28 gennaio 2013

King Kong (Peter Jackson, 2005)

King Kong (id.)
di Peter Jackson – USA 2005
con Naomi Watts, Jack Black, Adrien Brody
**1/2

Rivisto in TV, con Sabrina.

Peter Jackson aveva desiderato per tutta la vita di realizzare un remake di “King Kong”, il classico film del 1933 che più di ogni altro, da bambino, l’aveva fatto innamorare del mondo del cinema. E l’occasione si è finalmente presentata dopo il successo della saga de “Il Signore degli Anelli”, quando – forte degli stratosferici incassi e dei numerosi premi vinti con la trilogia tolkieniana (compreso l’Oscar come migliore regista) – ha facilmente trovato uno studio che gli finanziasse il suo progetto più caro. La nuova versione del classico di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack (la terza, visto che già nel 1976 era uscito un primo remake, quello prodotto da Dino De Laurentiis con Jessica Lange come protagonista e gli effetti speciali di Carlo Rambaldi) si basa fedelmente sulla sceneggiatura originale, ma può contare su moderni effetti digitali e sull’incontenibile entusiasmo di Jackson, che non si è certo trattenuto dall’allungare a dismisura le scene ambientate sull’Isola del Teschio, dove i nostri eroi se la devono vedere non solo con lo scimmione gigante ma anche con dinosauri, ragni, insetti e mostri di ogni tipo. Pur divertenti (ma a tratti eccessivamente spinte sul versante del grottesco: vedi la fuga “videogiocosa” dai dinosauri che rotolano lungo la scarpata) e reminescenti del periodo horror del regista (le sequenze con gli insetti giganti), le parti centrali sono soltanto un collante fra quelle che meglio definiscono l’anima del film: l’incipit, in cui – sullo sfondo della grande depressione – l’ambizioso e opportunista regista Carl Denham (Jack Black) e il sensibile sceneggiatore Jack Driscoll (Adrien Brody) scritturano la giovane attrice Ann Darrow (Naomi Watts) e partono per girare un kolossal su una misteriosa isola nemmeno segnata sulle mappe, dove – a loro insaputa – vivono mostri e animali giganti; e soprattutto il finale, in cui la colossale scimmia (realizzata con la tecnica del motion capture a partire dalla recitazione di Andy Serkis, già “interprete” di Gollum nella saga tolkieniana), catturata dall’equipaggio della nave guidata dal capitano Englehorn (Thomas Kretschmann), viene condotta a New York per essere esposta nei teatri di Broadway come un fenomeno da baraccone, ridotta in catene come uno schiavo (mentre un tempo era il “re” della propria isola). Liberatasi, correrà alla ricerca della donna che ha rapito il suo cuore (le scene della scimmia e della Watts che si concedono una passeggiata romantica a Central Park, con tanto di pattinata sul ghiaccio come in ogni film sentimentale che si rispetti, sono al tempo stesso commoventi e grottesche, forse una delle intuizioni migliori della pellicola) e si perderà per causa sua, venendo colpita dagli aerei dopo essere salita in cima all'Empire State Building. “La bella ha ucciso la bestia”, la frase che conclude il film, è la stessa con cui terminava anche la versione degli anni trenta (ma qua e là non mancano diversi altri riferimenti all’originale). Anche se appare a tratti poco equilibrato, tra eccessi di gigantismo, scene d’azione fuori controllo e personaggi non sempre caratterizzati con sufficiente cura (ma anche gli attori non sembrano sempre convinti dei propri ruoli), il film non può che lasciare ammirati per l’amore di Jackson verso un tipo di cinema oggi quasi scomparso: pur attraverso i moderni effetti digitali, si intravede tutto l’affetto per il lato più artigianale e “popolare” della settima arte.

