31 dicembre 2015

Il prezzo dell'inganno (Irving Rapper, 1946)

Il prezzo dell'inganno (Deception)
di Irving Rapper – USA 1946
con Bette Davis, Paul Henreid, Claude Rains
***

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Il violoncellista Karel Novak (Henreid), fuggito dall'Europa dopo la guerra, ritrova a New York la sua fidanzata di un tempo, Christine (Davis), e la sposa immediatamente, ignorando che nel frattempo è diventata l'amante del celebre e potente compositore Alexander Hollenius (Rains). Quest'ultimo affida a Karel la parte di solista nel suo nuovo concerto, ma Christine teme che si tratti solo di uno stratagemma per prendersi la rivincita su di lui e umiliarlo. E in effetti Hollenius sembra giocare al gatto e al topo con Karel, provocandone la gelosia con accenni e comportamenti allusivi, e minacciando di rivelargli la verità sui suoi rapporti con Christine. Ispirato al dramma teatrale "Monsieur Lamberthier" di Louis Verneuil (già portato sullo schermo nel 1929, "Gelosia", con Fredric March), un melodramma romantico a sfondo musicale costruito su un triangolo ad alta tensione, dove i rapporti fra i personaggi scorrono su più piani (quello sessuale, quello professionale, quello dei rapporti di forza, esemplificati in quest'ultimo caso dai ruoli di compositore/conduttore e di esecutore che si stabiliscono durante le prove del concerto). Imprigionata fra i due uomini, il marito povero e geloso e l'amante ricco e manipolatore, la figura centrale è però quella della donna, che ama il primo ma che vive il tormento di essersi affidata al secondo nel momento di maggior bisogno, venendo ora costretta a pagare "il prezzo dell'inganno", come recita il titolo italiano. La regia elegante di Rapper, ben coadiuvata dalla fotografia di Ernest Haller e dai sontuosi set di George James Hopkins (memorabili in particolare le abitazioni, il loft di Christine con grande vetrata su New York e la lussuosa dimora di Hollenius), sono al servizio delle prove convincenti dei tre interpreti, che erano già apparsi insieme in un precedente film dello stesso regista, "Perdutamente tua", del 1942. A fianco di un Rains sornione e carismatico come non mai (da incorniciare la scena in cui fa le ordinazioni al ristorante francese) e di un Henreid che dà vita a un personaggio fragile e insicuro, brilla una Davis sensuale e tormentata al tempo stesso, una delle (innumerevoli) figure femminili sfaccettate che hanno caratterizzato il cinema noir americano di quegli anni. I brani di Hollenius sono stati in realtà composti da Erich Wolfgang Korngold, che in seguito li espanderà in un completo concerto per violoncello.

29 dicembre 2015

La storia fantastica (Rob Reiner, 1987)

La storia fantastica (The princess bride)
di Rob Reiner – USA 1987
con Robin Wright, Cary Elwes
**1/2

Rivisto in TV.

Il nipotino è a letto malato, e il nonno (Peter Falk) lo intrattiene leggendogli una fiaba. Si tratta di un racconto che al suo interno ha un po' di tutto: avventura, azione, pirati, spadaccini, mostri, principesse, duelli, vendetta e una storia d'amore che il bambino, all'inizio recalcitrante, scoprirà di apprezzare. Pur sguazzando nei luoghi comuni e nei cliché delle favole di ambientazione medievale, con personaggi stereotipati e improbabili, sviluppo lineare e finale prevedibile, l'insieme è in effetti coinvolgente ed emozionante, tanto che la pellicola – tratta da un romanzo di William Goldman (già sceneggiatore di tanti classici cinematografici, e che qui ha contribuito all'adattamento) – è diventata un piccolo cult movie per tutti coloro che l'hanno vista, da piccoli o da adolescenti, negli anni ottanta. Merito della capacità di intrattenere con ironia e leggerezza, ma senza sfociare nella parodia o nello sberleffo (le fiabe, si sa, a loro modo devono essere prese sul serio). Reiner dirige con semplicità, potendo contare sulla simpatia dei personaggi (e la cattiveria dei cattivi), su diversi spunti ironici (i "Roditori Taglie Forti"), un gran numero di frasi citabili e tormentoni ("Hola! Mi nombre es Inigo Montoya...") e il piacere che si prova – noi come il bambino al quale la storia viene raccontata – nell'assistere al lieto fine. Tutto – dai costumi ai set (sembra di essere nei film medievali di venti-trent'anni prima, anche perché sono assenti effetti speciali o grafica digitale), dai dialoghi alla recitazione – si adegua alla dimensione della fiaba narrata, con l'unico scopo di emozionarsi e divertirsi. Obiettivo che viene pienamente raggiunto: in fondo non è un merito da poco. Il cast, che vede il debutto sul grande schermo di Robin Wright (futura signora Penn) nei panni della giovane Bottondoro, la ragazza innamorata del garzone (poi pirata) Westley (Cary Elwes) ma costretta a sposare il perfido principe Humperdinck (Chris Sarandon), comprende anche il wrestler André the Giant, Mandy Patinkin (rispettivamente il gigantesco Fezzik e lo spadaccino Montoya), Christopher Guest (il malvagio conte Rugen, "El hombre con sei dita"), Wallace Shawn (il sicario siciliano Vizzini), Mel Smith (il torturatore albino) e Billy Crystal (Max dei Miracoli, sotto una montagna di trucco). La colonna sonora è di Mark Knopfler dei Dire Straits.

28 dicembre 2015

Edipo Re (Pier Paolo Pasolini, 1967)

Edipo Re
di Pier Paolo Pasolini – Italia 1967
con Franco Citti, Silvana Mangano
***

Rivisto in divx alla Fogona, con Marisa.

Abbandonato a morire dal padre Laio, re di Tebe, il neonato Edipo (il nome significa “piedi gonfi”, perché trovato legato con una robusta corda alle caviglie) viene adottato dai sovrani di Corinto come fosse loro figlio. Una visita al santuario di Apollo a Delfi gli rivela di essere destinato ad assassinare suo padre e ad accoppiarsi con sua madre. Edipo sceglie allora di non tornare a Corinto, ma la sorte lo condurrà proprio a Tebe, dove il suo destino si compirà. Nel suo primo film a colori (se si eccettuano gli inserti de "La ricotta"), Pasolini rivisita la tragedia di Sofocle con l'intenzione di fare del personaggio una metafora dell'uomo moderno, in preda a forze su cui non ha controllo, e colpevolmente cieco dei suoi stessi peccati (la cosiddetta "colpevolezza dell'innocenza"): una lettura storica e sociale (uccidere il padre e possedere la madre, per l'uomo occidentale, significa strumentalizzare il passato e sfruttare la terra) che sovrasta quelle individuali e autobiografiche, pure inevitabili (ricordiamo come Pasolini avesse scelto la propria madre per interpretare la madonna nel "Vangelo secondo Matteo"!). Che si tratti di una metafora lo rivela un elemento chiave: il salto di collocazione cronologica. Le riprese furono effettuate in gran parte nel deserto del Marocco, fra villaggi e antiche roccaforti, e con costumi poveri, tribali e arcaici che veicolano la natura storica e ancestrale della vicenda. Ma l'incipit – che mostra la nascita di Edipo e l'insorgere della gelosia di suo padre Laio ("Tu sei qui per prendere il mio posto nel mondo, ricacciarmi nel nulla e rubarmi tutto quello che ho") – è collocato nell'Italia degli anni venti, mentre nel finale Edipo vaga cieco (accompagnato dall'”angelo” Ninetto Davoli) per le strade, le fabbriche e le città (si riconosce Bologna) dell'Italia contemporanea, fino a tornare nel luogo dove tutto aveva avuto inizio, ovvero la fattoria/cascina dove era nato e i campi che la circondano (gli stessi scenari, curiosamente, che una decina di anni più tardi faranno da sfondo a "Novecento" di Bertolucci): come a voler suggerire che l'intera tragedia è quella che il paese ha vissuto negli anni del fascismo e della seconda guerra mondiale, con tanto di tentativo inutile di ribellarsi al proprio destino.

