Diario di un curato di campagna (R. Bresson, 1951)
Diario di un curato di campagna (Journal d'un curé de campagne)
di Robert Bresson – Francia 1951
con Claude Laydu, Nicole Ladmiral
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Visto in divx.
Un giovane curato (Laydu), appena uscito dal seminario, viene assegnato alla parrocchia di Ambricourt, piccolo paese di campagna nel nord della Francia. Umile e ascetico, il giovane si sente a disagio nella sua missione, essendo fra l'altro poco interessato ai bisogni materiali (al punto da trascurare anche la propria salute, decisamente cagionevole) e semmai più incline al misticismo. Anche per questo motivo non è ben visto dai suoi parrocchiani: le bambine del catechismo lo sbeffeggiano e – poiché si nutre solo di pane e di vino – si sparge la voce che sia un alcolizzato. Come da titolo, il curato affida i suoi pensieri e le sue preoccupazioni alle pagine di un diario, che vengono lette dalla sua voce narrante nell'arco di tutta la pellicola: all'inizio è un modo per documentare i piccoli episodi della vita quotidiana, ma poi si traduce in un tentativo di fare chiarezza nei tormenti dello spirito. Ben diverso da lui è l'anziano e pragmatico curato del vicino villaggio di Torcy (Adrien Borel), che oltre a consigliargli di "pregare di più" gli suggerisce di stringere relazioni più strette con i suoi parrocchiani, in particolare con la nobiltà del luogo. Tutto ciò comporterà però ulteriori incomprensioni: mentre l'anziana contessa (Rachel Berendt) si strugge nel ricordo del figlio morto, il conte (Jean Riveyre) ha una relazione clandestina con l'istitutrice della figlia Chantal (Nicole Ladmiral), la quale è una ragazzina piena d'odio, che nutre sentimenti ambivalenti verso il giovane prete. Le parole del curato aiuteranno la contessa a ritrovare la pace, superando solitudine e rassegnazione, ma non ridurranno l'ostilità nei suoi confronti. Il tutto mentre la sua salute peggiora sempre di più... Il terzo film di Bresson – tratto dall'omonimo romanzo di Georges Bernanos – è considerato quello della sua svolta stilistica, in cui la qualità poetico-letteraria si accompagna a uno stile asciutto e minimalista che non concede alcunché al melodramma o allo spettacolo, a costo di risultare un po' pesante durante la prima visione (le visioni ripetute, però, sono quanto mai ripaganti!). Il regista francese comincia qui a usare attori non professionisti o comunque alle prime armi (per Laydu si tratta dell'esordio), la cui recitazione austera pare a volte quasi assente. Il suo diventa un cinema di sottrazione, che sullo schermo mostra solo l'indispensabile (e cela tantissimi dettagli: per esempio ignoriamo del tutto il nome del protagonista) e che pure crea forti suggestioni nella mente dello spettatore. A concorrere a questo risultato ci sono anche gli scenari e la fotografia contemplativa, che calano la vicenda in un mondo senza tempo, una specie di limbo al di fuori della modernità (se si eccettua la scena con la motocicletta, il film potrebbe svolgersi in qualsiasi epoca; per la cronaca, il romanzo originale è del 1936): un ambiente ideale per parlare di argomenti come le sofferenze dello spirito e del corpo, la felicità e la rassegnazione, l'amore e l'odio, il rancore e il perdono, il tormento e la pace ("La pace: quanto è meraviglioso che si possa donare quel che non si ha").
2 commenti:
Robert Bresson non ha mai deluso, i suoi film "minori", se ci sono, sono solo bellissimi
Sono d'accordo! Comunque finora, fra quelli che ho visto, il mio preferito è "Un condannato a morte è fuggito".
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