24 gennaio 2013

Ecco l'impero dei sensi (N. Oshima, 1976)

Ecco l'impero dei sensi (Ai no corrida)
di Nagisa Oshima – Giappone/Francia 1976
con Eiko Matsuda, Tatsuya Fuji
***

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Per ricordare Nagisa Oshima, il grande regista della nouvelle vague giapponese da poco scomparso, mi sono rivisto il suo film più celebre, che fece scandalo e riscosse un inatteso successo al Festival di Cannes. Tratto da una storia vera di dipendenza e ossessione sessuale (un caso di cronaca avvenuto nel Giappone del 1936), racconta la vicenda di Abe Sada, ex prostituta che si trasferisce a lavorare come cameriera in una casa di geishe a Tokyo. Innamorata di Kichi, il marito della proprietaria, ne diventerà l’amante e darà vita con lui a un ménage sempre più stretto e intenso, finendo quasi con il vivere di solo sesso. Al culmine della passione, soffocherà l’amante con un fazzoletto: gli taglierà poi i genitali e vagherà per diversi giorni per le strade della città portandoli con sé, prima di essere arrestata. Il fatto destò scalpore nella società giapponese e acquistò un’aura quasi mitica, attirando l’attenzione di scrittori, poeti e cineasti (oltre alla versione di Oshima, da ricordare quella di Noboru Tanaka, “Abesada – L’abisso dei sensi”, del 1975). Assai esplicita visivamente, la pellicola si concentra tutta sul legame sempre più indissolubile fra i due amanti (sono poche le scene che li vedono separati, come quelle in cui Sada si rivolge a un suo vecchio pretendente, il maestro Omiya, interpretato da Kyôji Kokonoe), in un’escalation di amplessi, di estasi sensuale e di giochi erotici ai limiti del sadomasochismo, fino al sacrificio totale (è Kichi stesso che chiede a Sada di strangolarlo, pur di accrescere il suo piacere). Il pregio del film sta proprio nella totale assenza di moralismo e di artificiosità, anche quando tratta del legame fra eros e thanatos (assai radicato nella cultura giapponese): Oshima dà libero sfogo a quella vena naturalista e quasi documentaristica che è uno dei tratti principali del suo cinema e di quello dei suoi colleghi degli anni sessanta (si pensi anche a Shohei Imamura). Notevole la fotografia, con ambienti spogli e minimalisti in cui risalta spesso il colore rosso acceso. La breve sequenza in cui Kichi incrocia un plotone di soldati che cammina in senso opposto è una delle poche che aiutano a collocare la vicenda nel suo adeguato contesto storico, un Giappone che stava per sprofondare nel nazionalismo e nel militarismo, di fronte al quale la scelta dei due protagonirsi di isolarsi dal mondo e di dedicarsi soltanto al piacere dei sensi può non apparire affatto assurda. Koji Wakamatsu è il produttore esecutivo, ma nella produzione è coinvolto anche il francese Anatole Dauman. Solo negli anni novanta, in occasione dell'uscita in home video, il titolo italiano è stato semplificato in "L'impero dei sensi". Avendo voluto mostrare sullo schermo nudità e scene di sesso non simulate, per sfuggire alla censura nipponica Oshima fu costretto a sviluppare e montare la pellicola in Francia (pare che ancora oggi in Giappone sia impossibile vedere il film nella versione non censurata). Processato per oscenità in patria (per aver pubblicato la sceneggiatura!), il regista fece una famosa dichiarazione: “Nulla di ciò che viene mostrato è osceno. Le uniche cose oscene sono quelle che vengono nascoste”.

21 gennaio 2013

Django unchained (Q. Tarantino, 2012)

Django Unchained (id.)
di Quentin Tarantino – USA 2012
con Jamie Foxx, Christoph Waltz
**

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina.