Anche per questo motivo, Pasolini mette in particolare risalto alcune caratteristiche del personaggio come la competitività (la scena in cui gioca con i compagni a Corinto, “barando” pur di vincere) e la violenza (su tutte, la prolungata sequenza in cui uccide Laio e i suoi soldati di scorta). Per non parlare della cecità, della gelosia, della ricerca del capro espiatorio. La contrapposizione fra la Grecia antica, "il mondo della verità, delle radici storiche e culturali", e l'Italia del novecento, ostaggio della tirannia della borghesia, non potrebbe essere più evidente: naturale che lo stesso Edipo vi si trovi come un pesce fuor d'acqua, vittima suo malgrado di forze esterne e di un destino contro il quale si batte inutilmente ("reso cieco dalla volontà di non sapere cio che è, di ignorare la terribile verità della propria condizione, prosegue il cammino verso la catastrofe"). Nel cast, in cui il regista si ritaglia un ruolo minore (il sacerdote tebano che va da Edipo a comunicargli dell'epidemia di peste), spicca Silvana Mangano nel ruolo di Giocasta, con un volto truccato per essere “fuori dal tempo”: occhi neri e profondi, assenza di sopracciglia, capelli raccolti alla foggia greca. Franco Citti torna a essere protagonista di una pellicola pasoliniana dopo “Accattone”, mentre Carmelo Bene è Creonte, Alida Valli è Merope, Julian Beck (fondatore del Living Theatre) è il veggente cieco Tiresia. Le musiche, curate dallo stesso PPP, alternano sonorità "antiche" con flauto e percussioni (alcune delle quali derivate dal teatro giapponese) con brani di musica classica (il "Dissonanzen Quartett" di Mozart). Durante la lavorazione del film, il regista stava curando contemporanemante un nuovo progetto, "Teorema", che in fondo affronta in modo diverso lo stesso tema dell'infrazione del tabù sessuale familiare. Quanto all'estetica e alla poetica generale, proprio da "Edipo Re" comincia a imporsi sullo schermo la particolare attenzione di Pasolini al Terzo Mondo, ai popoli lontani, alle loro culture e ai loro volti (dopo che, per il "Vangelo secondo Matteo", aveva invece preferito fare tutto "in casa", ovvero girando in Italia anziché – come previsto in un primo momento – in Palestina) che, attraverso i documentari sull'India e sull'Africa, culminerà due anni dopo con un'altra tragedia greca, la "Medea".

26 dicembre 2015

Capriccio all'italiana (Monicelli, Steno, Pasolini, et al., 1968)

Capriccio all'italiana
di Mario Monicelli, Steno, Mauro Bolognini, Pier Paolo Pasolini, Franco Rossi – Italia 1968
con Totò, Walter Chiari, Silvana Mangano
**

Visto in divx.

Come e ancor più che nei precedenti film ad episodi ai quali aveva contribuito (ovvero "Ro.Go.Pa.G.", con il segmento "La ricotta", e "Le streghe", con "La terra vista dalla luna"), in questo lungometraggio collettivo Pasolini svetta sui suoi colleghi con l'episodio non solo migliore del lotto, ma anche l'unico che francamente vale la pena di vedere: e non solo per meriti artistici, ma anche perché si tratta dell'ultima apparizione sul grande schermo di Totò, che sarebbe scomparso di lì a poco, senza nemmeno aver visto il film completato. Il corto di Pasolini, una poetica riflessione sul teatro (a partire da una recita dell'Otello di Shakespeare con le marionette), coinvolge tanti nomi celebri dello spettacolo e della comicità italiana (oltre al principe De Curtis, anche Domenico Modugno, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Laura Betti e altri ancora). Per il resto, da salvare solo in parte gli episodi di Steno (anche questo con Totò) e di Bolognini con Walter Chiari e Ira Fürstenberg, se non altro per curiosità legate a fenomeni sociali allora in voga, in primis la moda dei "capelloni", i ragazzi beat che impazzavano negli anni '60. Gli altri tre episodi (interpretati – come ne "Le streghe" – da una multiforme Silvana Mangano, che il marito-produttore Dino De Laurentiis amava infilare un po' ovunque) sono brevissimi e da dimenticare: nient'altro che barzellette poco divertenti.

"La bambinaia", di Mario Monicelli (*), con Silvana Mangano
Dopo aver rimproverato un gruppo di bambini che stavano leggendo fumetti violenti e "diseducativi" (Diabolik, Satanik, Kriminal), una bambinaia – che parla con forte accento tedesco – legge loro le fiabe di Perrault: ma i piccoli, spaventati e impauriti, piangono (mentre con i fumetti ridevano).

"Il mostro della domenica", di Steno (*1/2), con Totò e Ugo D'Alessio
Un uomo che disprezza i giovani capelloni si traveste in varie maniere per adescarli e sequestrarli. Soprannominato "Il mostro" dai giornali, viene infine arrestato dalla polizia. Ma quando scopre che si limitava a rapare a zero i giovani, il commissario lo lascia libero, incaricandolo anzi di tagliare i capelli anche al proprio figlio. Da salvare soltanto per Totò e i suoi travestimenti.

"Perché?", di Mauro Bolognini (*), con Silvana Mangano ed Enzo Marignani
Nel traffico di rientro in città dopo l'esodo di fine settimana, una donna tormenta il marito affinché vada più veloce, spingendolo infine ad aggredire un altro automobilista.

"Che cosa sono le nuvole?", di Pier Paolo Pasolini (***1/2),
con Totò e Ninetto Davoli
Una compagnia di marionette porta in scena l'"Otello". Ma il pubblico in sala si ribella contro le perfidie di Iago, e sale sul palco per aggredire lui e lo stesso Otello prima che uccida Desdemona. Le due marionette, malridotte, verranno gettate in una discarica, dove per la prima volta potranno guardare il cielo sopra di loro: "Oh, straziante, meravigliosa bellezza del creato!". Radunando amici (il poeta Francesco Leonetti, nel ruolo del marionettista; il cantante Domenico Modugno, l'immondezzaio, che intona una canzone scritta dallo stesso Pasolini) e celebri comici italiani (Franco e Ciccio, Carlo Pisacane, Mario Cipriani, Laura Betti, Adriana Asti), oltre all'ormai collaudata coppia Totò/Ninetto Davoli, il regista mette in scena una poetica riflessione sull'arte e la vita ("Siamo in un sogno dentro un sogno", spiega Totò a un perplesso Ninetto). Se sul palcoscenico le marionette – legate ai fili e manovrate dal burattinaio – recitano il loro copione, dietro le quinte le vediamo "libere" di riflettere, commentare e filosofeggiare sull'esistenza, i sentimenti e il destino ("Qual è la verità?", "Cosa sento dentro di me?"). Otello (Davoli), essendo stato costruito da poco e quindi appena nato, è pieno di curiosità e di stupore: chiede il perché di ogni cosa (sarà lui nel finale a esprimere la domanda che dà il titolo all'episodio), mentre Iago (un Totò dal volto colorato di verde, simbolo dell'invidia e dell'odio) è "cattivo" solo mentre recita la sua parte: per il resto elargisce con paterna comprensione massime di saggezza. All'inizio, i cartelloni che pubblicizzano gli spettacoli della compagnia di marionette fanno riferimento a lavori precedenti ("La terra vista dalla luna") e futuri ma mai realizzati ("Le avventure del re magio randagio", "Mandolini") di Pasolini con la coppia Totò-Ninetto, tutti tasselli di un ciclo "comico", parallelo al resto della sua filmografia, che era cominciato con "Uccellacci e uccellini" e termina purtroppo qui, prematuramente, a causa della morte del comico partenopeo. Il regista (che contemporaneamente stava già lavorando all'adattamento cinematografico di "Edipo Re") virerà per alcuni anni in un'altra direzione (quella delle tragedie greche e dei ritratti dei paesi del Terzo Mondo), per poi riprendere il progetto in mano – con l'intento di reclutare Eduardo De Filippo al posto di Totò – negli ultimi mesi prima della sua morte.

