di polizia Bauer (interpretato da uno straordinario Gert Fröbe), che cita esplicitamente "M, il mostro di Düsseldorf" quando dice che il suo collega Lohmann sta lavorando a un caso insolito: Lohmann era proprio il nome dell'ispettore del film di Lang, anche se quest'ultimo si svolgeva nel 1931. Un po' ridicolo, invece, come tutti i personaggi si sentano in dovere di giustificare il fatto di parlare in inglese (in italiano nella versione tradotta) anziché in tedesco. Da notare che il nome Vergerus era già stato utilizzato da Bergman per un personaggio ne "Il volto" (e tornerà a usarlo in "Fanny e Alexander"). Le scenografie sono di Rolf Zehetbauer, che aveva realizzato anche quelle di "Cabaret" con Liza Minelli: ma i due film, pur ambientati nello stesso paese e nello stesso periodo storico (e parlando in fondo dello stesso argomento), hanno stili e anime profondamente diverse. Più che il cabaret dove si esibisce Manuela, comunque, colpisce il labirintico (e kafkiano) archivio della clinica. Dell'atmosfera generale si ricorderanno forse Steven Soderbergh per "Delitti e segreti" e Lars von Trier in certi passaggi della sua trilogia d'esordio (per esempio ne "L'elemento del crimine" ed "Europa").

4 giugno 2011

I bassifondi (Akira Kurosawa, 1957)

I bassifondi (Donzoko)
di Akira Kurosawa – Giappone 1957
con Bokuzen Hidari, Toshiro Mifune
***1/2

Visto in DVD.

In una fatiscente baracca-dormitorio presso una discarica, di proprietà dell'avido ricettatore Rokubei (Garyiro Nakamura) e della sua intrigante moglie Osugi (Isuzu Yamada), vive un nutrito e variopinto gruppo di poveri, derelitti ed emarginati dalla società: fra questi, il fabbro Tomekichi (Eijiro Tono), che trascura la moglie Asa (Eiko Miyoshi), gravemente malata; il "Principe" (Minoru Chiaki), sedicente ex samurai caduto in disgrazia; un anziano attore alcolizzato (Kamatari Fujiwara), che rimpiange i tempi in cui calcava le scene; la prostituta Osen (Akemi Negishi), perduta in vane illusioni romantiche; l'ex carcerato Yoshisaburo (Koji Mitsui), ora cinico giocatore d'azzardo; la candeliera Otaki (Nijiko Kiyokawa), che vede la sua merce al mercato rionale; e soprattutto il ladro Sutekichi (Toshiro Mifune), amante della padrona di casa (che cerca addirittura di convincerlo ad ammazzare l'anziano consorte) ma in realtà innamorato della sorella minore della donna, l'onesta Okayo (Kyoko Kagawa), perennemente sfruttata e maltrattata dai crudeli parenti. L'arrivo di un misterioso viandante, un vecchio senza nome che si stabilisce per breve tempo nella baracca, recherà momentaneamente sollievo alle sofferenze fisiche e psicologiche di tutti: l'uomo, nel ruolo di confidente, filosofo, ascoltatore e dispensatore di pillole di saggezza, riuscirà a stimolare improbabili sogni di riscatto e di evasione, anche elargendo bugie pietose a chi ha bisogno disperatamente di un sostegno. "Quel vecchio capiva tutto, vedeva dentro le persone", diranno di lui. Ma dopo la sua partenza, il tragico incedere degli eventi riporterà lo sconforto fra gli abitanti del dormitorio. Kurosawa rilegge il dramma realista di Gorkij (da noi noto anche come "L'albergo dei poveri") collocandolo nel Giappone dell'epoca Edo, spogliandolo di ogni accenno di protesta sociale e leggendolo in chiave puramente esistenzialista. Utilizzando praticamente due soli ambienti (il dormitorio e il cortiletto adiacente), e dunque senza rinnegare l'origine teatrale del testo originale, il regista nipponico realizza un desolante affresco sulla "condizione umana", empatizzando con tutti i suoi personaggi ma evitando eccessi di retorica, patetismo e giudizi morali. L'attenzione alla psicologia dei singoli personaggi, anche di quelli minori (cosa che mancava, invece, nella versione del dramma girata da Jean Renoir nel 1936) rende il film un piccolo capolavoro corale, con inaspettati momenti comici che trasfigurano il melodramma in una "tragicommedia dell'assurdo". Memorabili, per esempio, i canti e il balletto che gli ospiti del dormitorio improvvisano mentre bevono sakè o giocano a carte. Grande il cast: fra gli interpreti spicca l'anziano comico Bokuzen Hidari (che era stato il contadino Yohei ne "I sette samurai") nel panni del vecchio viandante. Da notare che si tratta dell'ultimo film di Kurosawa girato nel formato Academy (ovvero in 4:3): dal successivo "La fortezza nascosta", il regista passerà al Cinemascope. L'attenzione verso le fasce più povere ed emarginate della popolazione, peraltro già presente in gran parte delle sue opere precedenti, verrà posta da Kurosawa anche in due film successivi, "Barbarossa" e "Dodes'ka-den", che alcuni critici hanno accumunato a questo in un'ideale "trilogia della miseria".