Nel profondo Texas, un paio d’anni prima della guerra civile americana, lo schiavo nero Django (Jamie Foxx) viene liberato dal cacciatore di taglie tedesco King Shultz (Christoph Waltz) e si unisce a lui per vendicarsi degli schiavisti che gli hanno portato via la moglie, ora segregata nella tenuta del negriero Calvin Candie (Leonardo DiCaprio). Per la prima volta nella sua carriera Quentin Tarantino realizza esplicitamente un western (“esplicitamente” perché in passato, per esempio in alcune sequenze di “Kill Bill” e di “Bastardi senza gloria”, si era già ispirato a questo genere cinematografico da lui così amato), facendo riferimento diretto al sottogenere del western all’italiana: il nome del protagonista e l’idea di base provengono infatti dal leggendario “Django” di Sergio Corbucci, mentre spunti, situazioni e persino parte della colonna sonora (da Ennio Morricone al tema di “Trinità”) saccheggiano ampiamente la produzione italiana degli anni sessanta e settanta. Ma come sempre, nei film di Tarantino è difficile contare tutte le citazioni che si accumulano strada facendo, anche perché molte di esse si accatastano in maniera random o addirittura superflua. In ogni caso, il regista ha dichiarato di aver voluto realizzare un film che “affrontasse l’orribile passato degli Stati Uniti riguardo alla schiavitù”, ma di averlo voluto fare come uno spaghetti western e non un film “serio”. Anche Sergio Leone e soci, a dire il vero, usavano i grandi eventi storici e sociali nei loro film: ma questi rimanevano soltanto sullo sfondo e non sovrastavano, con il loro ingrombrante significato, le vicende degli uomini che di quelle pellicole erano i protagonisti. C’è chi ha scritto che dopo “Kill Bill” il buon Quentin ha smesso di essere uno sperimentatore ed è diventato un autore: proprio per questo, nonostante la sua voglia di stupire con esagerazioni sempre maggiori, è diventato in un certo senso prevedibile. Se non mancano scene e sequenze esilaranti o memorabili, soprattutto nella prima parte (la liberazione di Django da parte di Schultz, il loro primo “lavoro” insieme, la divertentissima scena dei vendicatori incappucciati che anticipano il Ku Klux Klan: “La prossima volta faremo maschere migliori”), dall’entrata in scena di DiCaprio la pellicola sembra ingripparsi e comincia ad arrancare, trascinando la parte centrale troppo a lungo, prima di riprendere il suo ritmo nello scontro finale. E rimane sempre la sensazione che il tema della schiavitù – così come era avvenuto per il nazismo e l’olocausto in “Bastardi senza gloria” – siano per Quentin soltanto un pretesto come un altro per dare libero sfogo alla sua vena citazionista, all’esibizione di violenza fumettosa ed estetizzata (notevoli gli schizzi di sangue finto), alla messa in scena di dialoghi e situazioni talmente assurde e paradossali che dopo un po’ cominciano a stancare. Alcune curiosità: Franco Nero, il Django originale del film di Sergio Corbucci, compare in una breve sequenza nella quale, fra l’altro, discute con Jamie Foxx su come si scriva il suo nome (“La ‘D’ è muta” – “Lo so”). La donna con il volto coperto da un fazzoletto che si intravede più volte insieme agli sgherri di Candie, al punto che lo spettatore si attende su di lei chissà quale rivelazione che invece non arriverà mai, è Zoë Bell, già controfigura di Uma Thurman in “Kill Bill” e protagonista di “Grindhouse – A prova di morte”. Lo stesso Tarantino ha un breve cameo nei panni di un uomo che esplode a causa di un candelotto di dinamite. Sempre fra gli sgherri di Candie, infine, si riconoscono Tom Savini e Ted Neeley (il Gesù di “Jesus Christ Superstar”!). Nel cast ci sono anche Kerry Washington (la moglie di Django, dal nome tedesco: Broomhilda von Shaft) e Samuel L. Jackson (Stephen, il servitore di Candie). La multiforme colonna sonora contiene anche brani classici (il “Dies Irae” dal Requiem di Verdi, “Per Elisa” di Beethoven suonata con l’arpa), rap e pop. Polemiche in America (prive di senso, visto il contesto) per la troppa violenza del film e per l’eccessivo uso della parola “nigger”.

19 gennaio 2013

Frankenweenie (Tim Burton, 2012)

Frankenweenie (id.)
di Tim Burton – USA 2012
animazione a passo uno
**

Visto al cinema Odeon.