"Viaggio di lavoro", di Pino Zac e Franco Rossi (*), con Silvana Mangano
La sovrana di uno stato europeo, durante un viaggio in vari paesi dell'Africa, scatena un incidente diplomatico quando confonde uno stato per un altro. Parzialmente in animazione.

"La gelosa", di Mauro Bolognini (*1/2), con Ira Fürstenberg e Walter Chiari
Dopo una serata trascorsa a ballare, una ricca coppia litiga, con lui che la rimprovera di essere troppo gelosa. I due fanno un patto: cercheranno di avere fiducia l'uno dell'altro, senza farsi domande. Ma quando lo vede uscire vestito di tutto punto, la donna lo pedina fino a un appartamento, dove lo scopre in mutande... Si trattava però solo di una sartoria.

22 dicembre 2015

Star Wars: Il risveglio della forza (J.J. Abrams, 2015)

Star Wars: Il risveglio della forza
(Star Wars: The Force Awakens)
di J.J. Abrams – USA 2015
con Daisy Ridley, John Boyega
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina, Marisa, Monica e Roberto.

A dieci anni di distanza dalla conclusione della trilogia di prequel, la saga di "Guerre stellari" torna al cinema con quello che costituisce, in tutti i sensi, un nuovo inizio. Il creatore della serie, George Lucas, scottato forse anche dalle molte critiche ricevute dopo gli ultimi film, ha venduto la franchise alla Disney, che dal suo canto non si è fatta pregare per mettere subito in cantiere una nuova trilogia di pellicole (a questo "Episodio VII" – anche se tale dicitura compare nel cartello introduttivo ma non nel titolo ufficiale – seguiranno, nel giro di pochi anni, i già previsti "Episodio VIII" ed "Episodio IX"), di cui la prima, se non altro, dimostra subito una cosa: che altri hanno compreso molto meglio di Lucas quali sono gli elementi alla base del successo della serie. Poiché i primi sei film cinematografici sembravano aver esaurito completamente la grande trama di Anakin Skywalker/Darth Vader e della lotta fra la Repubblica e l'Impero, è stato necessario creare nuovi personaggi e una nuova minaccia. E forse per non scontentare i fan, ma allo stesso tempo per dar loro quello che si aspettavano di vedere, il regista J.J. Abrams e gli sceneggiatori Michael Arndt e Lawrence Kasdan (quest'ultimo di ritorno nella saga dopo 42 anni!) hanno scelto di realizzare quasi un remake della pellicola del 1977, quella che aveva dato origine a tutto, di cui il nuovo film ripropone trama e situazioni praticamente in scala 1:1. Se la mancanza di originalità può dunque sollevare qualche perplessità, in un certo senso essa è anche uno dei pregi dell'intera operazione, visto che consente di evitare tutti gli errori e le scivolate commesse da Lucas nei prequel e di recuperare invece quelle atmosfere e caratteristiche che avevano in primo luogo determinato il successo di "Star Wars". In un'intervista, Abrams ha affermato di aver voluto realizzare un film che potesse regalare a un odierno bambino di 11 anni quelle stesse sensazioni che lui aveva provato quando, a 11 anni appunto, aveva visto il primo film. Ebbene, possiamo dire che ci è riuscito. Il nuovo episodio, pur essendo quanto di più simile al primo leggendario lungometraggio, è ironicamente anche quello che può essere più facilmente apprezzato da uno spettatore del tutto a digiuno della saga.

Ambientato trent'anni dopo "Il ritorno dello Jedi", come da tradizione il lungometraggio si apre in media res e non si preoccupa di spiegare i retroscena del nuovo stato di cose (probabilmente le pellicole che seguiranno ci diranno di più sul fantomatico e fascistoide "Primo Ordine" che ha preso il posto dell'impero come minaccia alla pace della Galassia e sul suo misterioso leader Snoke). I titoli di testa ci comunicano che Luke Skywalker è scomparso: scopriremo poi che l'ultimo Jedi, deluso per il tradimento di un suo giovane allievo, si è ritirato in eremitaggio in qualche luogo lontano. La Resistenza, che sotto la guida di sua sorella Leia si batte contro il Primo Ordine, è alla sua disperata ricerca. Ma a trovare la mappa che potrebbe rivelare il suo rifugio sono la giovane Rey (Daisy Ridley), raccoglitrice di rottami metallici sul pianeta Jakku, e il pavido Finn (John Boyega), ex membro delle truppe d'assalto del Primo Ordine (con armature identiche a quelle degli stormtrooper imperiali!), che ha scelto di disertare. Braccati dai nemici e costretti alla fuga, i due troveranno aiuto in una vecchia conoscenza, Han Solo (Harrison Ford). Come si diceva, la trama sembra ripercorrere quella di "Una nuova speranza" (e anche de "L'impero colpisce ancora") quasi pedissequamente: informazioni vitali affidate a un droide; quest'ultimo abbandonato su un pianeta desertico e trovato da un/una giovane che vive lì, ignaro/a del proprio retaggio, e catapultato quasi controvoglia in una grande avventura; la fuga a bordo del Millennium Falcon, guidato da uno Han Solo che, in quanto contrabbandiere, deve scappare dai suoi creditori; l'approdo in quello che dovrebbe essere un rifugio, gestito da una vecchia conoscenza di Han, dove però si nasconde un traditore; la cattura di uno dei protagonisti, portato a bordo della nuova arma letale dei nemici (qui, al posto della Morte Nera, c'è l'ancor più gigantesca base Starkiller); il salvataggio, nel corso del quale l'anziano mentore del gruppo perderà la vita per mano di un "rinnegato", ovvero un cattivone nerovestito e con maschera, Kylo Ren (Adam Driver) che è passato al lato oscuro e che nasconde un legame stretto di parentela con i nostri eroi; e infine, l'attacco delle forze della Resistenza alla base nemica, della quale sfruttano l'unico punto debole per farla esplodere. C'è persino il finale con uno degli eroi rimasto fra la vita e la morte (Finn in coma, come Han Solo nella grafite al termine de "L'impero colpisce ancora"), oltre che tanti altri paralleli (il castello di Maz come la taverna di Mos Eisley, la stessa piratessa Maz Kanata come Yoda, Snoke come l'imperatore, il generale Hux come il governatore Tarkin, ecc.).

Detto delle similitudini nella trama, c'è però da elogiare il modo in cui questa viene narrata. Il senso dell'avventura, il ritmo, la caratterizzazione dei personaggi, la chiarezza delle scene d'azione e la maestria tecnica contribuiscono al massimo coinvolgimento dello spettatore (deja vu a parte, ma anche questo in fondo fa parte dell'esperienza complessiva). E quanto alla nuova generazione di eroi e di cattivi, in fondo è bello veder muovere i primi passi, fra dubbi e insicurezze, sia agli uni che agli altri. Non solo Rey e Finn, infatti, ma anche il cattivo Kylo Ren sono incerti, impacciati durante i combattimenti, ancora alla ricerca di sé stessi e del proprio ruolo: insomma, personaggi con tanto potenziale ancora da sviluppare, e di cui sarà senza dubbio interessante seguire l'evoluzione nei film a venire (anche se troppe cose sembrano lasciar presagire quale sarà): che differenza con il predestinato, rigido e insopportabile Anakin interpretato da Hayden Christensen nei prequel! A proposito di questi ultimi: se tanti e tali sono i riferimenti che Abrams ha voluto fare agli episodi "classici", è sintomatico come i tre prequel siano stati del tutto ignorati: non un accenno, non un riferimento o una strizzatina d'occhio; persino lo stile cinematografico ne prende le distanze, rinnegando l'abuso di grafica digitale che li affogava e scegliendo invece un approccio più artigianale. Gli effetti al computer non mancano, ovviamente, ma il look and feel della pellicola è garantito da scenari, personaggi e oggetti reali, da prop e animatroni fisici. Si respira un'aria di concretezza, non di videogioco, e tutto ha sembianze "realistiche" (sì, anche gli alieni!) in puro stile old school, grazie anche a una fotografia che si rifà a quella dei mitici primi episodi. In questo modo, l'apparizione di volti noti ma irrimediabilmente invecchiati (Harrison Ford, Carrie Fisher, Mark Hamill) non stona affatto, anche perché sullo sfondo vediamo veicoli e astronavi dell'impero ormai ridotti a rottami, robot e androidi (compresi R2-D2 e D-3B0) che ne hanno vissute fin troppe (persino Chewbacca ha qualche pelo grigio), in un mondo che mostra tutti i suoi anni e non li vuole nascondere. Fra i volti nuovi, da segnalare anche Oscar Isaac nei panni del pilota della resistenza Poe Dameron. Domhnall Gleeson è il generale Hux, Max Von Sydow fa una comparsata all'inizio.

