31 gennaio 2016

Medea (Pier Paolo Pasolini, 1969)

Medea
di Pier Paolo Pasolini – Italia/Fra/Ger 1969
con Maria Callas, Giuseppe Gentile
***1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Dopo l'"Edipo Re" di due anni prima, Pasolini firma un altro adattamento cinematografico di una tragedia greca, scegliendo questa volta la "Medea" di Euripide, di cui realizza una versione impressionante sotto tutti i punti di vista. E in particolare sotto l'aspetto visivo: i colori, i costumi e le scenografie sovrastano a tratti le parole, soprattutto in una prima parte (quella che narra l'antefatto della tragedia, ovvero la nascita di Giasone, la sua ricerca del Vello d'Oro, l'arrivo nella Colchide dove lui e gli Argonauti vengono aiutati da Medea, e il ritorno a Corinto) fatta di silenzi, sguardi, canti e riti ancestrali. Fra questi spicca il sacrificio umano per donare fertilità ai campi, una sorta di abbattimento del capro espiatorio, veicolato da una religione pagana cui Medea appartiene in tutto e per tutto: non a caso, a sua volta, sacrifica il fratello e ne smembra il corpo pur di facilitare la fuga degli Argonauti, in una scena che dunque introduce da subito la parte più sanguinaria del personaggio, anche se in questo caso non è mossa da odio o rancore ma dall'amore. Il tutto esplicita nella maniera più efficace (e visiva) possibile il tema generale della natura violenta dell'uomo, addomesticata e incanalata attraverso i riti e la religione, ma pronta a riaffiorare in ogni momento se spinta da passioni come l'ira, la gelosia e la vendetta. Se la parte ambientata nella Colchide è stata girata da Pasolini in Cappadocia (i paesaggi mozzafiato, i campi e le pietre rendono meravigliosamente l'idea di un mondo lontano), per portare sullo schermo Corinto il regista ha scelto nientemente che la piazza dei Miracoli di Pisa, le cui architetture rinascimentali ben simboleggiano un regno più moderno e civilizzato. Non a caso Medea, donna appartentente a un mondo più "arcaico" e antico, vi si scopre spaesata. E di fronte al tradimento di Giasone, che la lascia con l'intenzione di sposare la giovane figlia del re Creonte, progetta una tremenda vendetta. Questa, curiosamente, viene (almeno in parte) mostrata sullo schermo due volte: Pasolini lascia infatti che Medea prima la immagini, come in una visione (in questo caso la veste che regala a Glauce prende fuoco), e poi la attui davvero (con una veste che la rende folle), ripetendo diverse sequenze pari pari. Allo stesso modo, nella Colchide, la donna aveva avuto una visione dell'arrivo di Giasone. In effetti – e questo spiega il carattere onirico e allucinatorio di diverse sequenze – il film inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi "Visioni della Medea".

Se Giasone è interpretato dall'atleta Giuseppe Gentile (medaglia di bronzo nel salto triplo alle Olimpiadi del 1968), per il ruolo di protagonista Pasolini scelse la cantante lirica Maria Callas (alla prima e unica esperienza come attrice cinematografica), sua grande amica, che non solo era greca per nascita, ma l'anno prima era stata lasciata da Aristotele Onassis: non aveva figli da uccidere né poteri magici, ma – chissà! – se avesse potuto, magari avrebbe incenerito volentieri Jacqueline Kennedy! In quanto nipote di Elio, Medea trae i suoi poteri magici dal Sole, e questo viene esplicitato in una scena. Una certa enfasi, però, viene data anche alla Luna, corpo celeste "femminile" per eccellenza, e se vogliamo collegato alla Callas attraverso la "Norma" di Bellini ("Casta diva..."). La luna, in generale, risveglia l'arcaico potere dentro la donna: anche dentro l'uomo, però, c'è un sapere antico, che nel film è rappresentato dal centauro Chirone, mentore di Giasone, che lo accompagna durante tutte le fasi della crescita all'inizio della pellicola (educandolo sul ruolo della natura e degli dei) e che poi ricompare in due distinte forme (centauro e umano), spiegandogli come i miti siano qualcosa che fa parte di lui, degli archetipi che accompagnano l'uomo anche in età adulta e civilizzata. La voce di Chirone (l'attore è il francese Laurent Terzieff) è di Enrico Maria Salerno. Furono doppiati anche Medea (Rita Savagnone) e Giasone (Pino Colizzi), che peraltro condividono ben pochi dialoghi in un film fatto di silenzi: il loro innamoramento, ma anche la separazione, è narrato per immagini, e l'unico momento in cui i due si confrontano a parole è nel finale, quando ormai la tragedia è compiuta. Il resto del cast comprende Massimo Girotti (Creonte), Margareth Clementi (Glauce) e Annamaria Chio (la nutrice). Qualche accenno merita anche la suggestiva colonna sonora, che come in "Edipo Re" Pasolini ha riempito di sonorità lontane ed arcaiche, compresa una preghiera giapponese. Nel complesso, un film ricco di forza e di significati che vanno al di là dei semplici eventi narrati, "universale" come lo erano le tragedie greche e come è il miglior cinema che sa superare i propri confini, opera non solo di un grande regista ma in generale frutto di una stagione in cui il cinema italiano (ed europeo) sapeva lanciare uno sguardo verso l'esterno, con un'attenzione ad altri mondi e altre culture e un approccio quasi etnografico (si pensi ai colori, ai costumi, ai canti) che fonde alla perfezione la profondità dei contenuti con la potenza delle immagini.