Ispirandosi al cortometraggio omonimo (ma in live action) che aveva realizzato nel 1984, Tim Burton ne fa un remake (animato a passo uno come "Nightmare Before Christmas" e "La sposa cadavere") che amplia la vicenda originale pur conservandone l'idea di base (una parodia infantile e canina del "Frankenstein" di James Whale, qui tramutata in un omaggio a tutto campo al cinema horror e di mostri). Come nel prototipo, il protagonista Victor – un bambino solitario, appassionato di cinema e soprattutto di scienza – riporta in vita il defunto cagnolino Sparky grazie all'elettricità, scatenando però paure e timori nel vicinato: la situazione peggiora quando anche i suoi compagni di scuola, in competizione fra loro per vincere una gara bandita dall'insegnante di scienze, utilizzano lo stesso metodo per dare la vita a mostri di vario tipo (memorabile, per esempio, la tartaruga gigante in stile Godzilla creata dal ragazzino giapponese). Rispetto all'originale, che come questo era in bianco e nero, manca forse un po' di freschezza, la storia sorprende di meno e anche le citazioni si fanno più esplicite. Apprezzabile comunque l'elogio della scienza, anche se naturalmente non si sfugge dai luoghi comuni dei B-movie (ogni tentativo di piegare le leggi della natura al proprio volere si traduce in un disastro). Buona l'animazione e le caratterizzazioni: fra i personaggi minori, rimangono impressi l'insegnante di scienze (che sembra davvero uscito da un film horror) e il perfido gatto bianco, dallo sguardo veramente inquietante. Nel complesso è una gradevole fiaba dark, superiore alla media della recente produzione di Burton, anche se il corto del 1984 sembrava avere una marcia in più.

18 gennaio 2013

Frankenweenie (Tim Burton, 1984)

Frankenweenie (id.)
di Tim Burton – USA 1984
con Barret Oliver, Shelley Duvall, Daniel Stern
**1/2

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Il piccolo Victor Frankenstein, turbato dalla morte del suo cagnolino Sparky, riesce a riportarlo in vita grazie a esperimenti con l'elettricità. Ma l'animale redivivo semina il panico nel quartiere, e i vicini di casa si coalizzano per distruggerlo. Prodotto dalla Disney e diretto da un Tim Burton a inizio carriera, un anno prima del suo lungometraggio d'esordio ("Pee-Wee's Big Adventure"), questo cortometraggio di circa mezz’ora è un’esplicita parodia del "Frankenstein" di James Whale, di cui riprende quasi ogni sequenza trasfigurandola in chiave canina o infantile, con tanto di fotografia in bianco e nero e citazione finale da "La moglie di Frankenstein" (la cagnolina con le meches). E questo è forse anche il suo principale difetto, visto che il film si basa praticamente su un'unica idea. L'ambientazione nei quartieri suburbani americani, fatti tutti di villette a schiera, ricorda e anticipa quella di altri film burtoniani, come "Edward mani di forbice". Ottimo il cast di contorno, soprattutto per quanto riguarda i genitori di Victor, interpretati da Shelley Duvall e da Daniel Stern. Alcuni elementi (il cimitero degli animali, il laboratorio di Victor in soffitta, la vicina di casa grassa) sembrano anticipare graficamente "Nightmare Before Christmas". Nel 2012 Burton ha preso spunto dal corto per espanderne la storia e realizzare un lungometraggio animato in stop motion con lo stesso titolo.

Vincent (Tim Burton, 1982)

Vincent (id.)
di Tim Burton – USA 1982
animazione a passo uno
***

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Mentre lavorava alla Disney come animatore, Tim Burton ha realizzato questo breve cortometraggio di sei minuti che costituisce di fatto il suo primo lavoro professionale come regista. Girato a passo uno (la stessa tecnica che sarà alla base di “Nightmare Before Christmas”), il film racconta la storia di Vincent Malloy, un bambino di sette anni che si identifica a tal punto con l’attore Vincent Price da immaginarsi con le sue fattezze in ruoli tragici e tormentati come quelli che lo hanno visto spesso protagonista di pellicole tratte dai racconti di Edgar Allan Poe. Le immagini sono accompagnate un poema in rima, scritto dallo stesso Burton e recitato (nella versione inglese) da Price in persona, colmo di riferimenti a Poe (in particolare a “Il corvo”). Ovviamente, vista l’atmosfera che si voleva ricreare, il breve film è completamente in bianco e nero e le scenografie ricordano lo stile del cinema espressionista tedesco degli anni venti. Suggestivo e inquietante, anticipa temi, elementi e sensazioni che ritroveremo nei lavori migliori di Burton, e può essere letto anche in chiave autobiografica (le fattezze del bambino protagonista, a tratti, ricordano proprio quelle del giovane regista). Vincent Price collaborerà con Tim Burton, suo grande fan, anche in seguito (lo ricordiamo come lo scienziato-creatore di “Edward mani di forbice”).