In conclusione: per una volta, l'approccio conservativo può essere considerato quello giusto. Abrams ha semplicemente voluto "rifare" a modo suo il primo "Guerre stellari" (colpendo nel segno molto più di quanto non avesse fatto con i film di "Star Trek", quelli sì dichiaratamente dei reboot: d'altronde il regista non ha mai nascosto di essere più un fan della saga di Lucas che di quella di Roddenberry, e i risultati lo dimostrano), aggiornando il prototipo e limandone i difetti ma senza travisarlo, stravolgerlo o appiattirlo più di tanto. Che i nuovi eroi siano una donna e un uomo di colore sarà certo dovuto alla political correctness imperante in America, ma nell'economia della storia non fa alcun danno. L'affiancamento di volti giovani (brava soprattutto la Ridley) a quelli, solcati da rughe, dei vecchi personaggi (che dimostrano tutti i loro anni, non solo nel fisico ma anche nell'animo) è fatto nel migliore dei modi, senza che gli uni rubino i riflettori agli altri. La sovrastruttura non soffoca i contenuti (i concetti stessi della forza e degli Jedi sono a malapena accennati) e i pupazzi o personaggi digitali sono pochi ma buoni (dietro le fattezze di Snoke e Maz si nascondono Andy Serkis e Lupita Nyong'o), mai infantili nemmeno quando devono essere simpatici (come il droide BB-8). Il film non è perfetto, intendiamoci: a parte la questione dell'originalità della trama (che rende prevedibilissime persino le svolte che più avrebbero dovuto sorprendere gli spettatori, a cominciare dalla morte di uno dei personaggi storici), ci sono comunque alcune ingenuità di sceneggiatura, caratterizzazioni contraddittorie (giusto un paio nei primi minuti: perché il pilota Poe si fida subito di Finn, quando questi viene a salvarlo, senza sospettare che possa trattarsi di un tranello per stanargli dove si trovano i piani? perché lo stesso Finn, che diserta perché non vuole uccidere, non si fa scrupolo quasi immediatamente a sparare contro i suoi stessi compagni?), per non parlare delle molte assurdità pseudo-scientifiche (il funzionamento della base Starkiller in primis), anche se in fondo "Star Wars" è sempre stato più "fanta" che "scienza". Ma la confezione nel suo insieme è quasi impeccabile, a partire dalla colonna sonora di John Williams che, a parte qualche accenno ai temi più classici delle partiture precedenti, crea tutto un nuovo corpus musicale. E dietro la tecnica cinematografica, c'è l'avventura e il sense of wonder. Le riprese sono state effettuate, oltre che in studio, negli scenari di Abu Dhabi (il pianeta desertico Jakku), dell'Islanda (le nevi che ricoprono la base Starkiller) e dell'Irlanda (la sequenza finale, in cui Rey incontra Luke). Grazie anche a un battage pubblicitario senza precedenti (e francamente fin troppo invadente), il film ha goduto di un immediato successo al botteghino, ancora da quantificare a lungo termine: l'obiettivo è quello di superare "Avatar" come film con il maggior incasso di tutti i tempi.

21 dicembre 2015

La vendetta di Gwangi (J. O'Connolly, 1969)

La vendetta di Gwangi (The Valley of Gwangi)
di James O'Connolly – USA 1969
con James Franciscus, Gila Golan
**

Visto in divx.

All'inizio del novecento, un gruppo di mandriani e di artisti di un circo western scopre una valle segreta, nel deserto del Messico, in cui vivono dinosauri che avrebbero dovuto essersi estinti da cinquanta milioni di anni. Fra questi c'è Gwangi, un temibile tirannosauro, che viene catturato per essere esposto nel circo: ma l'animale fugge e semina il panico per le strade della città. Impreziosita dagli effetti speciali di Ray Harryhausen, una curiosa contaminazione fra il western e il monster movie, fortemente debitrice a "Il mondo perduto" di Arhur Conan Doyle e al primo "King Kong". Proprio all'autore degli effetti speciali di quest'ultimo film, Willis O'Brien, si deve il progetto originale, risalente però ad almeno due decenni prima. Visto che il suo maestro non era riuscito a realizzarlo (anche se nel 1956 produsse un'altra pellicola che mostrava per la prima volta cowboy alle prese con un mostro preistorico, "La valle dei disperati"), ci pensò il suo allievo Harryhausen, per l'ultima volta impegnato nell'animazione a passo uno di un dinosauro. Peccato che si fosse ormai fuori tempo massimo. Il cinema di mostri era infatti in declino (per non parlare del western, ormai in piena fase crepuscolare e revisionista) e la pellicola, nonostante le qualità tecniche (le animazioni sono fluide e la fusione con le riprese dal vivo è ben riuscita), non riscosse alcun successo, salvo essere rivalutata in seguito come cult di nicchia. Oltre al tirannosauro, Harryhausen dà vita in stop motion ad altre creature: uno pteranodonte, un ornitomimo, un iracoterio (il cavallo in miniatura), uno stiracosauro e un elefante (questi ultimi due si battono con Gwangi). L'attrice e modella israeliana Gina Golan, che dovette essere doppiata per via del suo forte accento, è qui alla sua ultima apparizione sullo schermo.

20 dicembre 2015

Cenerentola (Kenneth Branagh, 2015)

Cenerentola (Cinderella)
di Kenneth Branagh – USA 2015
con Lily James, Cate Blanchett
**1/2

Visto al cinema Palestrina, con Daniela e Alessandro.