2 giugno 2011

Cirkus Columbia (D. Tanović, 2010)

Cirkus Columbia (id.)
di Danis Tanović – Bosnia-Erzegovina 2010
con Miki Manojlović, Jelena Stupljanin
**1/2

Visto al cinema Eliseo, con Hiromi.

Dopo vent'anni trascorsi in Germania, dove si è arricchito, Divko approfitta della caduta del comunismo (siamo nel 1991) per tornare nel suo villaggio natale in Bosnia-Erzegovina a sfoggiare soldi, automobile e giovane amante, e a sfrattare di casa la moglie e il figlio (con cui non ha rapporti da anni) per insediarvicisi con la sua nuova donna e il suo amatissimo gatto nero portafortuna. Ma ignora che i delicati equilibri su cui si regge la nuova situazione politica stanno per saltare, e che siamo alla vigilia della sanguinosa guerra di dissoluzione della Jugoslavia. A fianco delle tensioni famigliari (l'odio/amore fra Divko e le sue due donne; il rapporto con il figlio Martin, giovane radioamatore) ci sono quelle ben più delicate, e che dividono l'intero paese, fra serbi e bosniaci. Tanović, che già aveva affrontato il tema della guerra nei balcani con sensibilità e umorismo nel suo film d'esordio "No Man's Land", ritorna sull'argomento mantenendo i toni – almeno in superficie – della commedia e guardando in parte a Kusturica (gatti compresi). Il protagonista Miki Manojlović (già visto proprio in molti film del regista serbo, compreso "Underground") assomiglia sempre di più a Walther Matthau. Bravi gli attori, sceneggiatura un po' sfilacciata, ma il finale (con le bombe che esplodono mentre i due innamorati fanno un ultimo giro sulle giostre del "Cirkus Columbia", appunto) commuove e scuote.

1 giugno 2011

The wholly family (T. Gilliam, 2011)

The wholly family (id.)
di Terry Gilliam – Italia 2011
con Nicolas Connolly, Cristiana Capotondi
**1/2

Visto al cinema Eliseo, con Hiromi.

Una famiglia di turisti americani cammina per le strade e i vicoli di Napoli, dove il bambino rimane talmente affascinato da una statuetta di Pulcinella da rubarla quando i genitori si rifiutano di comprargliela. Di notte la statuetta si animerà, e con l’aiuto di una serie di Pulcinella in carne e ossa lo trasporterà in un viaggio onirico e inquietante fra catacombe, ospedali, ristoranti e sale da ballo. Al risveglio, saprà come riportare la pace fra i litigiosi genitori: e anche la sua famiglia potrà dirsi felice come quelle ritratte dalle figurine del presepe che i venditori espongono per la strada. Parte di una serie di short “sponsorizzati” da una nota marca di pasta per rilanciare l’immagine di Napoli (i film precedenti sono stati realizzati da Pappi Corsicato e Valeria Golino), proiettato nelle sale in abbinamento a "Cirkus Columbia" di Danis Tanovic, questo cortometraggio di 20 minuti può vantare tutta la cattiveria, l’ironia e la visionarietà tipiche di Terry Gilliam. I grotteschi Pulcinella (fra i vari attori spicca Renato De Maria) che offrono piatti su piatti di pasta al piccolo protagonista e che lo guidano in un viaggio notturno alla ricerca dell’armonia famigliare perduta non si dimenticano facilmente. Se nella sequenza del sogno non mancano momenti degni del miglior surrealismo (si pensi al reparto maternità dell’ospedale, con i bambini che nascono dalle uova e il piccolo protagonista che, gettato via dalla madre, va in pezzi come un bambolotto), anche quando ritrae il mondo “reale” l’ex Monty Python non si limita a mostrare gli aspetti più patinati e folcloristici di Napoli ma anche quelli che agli occhi di un inglese o di un americano possono sembrare più sgradevoli o scioccanti (le montagne di spazzatura, l’invadenza anche “fisica” degli abitanti).