17 gennaio 2013

Castaway on the Moon (Lee Hae-jun, 2009)

Castaway on the Moon (Kimssi pyoryugi)
di Lee Hae-jun – Corea del Sud 2009
con Jung Jae-young, Jung Ryeo-won
***

Visto in TV, con Sabrina.

Disoccupato, abbandonato dalla fidanzata, pieno di debiti e disgustato dalla vita moderna, il trentenne Kim Seung-geun decide di suicidarsi gettandosi da un ponte nello Han (il fiume che attraversa Seul). Ma la corrente lo porta fino a un’isolotto che sorge in mezzo al fiume e su cui poggia uno dei piloni del ponte. Non sapendo nuotare (e avendo il cellulare scarico), si trova impossibilitato ad abbandonare l’isola e ad avvertire qualcuno della sua presenza: ma dopo l’iniziale disperazione, scopre che vivere da “naufrago” lontano dalla civiltà (anche se in realtà i grattacieli della città sono a breve distanza) gli si addice. La sua presenza sull’isola rimane ignota a tutti tranne che a una ragazza, se possibile ancora più sociofobica di lui. Si tratta della ventenne Kim Jung-yeon, una hikikomori (per usare il termine giapponese che si riferisce a quelle persone che si ritirano dalla vita sociale e si rifiutano anche di uscire dalla propria camera), il cui unico contatto con il mondo esterno coincide con il momento in cui, di notte, osserva la luna con il suo telescopio, sognando di vivere in un luogo dove non c'è altra anima viva. Proprio attraverso la sua lente Jung-yeon scopre l’esistenza di Seung-geun e comincia a seguirne con interesse le vicissitudini, stringendo una sorta di legame empatico a distanza che presto si traduce in una vera e propria corrispondenza (lui scrive sulla sabbia, lei risponde inviandogli messaggi in bottiglia). Opera seconda del regista e sceneggiatore Lee Hae-jun, “Castaway on the Moon” è un film insolito e accattivante, che può contare su uno spunto di partenza assai originale e, pur con uno svolgimento prevedibile, riesce a non “rovinarlo” ma a far riflettere senza qualunquismo – attraverso la bizzarria e l’ironia della situazione – su quel senso di straniamento, di isolamento o di rifiuto del mondo che, soprattutto nei popolatissimi paesi asiatici, è piuttosto comune (non a caso i temi della solitudine e dell'alienazione sono assai frequentati nel cinema dell’estremo oriente, da Taiwan al Giappone). Bravi i due attori e interessante la caratterizzazione dei personaggi, entrambi decisi a vivere da soli e "in rotta" con la società, ma contemporaneamente alla ricerca di un appiglio o di un punto di riferimento: mentre Seung-geun, che si nutre con piante, funghi, pesci e uccelli e ha come unico compagno di conversazione uno spaventapasseri (che svolge un ruolo simile al Wilson del film hollywoodiano “Cast Away”), a un certo punto si pone un’obiettivo che rappresenta per lui la “speranza” (mangiare un piatto di spaghetti che si procurerà da solo, coltivandone le materie prime), Jung-yeon – che in precedenza “viveva” solo virtualmente, ovvero creandosi un profilo fasullo su un social network – di pari passo comincia a vincere la propria paura del mondo esterno e ad avventurarsi in scorribande notturne allo scopo di raggiungere il ponte che sovrasta l’isola del suo “alieno” e recapitargli così i propri messaggi. E alla fine, entrambi scopriranno che l'unico modo per vincere la solitudine è quello di trovare la persona – fosse anche una su un milione – con cui si riesce a comunicare. Il film ha riscosso un grande successo di pubblico in Corea (e non solo) e ha fatto incetta di riconoscimenti in diversi festival (compreso il premio del pubblico al Far East Film di Udine).