Adattamento con attori in carne e ossa della fiaba di Perrault, o meglio del fortunato lungometraggio disneyano a cartoni animati del 1950, di cui riprende gran parte dell'estetica. Se il recente proliferare di versioni in live action dei classici è dovuto – oltre che alla cronica mancanza di idee e alla scarsa voglia di rischiare da parte degli studios hollywoodiani – anche al desiderio di aggiornarli a beneficio di un pubblico di young adult (così si spiegano i volti e la recitazione da Disney Channel degli attori giovani), in questo caso almeno il materiale di partenza non viene tradito: senza personaggi badass o politicamente scorretti (come era capitato in obbrobri quali "Hansel & Gretel - Cacciatori di streghe" e la "Biancaneve" di Tarsem Singh), l'auspicata fedeltà alla magia dell'originale è garantita dalla produzione Disney (che alle sue property ci bada) e dalla regia di Kenneth Branagh, da sempre a suo agio nei film in costume. In effetti il regista inglese, anche quando è al timone di progetti più commerciali che personali (si pensi anche al "Thor" della Marvel o al "Frankenstein" post-coppoliano), dimostra sempre e comunque di conoscere il proprio mestiere. Qui, aiutato da ottimi effetti digitali, dai ricchi costumi di Sandy Powell e dalle scenografie sontuose di Dante Ferretti, sceglie di espandere la vicenda, dedicando una buona mezz'ora a narrare l'antefatto – presentandoci così le varie tappe che portano Ella (Lily James) a diventare "Cinderella" – e poi approfondendo tutte quelle figure che nel cartoon restavano in fondo marginali, principe e matrigna in primis. La ridondante sceneggiatura (l'insegnamento morale, "Sii gentile e abbi coraggio", viene ribadito almeno mezza dozzina di volte) sembra ricorrere curiosamente ad alcune variazioni presenti nell'opera di Gioacchino Rossini: innanzitutto, come già detto, espande il ruolo del principe (Richard Madden) e dei personaggi che gli gravitano attorno (il re, il granduca, il capitano delle guardie); poi mostra un pre-incontro fra il principe e Cenerentola, con i due che si innamorano a prima vista dunque già prima del ballo; presenta la fata madrina (Helena Bonham Carter) come una mendicante che giunge alla casa di Cenerentola per chiederle cibo e acqua; e infine c'è il perdono finale della ragazza a chi l'ha maltrattata (anche se, essendo un film americano, i "cattivi" devono essere comunque puniti, e dunque vanno in esilio). Altri elementi interessanti: le sorellastre saranno brutte dentro, ma fuori sono graziose (Anastasia, in particolare, è persino più bella di Cenerentola); e la matrigna (interpretata da Cate Blanchett) è messa particolarmente sotto i riflettori, seguendo la tendenza in voga di dare maggior spazio alle "streghe" (era successo anche nella suddetta "Biancaneve", ne "La carica dei 101" e soprattutto in "Maleficent"), facendole interpretare da attrici di primo piano e di grande richiamo. Al cartone animato originale si rende omaggio con le canzoni sui titoli di coda, oltre che con varie strizzatine d'occhio (i topolini Gus e Jacq, anche se quest'ultimo cambia sesso e diventa Jacqueline). Nel cast anche Ben Chaplin e Hayley Atwell (i genitori di Ella), Derek Jacobi (il re), Stellan Skarsgård (il granduca) e Nonso Anozie (il capitano).

18 dicembre 2015

Clerks - Commessi (Kevin Smith, 1994)

Clerks - Commessi (Clerks)
di Kevin Smith – USA 1994
con Brian O'Halloran, Jeff Anderson
***1/2

Rivisto in divx, con Sabrina.

Un giorno nella vita (e nel lavoro) di Dante Hicks (Brian O'Halloran), commesso di una drogheria nel New Jersey, e del suo amico Randal (Jeff Anderson), che gestisce il videonoleggio adiacente, alle prese con clienti molesti, problemi personali e sentimentali, disavventure e complicazioni di ogni tipo. L'esordio alla regia di Kevin Smith è un film indipendente e a basso costo, girato in bianco e nero nei locali del negozio dove lavorava (aveva avuto il permesso di effettuare le riprese soltanto di notte, dopo l'orario di chiusura: ecco perché si immagina che le serrande non possano essere alzate, avendo qualcuno inserito del chewing gum nei lucchetti), coinvolgendo parenti ed amici, e realizzato con un budget di soli 27.000 dollari (ricavati in parte della vendita della collezione di fumetti dello stesso Smith). Aneddotico, verboso, sboccato e politicamente scorretto, il film – diviso in capitoli da cartelli che alludono ai nove gironi dell'inferno dantesco (non a caso il protagonista si chiama appunto Dante) – mette in scena episodi di interazione fra commessi e clienti che provengono in parte da esperienze reali (d'altronde in rete non mancano blog e pagine di commessi che raccontano storie simili), ma anche sequenze con Dante alle prese con la sua fidanzata Veronica (Marilyn Ghigliotti), con la notizia che una sua ex sta per sposarsi, con i tentativi di distrarsi in qualche modo (per esempio giocando a hockey sul tetto dell'edificio), il tutto descrivendo anche l'ambiente malfamato in cui si trova il suo posto di lavoro, davanti al quale stazionano balordi e perditempo. Fra questi spiccano Jay (Jason Mewes) e Silent Bob (lo stesso Smith), figure che saranno ricorrenti del suo cinema, tornando in tutte le successive pellicole del cosiddetto "View Askewniverse" (dal nome della sua casa di produzione indipendente, la View Askew Productions). Fra le scene cult, la confessione di Veronica sulle sue precedenti esperienze sessuali ("In fila?"), la discussione sul destino degli operai che costruivano la seconda Morte Nera ne "Il ritorno dello Jedi", e la sequenza di "Piccolo Pippo cucciolo eroico". Il finale originale prevedeva che Dante venisse ucciso da un rapinatore, ma fu eliminato perché troppo cupo. L'inatteso successo della pellicola, diventata un vero film di culto nonché uno dei titoli chiave del cinema americano indipendente degli anni novanta, lanciò la carriera di Kevin Smith, che nel 2006 ne realizzò anche un sequel, "Clerks II".

16 dicembre 2015

Le streghe (Visconti, Pasolini, De Sica, et al., 1967)

Le streghe
di Luchino Visconti, Mauro Bolognini, Pier Paolo Pasolini, Franco Rossi, Vittorio De Sica – Italia 1967
con Silvana Mangano, Totò, Clint Eastwood
**

Visto in divx.

Film ad episodi sul tema della "donna strega". Dei cinque segmenti, due (quelli di Bolognini e Rossi) sono brevissimi, poco più che degli sketch di quattro-cinque minuti, mentre gli altri tre si estendono più a lungo, sui trenta minuti. Il migliore è senza dubbio quello di Pasolini (una fiaba fuori dal tempo con Totò e Ninetto Davoli, quasi un sequel di "Uccellacci e uccellini"), anche se qualcosa di interessante, seppure evanescente o datato, si trova anche negli episodi di De Sica (con un Eastwood "imborghesito") e di Visconti. Il filo conduttore è Silvana Mangano (all'epoca moglie del produttore Dino De Laurentiis), protagonista di tutti gli episodi, in seguito una presenza ricorrente nei film di Pasolini ("Edipo Re", "Teorema", "Il Decameron") e Visconti ("Morte a Venezia", "Ludwig", "Gruppo di famiglia in un interno"). I titoli di testa, in stile cartoon, sono di Pino Zac. Piero Piccioni realizza la colonna sonora per quattro dei cinque episodi (in quello di Pasolini, la musica è di Ennio Morricone).

"La strega bruciata viva", di Luchino Visconti (*1/2), con Silvana Mangano, Annie Girardot
Una diva di Hollywood, in visita a un'amica nella sua casa di Kitzbühel per le vacanze invernali, è al centro dell'attenzione di tutti: le donne ne ammirano la bellezza, gli uomini vorrebbero portarsela a letto. In un'atmosfera superficiale e svagata, fra tediosi giochi di società e goffi tentativi di adulterio, la diva fa preoccupare tutti sul suo stato di salute a causa di un lieve mancamento. Ma quando scopre di essere incinta, tenta inutilmente di convincere il marito (che è rimasto a New York) di lasciarle abbandonare il cinema per uno o due anni, scagliandosi contro l'ipocrisia di produttori, cineasti e pubblico. Il conformismo, i vizi e le virtù dell'(alta) borghesia, in un episodio – scritto da Giuseppe Patroni Griffi e Cesare Zavattini – dove la vena "decadentista" di Visconti sfiora quella intellettuale di Antonioni sull'incomunicabilità. Rivisto oggi, appare francamente datato. Nel cast, piccoli ruoli per Francisco Rabal, Clara Calamai, Marilu Tolo ed Helmut Berger (quest'ultimo alla prima collaborazione con Visconti).

"Senso civico", di Mauro Bolognini (*), con Silvana Mangano, Alberto Sordi
Una donna carica sulla sua macchina un camionista rimasto ferito in un incidente stradale, affermando di volerlo portare in ospedale. In realtà se ne serve per avere il via libera in tutti gli incroci e giungere così più rapidamente all'appuntamento con il suo amante. Sketch squallido e per nulla divertente, servito da una regia monotona.

