23 aprile 2014

Nessuna pietà per Ulzana (R. Aldrich, 1972)

Nessuna pietà per Ulzana (Ulzana's raid)
di Robert Aldrich – USA 1972
con Burt Lancaster, Bruce Davison
***

Visto in TV.

Il feroce apache Ulzana fugge dalla riserva con un pugno di guerrieri. Al suo inseguimento si getta un plotone di cavalleria guidato dal giovane e inesperto tenente Garnett DeBuin (Davison), coadiuvato dallo scout dell'esercito McIntosh (Lancaster), che spera di catturare i fuggitivi prima che compiano eccidi fra i coloni della regione. Western semi-revisionista e dai toni cupi e pessimisti, letto da alcuni critici come una metafora sulla partecipazione degli Stati Uniti alla guerra del Vietnam (un combattimento contro un nemico elusivo e percepito come malvagio e crudele a prescindere, senza prestare attenzione alle sue ragioni). Se infatti il punto di vista, come in "Ombre rosse", è tutto dei bianchi (gli indiani si vedono poco e, quando sono sullo schermo, parlano nella loro lingua), rispetto ai western classici la prospettiva è ben diversa. Nonostante le stragi e i morti che seminano lungo il loro cammino, Ulzana e i suoi uomini cercano semplicemente la libertà (nelle scene iniziali vediamo bene come siano dure le condizioni di vita nella riserva, tanto che lo stesso McIntosh è costretto a farsi portavoce delle richieste di razioni di carne più abbondanti). E anche gli eccidi, a ben vedere, sono motivati da esigenze primarie (procurarsi cibo o cavalli, depistare gli inseguitori), quando addirittura non sono nemmeno compiuti da loro (vedi il soldato che uccide la donna e poi si suicida per paura di cadere nelle mani degli apache). Come spiega Ke-Ni-Tay, l'enigmatica guida indiana che affianca l'esercito, vivere rinchiusi nella riserva ed essere limitati nelle percezioni e nelle sensazioni è la vera molla che ha prodotto la fuga di Ulzana: altro che lotta fra bene e male! Persino le torture inflitte ai nemici non sono fini a sé stesse, ma fanno parte di un rito sacro per trasferire la forza del vinto al vincitore. Al giovane tenente (figlio di un sacerdote, dettaglio importante) che si domanda perché gli apache siano così crudeli (e al quale McIntosh spiega: "Io non li odio. Sarebbe come odiare il deserto perché non c'è acqua"), il viaggio aprirà gli occhi: innanzitutto sulla natura violenta degli uomini in generale (i suoi soldati, in determinate occasioni, si dimostreranno non meno "selvaggi" degli apache, tanto che toccherà a lui impedirgli di sfogarsi sui cadaveri dei nemici per seppellirli invece con carità cristiana) ma anche sulle difficoltà e le responsabilità del comando di una missione che, all'inizio, gli sembrava come una splendida occasione per mostrare il proprio valore, e che invece costerà inutilmente molte vite. In mezzo a tutto questo, quella interpretata da Lancaster (cui pure è dedicato il maggior tempo sullo schermo) è quasi una figura marginale, un personaggio che ha solo il compito di guidare il tenente verso una consapevolezza del mondo meno idealizzata e più fatalista. La vittoria per DeBuin è amara, perché reca con sé la fine delle illusioni: sembra davvero conclusa l'epopea del western classico, dove a sconfiggere gli indiani ci si copriva di gloria e si tornava sorridenti e felici. Certo, in quelle pellicole nessun bianco si domandava "Perché gli apache si comportano così?": proprio nell'inedito tentativo di comprendere il nemico risiede la chiave di lettura del lungometraggio. Nota: esistono due versioni del film, una montata sotto la supervisione di Aldrich e l'altra da Lancaster (che, in quanto coproduttore, volle metterci le mani), ma le differenze sono minime.

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