16 gennaio 2013

The master (Paul T. Anderson, 2012)

The Master (id.)
di Paul Thomas Anderson – USA 2012
con Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman
**

Visto al cinema Eliseo, con Sabrina, Marco ed Eleonora.

Anni cinquanta: Freddie Quell, reduce di guerra che fatica a reinserirsi nella società (anche per problemi di alcol e la sua ossessione per il sesso), incontra Lancaster Dodd, leader e guru del movimento filosofico “La Causa”, che si propone di riportare l’uomo al suo stato originario e ancestrale di felicità attraverso metodi psicoterapeutici e sedute di pseudo-ipnosi (ovvi i riferimenti a L. Ron Hubbard e a Dianetics, precursore di Scientology) e ne diventerà, almeno per un certo tempo, un adepto e un seguace. Se il film brilla per le interpretazioni dei due protagonisti (colpisce soprattutto un Joaquin Phoenix magro e nervoso come non mai, con tanto di semiparalisi al volto che ricorda a tratti Takeshi Kitano; Seymour Hoffman invece non fa altro che mostrare le doti che già tutti conosciamo), nel complesso manca di mordente e non dà mai la sensazione di coinvolgere a livello emotivo. Il che non stupisce, visto che tutte le pellicole di Paul Thomas Anderson hanno almeno tanti difetti quanto pregi: anche in questo caso la narrazione è pesante e farraginosa, e alcune scene si trascinano così a lungo che un'ulteriore sforbiciata in fase di montaggio sarebbe stata auspicabile (si pensi alle snervanti sequenze in cui ci vengono mostrati all’opera i “metodi” di Dodd, come quella in cui Freddie cammina avanti e indietro per la stanza, toccando pareti e finestre: se voleva farci riflettere sull’assurdità delle procedure terapeutiche della “Causa”, si poteva fare in modo più essenziale). Inoltre non c’è un climax, non c’è un riscatto, non c’è una catarsi; semplicemente a un certo punto Freddie abbandona Dodd: forse non ne era mai stato veramente un adepto, lo seguiva per mancanza di alternative ma senza convinzione (tanto che l’unico momento in cui sembra davvero sincero è quando, in prigione, si scaglia contro di lui), e se sceglie di lasciarlo non è certo al termine di un sofferto percorso personale. Il film fallisce anche nel voler raccontare il “fenomeno” Dianetics: non solo per mancanza di coraggio (nomi, episodi e riferimenti sono alterati, forse per evitare problemi legali) o di chiarezza (non viene mai detto esplicitamente che Dodd è un ciarlatano, anche se il modo in cui reagisce alle critiche o alle contraddizioni, o con cui definisce arbitrariamente i fondamenti del suo metodo, lasciano comunque intendere che si tratti di fuffa), quanto per un evidente scarso interesse, già in partenza, da parte di Anderson (anche sceneggiatore) nel voler sviscerare a fondo il tema delle pseudoscienze e delle sette. Aveva fatto sicuramente di meglio con “Magnolia” (ricordate l’imbonitore televisivo interpretato da Tom Cruise?). Certo, bisogna anche riconoscere che il focus del film non sta nel guru in sé, quanto nel suo rapporto con il seguace. E nel modo in cui viene ritratto sullo schermo, oltre che nella buona prova dei due interpreti, sta forse il maggior pregio della pellicola. Niente per cui entusiasmarsi, comunque.

13 gennaio 2013

Cloud Atlas (Wachowski, Tykwer, 2012)

Cloud Atlas (id.)
di Andy e Lana Wachowski, Tom Tykwer – Germania 2012
con Tom Hanks, Halle Berry, Bae Du-na
***1/2

Visto al cinema Colosseo.