"La terra vista dalla luna", di Pier Paolo Pasolini (**1/2), con Totò, Ninetto Davoli, Silvana Mangano
Proseguendo nel filone comico-surreale inagurato l'anno prima con "Uccellacci e uccellini" (un mini-ciclo con Totò e Ninetto Davoli che sarebbe poi proseguito con un altro cortometraggio, "Che cosa sono le nuvole?", e che avrebbe dovuto concludersi con il film "Re magio randagio", mai realizzato a causa dell'improvvisa morte dell'attore napoletano), Pasolini propone una vera e propria fiaba "stralunata" (vedi il titolo!) e "contro il senso comune". Protagonisti sono Ciancicato Miao (Totò) e suo figlio Baciù (Davoli), in cerca di una donna che possa fare da moglie per l'uno e da madre per l'altro. Dopo un'estenuante ricerca durata un anno, la trovano in Assurda Caì (Mangano), fata sordomuta da capelli verdi, che porterà serenità e bellezza nella loro povera casa. E soprattutto, tornerà magicamente e inspiegabilmente dalla morte, dopo essere caduta dal Colosseo per un incidente. La morale, come recita la didascalia finale: "essere morti o essere vivi è la stessa cosa". Lontano dai sottotesti ideologici e satirici di "Uccellacci e uccellini", un episodio innocente e leggero, ambientato in un mondo dove passato, presente e futuro coesistono, così come l'allegria e la tristezza, la realtà e la sua caricatura, la ricchezza interiore e la desolazione esteriore. L'intento di PPP, in effetti, stavolta non era quello di lanciare un messaggio sociale o politico (il cartello iniziale spiega che "visto dalla Luna, questo film [...] non è niente e non è stato fatto da nessuno") ma di sviluppare un nuovo e personale linguaggio fimico (fra i modelli, oltre naturalmente alle fiabe, i fumetti – si pensi alle didascalie, ma anche ai colori di acconciature e abiti – e le comiche di Chaplin – omaggiato in un ritratto appeso in casa Maio, nonché dal mutismo di Assurdina), più universale e archetipico, che caratterizzerà i successivi lavori del regista.

"La siciliana", di Franco Rossi (*1/2), con Silvana Mangano
In un paesino della Sicilia, uno sgarbo di poco conto a una donna è la scintilla che dà il via a una faida sanguinosa a base di vendette a catena. Nonostante alcuni accenni satirici sul concetto di onore e il suo stereotipo nel Sud, il maggior pregio dell'episodio è quello di essere veloce e brevissimo.

"Una sera come le altre", di Vittorio De Sica (**), con Silvana Mangano, Clint Eastwood
Una moglie soffre perché la sua relazione con il marito, dopo dieci anni di matrimonio, è precipitata nella monotonia e nelle abitudini. Se l'uomo è stanco e svogliato, la donna è repressa e frustrata: nelle sue fantasticherie, immagina di ribellarsi, di insultarlo e di maltrattarlo, di farsi corteggiare da altri – dapprima dai personanaggi dei fumetti e poi da una folla immensa – e di suscitare così la sua passione o la sua gelosia. Su sceneggiatura (fra gli altri) di Zavattini, De Sica mette in scena la noia di una coppia borghese, in un episodio che non manca di momenti onirici e visionari (gli scenari completamente bianchi, o tutta la sequenza finale), ma tirata un po' troppo per le lunghe. Interessante vedere Eastwood in un ruolo così lontano dalla sua immagine di pistolero western (aveva appena girato la trilogia del dollaro con Sergio Leone), anche se, in alcuni momenti del sogno ad occhi aperti della moglie, usa effettivamente la pistola.

14 dicembre 2015

Leningrad Cowboys go America (Aki Kaurismäki, 1989)

Leningrad Cowboys go America (id.)
di Aki Kaurismäki – Finlandia 1989
con Matti Pellonpää, Kari Väänänen
***1/2

Rivisto in divx, con Sabrina.

In cerca di una scrittura, la band dei Leningrad Cowboys lascia la tundra sovietica per trasferirsi in America. Ma la loro musica, a base di polka e di temi popolari russi, non sembra essere apprezzata, e l'unico incarico che ricevono è quello di recarsi in Messico per suonare a un matrimonio. A bordo di una cadillac usata, i numerosi membri del gruppo attraversano così gli Stati Uniti, da New York al Texas, cercando nel frattempo di aggiornare il proprio repertorio con il rock'n'roll, il country e il blues. Road movie musicale, poetico e surreale, i cui protagonisti sono i membri di un autentico gruppo rock-pop finlandese. In precedenza si chiamavano Sleepy Sleepers: cambiarono nome proprio grazie a Kaurismäki, che aveva diretto per loro una manciata di video fra il 1986 e il 1988 ("Rocky VI", "Thru the Wire" e "L.A. Woman") e che li porterà sullo schermo una seconda volta nel 1994, nel sequel "Leningrad Cowboys meet Moses", oltre che in un film-concerto, "Total Balalaika Show". La straniante ironia del regista finnico, per la prima volta in trasferta e caratterizzata dal consueto approccio minimalista (camera fissa, lunghe pause fra una battuta e l'altra), si sposa bene con lo scenario americano, di cui mostra i sobborghi abbandonati, i bar e i locali più periferici, le strade ai margini delle località simbolo (non c'è spazio per paesaggi inflazionati o da cartolina). E la pellicola si muove fra il cinema muto (i cartelli che spezzettano la vicenda in tanti capitoletti, alcuni dei quali memorabili: "Lo picchiano selvaggiamente"), il documentario di viaggio, le metafore sociali, esistenziali e politiche (l'impresario che sfrutta i suoi musicisti, la "ribellione" contro di lui che però dura poco, fino al "ritorno della democrazia"), il tema dell'emigrazione e dei rapporti familiari interrotti (la leggenda del nonno che è andato in America e di cui "non si è saputo più nulla", il cugino – il vocalist Nicky Tesco – ritrovato per caso alla stazione di servizio), e in generale quello della nostalgia. E poi, ovviamente tanta musica, dal folk russo ai classici del rock ("Tequila", "Born to Be Wild"), passando per il country e il blues, fino alle ballate messicane cantate al matrimonio. Ci sono persino paralleli con i Blues Brothers: dall'abbigliamento dei musicisti (giacche e occhiali neri) alle loro esibizioni improvvisate nei locali country. A proposito di abbigliamento: la cifra surreale è data anche dall'insolito aspetto dei membri del complesso, che sfoggiano un ciuffo appuntito, scarpe winklepicker anch'esse a punta, e l'immancabile pelliccia per proteggersi dal freddo (da notare che il ciuffo sembra essere un tratto di famiglia, più che una scelta estetica, visto che è esibito anche da un neonato e persino dal cane di casa). Durante il viaggio, i Leningrad Cowboys portano con sé la cassa di legno che contiene il loro bassista, rimasto congelato per "essere rimasto fuori a provare durante la notte" (la cassa, piena di ghiaccio, è anche utile per conservare al fresco le lattine di birra): non è però morto, visto che nel finale sarà scongelato in tempo per suonare al matrimonio. Pur non avendo mai ambientato un film negli Stati Uniti, il cinema di Kaurismäki aveva sempre mostrato una certa affinità verso l'immaginario e la cultura americana, sia pure trasfigurata attraverso le sue rappresentazioni cinematografiche e musicali (un tratto comune a molti altri registi europei, da Wenders a Godard), e dunque si trova a proprio agio nel trasportare in questo scenario i suoi personaggi perdenti ed emarginati (impagabili alcune battute con cui questi commentano il paese in cui si trovano: "Mi domando quando inizierà la violenza", dice uno di loro a New York). Matti Pellonpää è l'avido impresario Vladimir, che sparirà nel finale solo per tornare nel sequel. Kari Väänänen è Ivan, lo "scemo del villaggio", che – pur muto e senza il ciuffo – li segue a debita distanza lungo tutto il tragitto nella speranza di entrare a far parte del gruppo. Cameo di Jim Jarmusch nei panni del venditore di auto usate.

12 dicembre 2015

La signora scompare (Alfred Hitchcock, 1938)

La signora scompare (The Lady Vanishes)
di Alfred Hitchcock – GB 1938
con Margaret Lockwood, Michael Redgrave
***

Visto in divx alla Fogona.