4 commenti:

Marisa ha detto...

Bellissimo commento. Pasolini al meglio. peccato che non ha inserito nei commenti musicali proprio quella "Casta diva" , cavallo di battaglia della divina Callas e appropriatissimo sfodo lunare archetipico delle religioni arcaiche. Forse gli è sembrato troppo scontato, a lui che creativamente cercava sempre nuove e spiazzanti soluzioni.
Comunque ho recentemente riletto l'opera fondamentale del grande studioso Renè Girard e la visione della civiltà alla luce dei sacrifici basati sul "capro espiatorio" mi sembra sempre più suggestiva e illuminante. Tutte le istituzioni religiose con i loro riti fondamentali e il grande sforzo delle istituzioni civili di dare forma e addomesticare la distruttività e la violenza umana, si basano proprio sul tentativo, sempre da ripetere, di allontanare la violenza distruttiva dal nostro gruppo e proiettarla sul "Nemico esterno", uccidendolo ritualmente o attraverso la guerra (sempre benedette dalle religioni ufficiali) o, in modo più sottile e sofisticato, nei mille modi di screditamento, calunnie e razzismi vari che riusciamo a produrre. Tutto pur di ricompattare il nostro gruppo e ipocritamente o ingenuamente riaffermare la nostra superiore "civiltà" e "bontà". Tutti contro uno, come già nel fenomeno del bullismo a scuola , si impara...

Christian ha detto...

In effetti mettere "Casta Diva" nella colonna sonora sarebbe stato ridondante... Il collegamento era già chiaro attraverso le immagini, con l'inquadratura della luna fuori dalla finestra (anche se poi le parole esplicitano il legame mitologico di Medea con il sole, più che quello della Callas – e delle donne in generale – con la luna).

Quello che mi ha colpito di questo film, come ho scritto, è l'attenzione che il cinema italiano di allora prestava ai mondi, alle culture, ai popoli e ai paesi lontani (Ok, qui si tratta di Pasolini, ma non era solo: anche Bertolucci e Antonioni, più tardi, si sono rivolti all'India o alla Cina). Oggi, invece, raramente i nostri registi mostrano il benché minimo interesse a ciò che è/era fuori dai confini italici, tantomento ai paesi "poveri" e del Terzo Mondo, se non per ambientarci tragicomiche vicende di italiani in vacanza.

È vero che nel caso di Medea si tratta di una storia "univesale", come suggerisci anche tu con le tue riflessioni sul "capro espiatorio", ma in quegli anni Pasolini realizzava anche i documentari su Palestina, India, Africa, Yemen, ecc.

Dopo cinquant'anni, c'è un nuovo Pasolini? Io non ne vedo...

Ernesto ha detto...

Ciao, Christian. Secondo me l'interesse italiano di una volta per i mondi lontani era ancora simile a quello di Salgari, cioè uno sguardo affascinato e ingenuo verso una realtà troppo lontana e poco raccontata, ma che con suoi misteri, esotismi e "stranezze" stuzzicava la curiosità degli spettatori italiani (non per niente è lo stesso periodo dei film di Jacopetti coi cannibali). Negli anni '60 il mondo era ancora molto grande e misterioso. Poi la gente ha cominciato ad avere maggiori possibilità di viaggiare personalmente in quei posti che una volta poteva solo sognare, e il materiale per conoscerli è diventato sempre maggiore. Di documentari come quelli di Pasolini ce n'erano pochi e poche erano le possibilità di vederli. Adesso puoi vedere documentari fatti da chiunque in qualunque posto del mondo, puoi vedere film cinesi, finlandesi, coreani, iraniani… Non che non possano esserci sguardi italiani su paesi diversi, ma se voglio vedere il Giappone mi rivolgo ai registi giapponesi (e non alla Coppola, per esempio) - e ogni volta, ad esempio, che leggo un fumetto italiano con personaggi giapponesi lo trovo falso e artefatto e non ne sento affatto il bisogno. Se voglio vedere l'Italia mi devo rivolgere ai registi italiani (e non a Woody Allen, Minghella o tutti gli americani che raccontano un'Italia da cartolina) e il compito degli italiani adesso secondo me è proprio cercare di raccontare il proprio paese e tutti i mondi che ci sono dentro (infatti c'è stato spesso il tentativo di raccontare storie di immigrati, africani, cinesi, albanesi…). E già questo è difficile farlo, perché l'Italia di oggi non è più quella di Pasolini.

Christian ha detto...

Su questo hai perfettamente ragione: anch'io, e pure di recente, ho criticato alcuni film ambientati in luoghi diversi da quelli di origine dei cineasti, trovandoli "fasulli" e affermando che avrei preferito uno sguardo locale e dunque più autentico.

Quello di cui forse ho nostalgia, in realtà, è un tipo di cinema che sia interessato a guardare al mondo "di fuori" con la stessa sensibilità e la stessa sincerità con cui guarda dentro di sé. Non a caso certi grandi maestri – i citati Antonioni e Bertolucci, per esempio – erano al tempo stesso "provinciali", legatissimi al territorio delle proprie radici, e "universali", capaci di andare a girare in qualsiasi parte del mondo. Un altro esempio, non italiano, è Herzog.

Pasolini rimane comunque un caso a sé, per il suo sguardo più culturale che turistico e per la sua capacità di cogliere il nocciolo delle cose (tanto che non si faceva problemi a girare il "Vangelo" in Basilicata anziché in Palestina).