A bordo di un treno che sta attraversando il piccolo stato centro-europeo di Bandrika, la giovane Iris (Lockwood) scopre che Miss Froy (May Whitty), anziana governante che viaggiava con lei e che aveva conosciuto poco prima, è misteriosamente scomparsa. A rendere la cosa ancor più strana è il fatto che nessuno degli altri passeggeri ricorda di averla mai vista, e anzi molti negano addirittura che sia esistita. Che si tratti di un complotto, oppure – come suggerisce un eminente psichiatra (Paul Lukas) presente sul convoglio – del frutto dell'immaginazione della ragazza? Il penultimo film realizzato da Hitchcock in Gran Bretagna, forse uno dei suoi migliori di questo periodo, è uno spigliato thriller con venature di commedia che attraversa più fasi, dal lungo incipit che presenta i vari personaggi nella locanda fra le montagne dove trascorrono la notte, non privo di momenti comici, fino alle sequenze d'azione nel finale, trasformandosi lentamente lungo il percorso in una vicenda di spionaggio. Scopriremo infatti che l'anziana signora è stata fatta sparire da agenti nemici, e che tutti coloro che mentono sulla sua esistenza hanno un motivo per farlo e per non essere coinvolti in un'indagine: dalla coppia di amanti clandestini che fa di tutto per mantenere un basso profilo (Cecil Parker e Linden Travers) ai due gentlemen inglesi appassionati di cricket (Basil Radford e Naughton Wayne) che vogliono solo giungere a destinazione in tempo per non perdere la coincidenza e recarsi ad assistere a una partita (due personaggi, questi ultimi, che si dimostrarono talmente popolari da tornare in numerose altre pellicole britanniche negli anni successivi – da "Night Train to Munich", anch'esso ambientato quasi tutto su un treno, a "Due nella tempesta" – e persino in una serie televisiva dedicata completamente a loro, "Charters and Caldicott"). Iris riuscirà a svelare il mistero con l'aiuto di Gilbert (Redgrave), un impertinente musicologo e studioso di danze popolari di cui – dopo un inizio all'insegna dei bisticci – si innamorerà, e per il quale manderà anche all'aria il matrimonio combinato che l'aspettava in patria. E proprio a una melodia popolare (che nasconde un messaggio in codice) è legata la misteriosa sparizione di Miss Froy. Curiosa la scelta di ambientare la storia in un paese fittizio, anche se è evidente che si tratti di uno stato alleato della Germania nazista. Dopo che gli ultimi tre film del regista erano andati male al botteghino, in questo caso il successo di pubblico fu enorme, al punto che il film fece registrare il maggior incasso per Hitchcock fino a quel momento, convincendo definitivamente i produttori americani a portarlo a Hollywood.

11 dicembre 2015

Osmosis Jones (B. e P. Farrelly, 2001)

Osmosis Jones (id.)
di Bobby e Peter Farrelly, [T. Sito e P. Kroon] – USA 2001
con Bill Murray, Elena Franklin
**1/2

Visto in divx.

Frank Detorre (Murray), guardiano dello zoo, non prende molto sul serio i consigli su igiene e alimentazione che gli elargisce la figlioletta salutista. Non c'è dunque da stupirsi che a un certo punto si ammali. Ma non si tratta di una semplice indisposizione: nel suo corpo si è introdotto il malvagio virus della Morte Rossa, ai cui piani letali cercheranno di opporsi il globulo bianco Osmosis Jones e la capsula medicinale Drixenol. Una commistione fra scene in live action (girate dai fratelli Farrelly) e in animazione (realizzate da Tom Sito e Piet Kroon), che funziona solo fino a un certo punto. La parte più interessante è sicuramente quella che si svolge all'intero del corpo di Frank, descritto come una grande città abitata da cellule, globuli, germi e micro-organismi antropomorfizzati (in stile "Siamo fatti così - Esplorando il corpo umano"), il cui sindaco corrotto pensa solo a farsi rieleggere e ignora i segnali d'allarme che Jones e Drix gli comunicano a proposito della reale natura del pericolo. Costruito come un poliziesco, e per la precisione come un buddy movie (i due agenti inizialmente non vanno d'accordo, ma impareranno a collaborare), il segmento animato è vivace e pieno di idee, anche se tutte sulla medesima falsariga, quella di tracciare paralleli fra "l'interno" di Frank e un microcosmo con i suoi tutori dell'ordine, i suoi criminali (fra i virus c'è anche un vaccino che è in realtà un agente sotto copertura!), la società, la politica, la burocrazia, l'informazione, i divertimenti... A tratti pare persino anticipare un recente successo come "Inside out" della Pixar (ci sono anche i cinema che proiettano i sogni o gli incubi di Frank, il deposito del suo subconscio, la sala di controllo con pulsanti e apparecchiature per gestire direttamente le sue reazioni). Meno convincente è la parte girata dal vivo, nonostante la presenza di Murray (ma all'inizio i cineasti avevano pensato a Will Smith), che si dipana come una commedia volgare – nello stile dei fratelli Farrelly – e, nei suoi aspetti educativi, in fondo retorica. Fra le voci originali dei personaggi animati spiccano Chris Rock (Jones) e Laurence Fishburne (il virus).

9 dicembre 2015

Automata (Gabe Ibáñez, 2014)

Automata (id.)
di Gabe Ibáñez – Spagna/Bulgaria 2014
con Antonio Banderas, Birgitte Hjort Sørensen
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

In un futuro in cui gran parte del pianeta Terra è stato reso desertico e inabitabile dall'incremento dell'attività solare, i pochi esseri umani sopravvissuti si sono ritirati in grandi città isolate l'una dall'altra e dal clima controllato. Per svolgere i lavori più duri anche in un ambiente ostile sono stati costruiti dei robot (i Pilgrim), dall'aspetto umanoide e dalla tecnologia piuttosto grezza, nel cui software sono stati impiantati due protocolli invalicabili: il divieto di recare danno a un essere vivente e l'impossibilità di alterare sé stessi. Ma Jacq Vaucan (Banderas), agente assicurativo al servizio della ROC, l'azienda che produce e gestisce gli automi, scopre che alcuni di essi hanno misteriosamente sviluppato la capacità di autoripararsi, e magari di migliorarsi, contravvenendo dunque ai limiti loro imposti... Fortemente debitrice a Isaac Asimov (le tre leggi della robotica) e Philip K. Dick ("Il cacciatore di androidi", da cui è tratto "Blade Runner"), una pellicola di fantascienza che fonde il genere distopico con il tema dell'intelligenza artificiale, con l'intento di riflettere sullo sviluppo dell'autocoscienza e il concetto di vita stessa. Forse non particolarmente originale, e con qualche passaggio a vuoto nella sceneggiatura, ma a suo modo efficace nel rappresentare un mondo vecchio, sporco e condannato, dove gli esseri umani tentano disperatamente di sopravvivere mentre una nuova "forma di vita" sta per sorgere. E in ogni caso, a tratti rifugge dai cliché (i robot, per esempio, non sono ostili, e la loro "evoluzione" è spiegata come un fatto naturale, come cioè se la natura stessa stesse cercando di riempire in qualche modo quella nicchia ambientale che ormai gli uomini non possono più utilizzare). Interessante anche il "ghetto", una sorta di bidonville che circonda la città vera e propria, rifugio non solo di uomini emarginati ma anche di robot danneggiati o in disuso (che lavorano come mendicanti o – come nel caso dell'androide femminile Cleo – come prostitute!), uno scenario che ricorda in parte il sudafricano "District 9". Il film è di produzione spagnola, anche se è stato girato in Bulgaria con attori di varie nazionalità: Melanie Griffith (nel ruolo della dottoressa Susan Duprè, un chiaro omaggio alla Susan Calvin di Asimov), Dylan McDermott, Robert Forster, Tim McInnerny.

7 dicembre 2015

Hiruko the goblin (S. Tsukamoto, 1991)

Hiruko the Goblin (Yokai hunter: Hiruko)
di Shinya Tsukamoto – Giappone 1991
con Kenji Sawada, Masaki Kudo
**

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli.

Liberato dal tumulo di pietra che lo imprigionava, uno spirito maligno semina il terrore di notte in una scuola di campagna. A fermare il demone ci penseranno lo studente Masao, nipote dell'uomo che lo aveva già sconfitto settant'anni prima, e l'eccentrico archeologo Hieda, ghostbuster autodidatta. Primo film "commerciale" e su commissione di Tsukamoto, girato subito dopo il folle "Tetsuo" per ottenere finanziamenti per i suoi successivi progetti, "Hiruko the goblin" è assai lontano dalle atmosfere cyberpunk e psicologiche care al regista giapponese. Si tratta invece di un horror d'azione che affronta temi soprannaturali non troppo originali con uno spirito e un'ingenuità da B-movie vecchio stile, in fondo divertente e per nulla pretenzioso. La pellicola mescola grezzi momenti splatter (teste tagliate e schizzi di sangue) a scene più inquietanti e tipiche dell'horror orientale (la ragazzina fantasma che attira le vittime del mostro con il suo canto suadente), mentre la realizzazione è in debito con lavori come "La casa" di Sam Raimi (si pensi alle soggettive del mostro che si muove di notte nei corridoi della scuola). Da notare anche i riferimenti al corpus fantastico nipponico (la formula magica da recitare per rinchiudere il demone nel tumulo, per esempio, è un frammento del "Kojiki", racconto mitologico della creazione del mondo). Fra le bizzarrie da ricordare, le teste delle vittime del demone che si trasformano in ragni ed insetti, e l'apparizione dei loro volti come bruciature sulla schiena di Masao.

5 dicembre 2015

Piccolo Cesare (Mervyn LeRoy, 1931)

Piccolo Cesare (Little Caesar)
di Mervyn LeRoy – USA 1931
con Edward G. Robinson, Douglas Fairbanks Jr.
***

Visto in divx.

Due delinquenti di piccolo calibro, Caesar Enrico "Rico" Bandello (Robinson) e Joe Massara (Fairbanks Jr.), si trasferiscono a Chicago in cerca di migliori occasioni. Se Joe è affascinato dalla vita mondana e aspira ad essere un ballerino, Rico – detto "Piccolo Cesare" per via della sua bassa statura – sogna invece di diventare un potente gangster. Entra così nella banda di Sam Vettori (Stanley Fields), che maschera le sue attività dietro la gestione di un night club, e grazie al proprio carisma, all'intraprendenza e al grilletto facile, comincia una rapida scalata che lo vedrà dapprima prendere il posto dello stesso Vettori, e poi quello di altri boss sempre più in alto nelle gerarchie della malavita, senza esitare ad eliminare chiunque si metta sulla sua strada (che si tratti di rappresentanti delle forze dell'ordine o di membri della sua stessa banda). Ma giunto al culmine del potere, non riuscirà a tollerare l'idea di essere stato lasciato da Joe, che nel frattempo ha preferito farsi una vita onesta in compagnia della sua partner di ballo Olga (Glenda Farrell), e finirà col commettere quel passo falso che consentirà alla polizia di incriminarlo. Seminale gangster movie, capostipite di tutta una serie di pellicole (fra cui spicca lo "Scarface" di Howard Hawks, uscito l'anno successivo) sull'ascesa e la caduta di boss della criminalità organizzata. Il modello reale è chiaramente Al Capone, anche se qui il personaggio è caratterizzato in modo originale dall'istrionismo di Robinson e con un evidente sottotesto omosessuale. Rico, che non beve, cura in maniera particolare il proprio aspetto (una didascalia recita: "si prende cura di sé, dei suoi capelli e della sua pistola") e non si mostra minimamente interessato alle frequentazioni femminili, diventa geloso di Joe per essere stato abbandonato dall'amico in favore di una donna, ponendosi direttamente in contrapposizione con lei. La scena finale, in cui Rico viene braccato e ucciso dalla polizia proprio sotto un cartellone che pubblicizza uno spettacolo di Joe ed Olga, è emblematica. La sceneggiatura è tratta da un romanzo di William R. Burnett, che non apprezzò questo taglio nella caratterizzazione del protagonista. L'enorme successo al botteghino trasformò Robinson in una star e, come detto, diede il via a un intero filone di crime movie sempre più violenti ed espliciti, fino a quando il codice Hays nel 1934 non impose severe restrizioni al genere, temendo che gli spettatori più giovani finissero con l'ammirare i protagonisti e identificarli come eroi e modelli da seguire.

3 dicembre 2015

Mars attacks! (Tim Burton, 1996)

Mars Attacks! (id.)
di Tim Burton – USA 1996
con Jack Nicholson, Pierce Brosnan
*1/2

Rivisto in DVD.

Con una flotta di dischi volanti, i marziani giungono sulla Terra. Sono brutti, cattivi e guerrafondai, e approfittano dell'ingenuità dei terrestri (che provano a intavolare relazioni di pace) per seminare morte e distruzione. Saranno sconfitti dalle note di una canzone degli anni '50, "Indian Love Call" di Slim Whitman, la cui frequenza in falsetto fa esplodere loro il cervello. Una pellicola ispirata a una collezione di figurine (le omonime trading cards pubblicate dalla Topps nel 1962) non poteva che rivelarsi una sciocchezza, soprattutto se a portare sullo schermo la sgangherata sceneggiatura di Jonathan Gems c'è un regista ipocrita e incorerente come Tim Burton, incapace di andare fino in fondo con la cifra stilistica demenziale e la black comedy. In mezzo a tanti personaggi idioti ci sono infatti un pugno di character "seri" (su tutti il pugile nero che lavora a Las Vegas, ma anche i suoi due figlioletti e la figlia del presidente) che ovviamente si riveleranno degli eroi. A salvare la situazione, nella maniera più scontata, sono infatti i "losers", come il ragazzino di campagna e la sua nonna rimbambita, mentre i potenti della terra (il presidente, lo scienziato, i militari) fanno solo figure da fessi. Per il resto, il film non è altro che un susseguirsi di scene di distruzione ridicole e infantili, che vorrebbero prendere in giro il filone fantascientifico degli anni '50 e '60 (d'altronde, visto il materiale di origine, quella è l'estetica dei marziani – resi con una computer grafica assai cartoonistica – e dei loro dischi volanti) e magari fare satira sui tempi moderni, ma con un'ironia spuntata e superficiale, ripetitiva e mai veramente divertente. E come nel coevo "Independence Day" (che però era un film "serio", il che non lo rende migliore di questo, intendiamoci), l'emergenza aliena sembra una questione del tutto americano-centrica (le tre scene con i francesi, il Taj Mahal e l'isola di Pasqua non sono altro che delle gag estemporanee). Il vastissimo cast (la pellicola è di fatto corale) comprende fra gli altri Jack Nicholson (in un doppio ruolo: il presidente degli USA e un imprenditore di Las Vegas), Glenn Close (la first lady), Pierce Brosnan (lo scienziato), Annette Bening (la fanatica new age), Sarah Jessica Parker (la conduttrice tv che viene rapita dai marziani), Jim Brown (l'ex pugile di cui sopra), Lukas Haas (il ragazzo del Kansas), Sylvia Sidney (sua nonna, all'ultima apparizione sullo schermo), Natalie Portman (la figlia del presidente). E ancora: Rod Steiger (il generale), Martin Short (il segretario del presidente), Michael J. Fox (un reporter), Danny DeVito (il giocatore d'azzardo), Lisa Marie (la donna marziana), Pam Grier, Jack Black, Janice Rivera, Paul Winfield, Joe Don Baker e il cantante Tom Jones nei panni di sé stesso. Per non contare i camei di Jerzy Skolimowski (lo scienziato che inventa il traduttore) e Barbet Schroeder (il presidente francese). Per quanto mi riguarda, una solenne stupidata nonché uno dei peggiori film di Burton, sicuramente il più brutto prima del 2000.