"Tutto è connesso", recita la frase di lancio di un film affascinante e complesso, che racconta in parallelo sei vicende ambientate in epoche diverse (tre di queste sono state dirette dai fratelli Wachowski – che dai tempi di "Matrix" sono diventati un fratello e una sorella – e tre dal talentuoso Tom Tykwer, il regista tedesco di "Lola corre"), apparentemente scollegate l'una dall'altra ma in realtà unite non solo dal ricorrere di temi ed elementi comuni (la libertà e la schiavitù; la ricerca della verità; il cambio di prospettive; la fuga attraverso l'arte) e di attori (praticamente ogni interprete recita – camuffato in vario modo – in tutti e sei gli episodi) ma anche per il modo in cui, attraverso il tempo e lo spazio, la vita e le azioni di ciascun individuo hanno una diretta influenza su quelle degli altri; e non importa se ciò avviene attraverso i fatti oppure mediante sogni, visioni, percezioni. Al punto che "un unico atto di gentilezza si propaga attraverso i secoli per ispirare una rivoluzione in un lontano futuro". Ed è proprio questo "passaggio di testimone", che può non essere colto se si guarda a un episodio per volta, a rendere più ampio il risultato finale e a mostrare come ogni periodo dell'umanità e ogni azione di un singolo uomo abbia una profonda influenza non solo sul suo presente ma anche sul suo futuro (confutando l'affermazione dell'uomo d'affari del primo episodio, che di fronte al desiderio del suo genero di lottare per l'abolizione della schiavitù, afferma che un tale atto non produrrà nulla e sarà solo una goccia nell'oceano. "Ma l'oceano è fatto di gocce", ribatte lui). Se il sottotesto filosofico e karmico (ci sono di mezzo anche le reincarnazioni) poteva rischiare di appesantire il film, ciò non avviene perché esso è appunto veicolato in maniera naturale e mai pedante: gli autori lasciano che esso fluisca dagli eventi che ci mostrano, senza mai mollare la presa sulla narrazione e riuscendo – cosa più unica che rara – a portare a termine le sei storie con un montaggio serrato che spazia dall'una all'altra, senza smarrire per strada l'attenzione dello spettatore. Merito, oltre che di una buona sceneggiatura (che offre tanti e tali spunti, rimandi, riferimenti e citazioni, da non riuscire a tenerne il conto), anche di un cast davvero fenomenale, di cui parleremo fra poco.

Nel 1849, l'avvocato Adam Ewing (Jim Sturgess) sta attraversando in nave l'Oceano Pacifico per riportare al suocero, un ricco uomo d'affari della California, un lucroso contratto firmato con il proprietario di una piantagione. L'incontro con uno schiavo maori che sogna la libertà e che gli salverà la vita durante la traversata, cambierà ogni sua idea, al punto da spingerlo a ribellarsi al potente suocero. Nel 1936, a Edimburgo, il giovane musicista gay Robert Frobisher (Ben Whishaw) si fa assumere come copista dall'anziano e celebre compositore Vygan Ayrs. Vivendo al suo fianco, troverà l'ispirazione per scrivere a sua volta un capolavoro, il "Cloud Atlas Sextet": ma quando il maestro vorrebbe impadronirsene e pubblicarlo con il proprio nome, minacciando di rivelare al mondo il suo passato non proprio cristallino, Robert lo ferisce e si dà alla fuga, per completare il proprio lavoro in clandestinità prima di suicidarsi. Nel 1973, a San Francisco, la reporter Luisa Rey (Halle Berry) indaga sulle attività clandestine di una potente azienda che opera nel campo dell'energia, spinta da indiscrezioni che le sono state fornite dal fisico nucleare Rufus Sixmith. Quest'ultimo viene ucciso da un misterioso sicario, e anche Luisa si ritrova in pericolo, avendo scoperto che la corporazione, al soldo delle lobby petrolifere, vorrebbe provocare un disastro in un reattore nucleare. Nel 2012, l'editore britannico Timothy Cavendish (Jim Broadbent) viene rinchiuso dal rancoroso fratello in un ospizio per anziani, gestito con il pugno di ferro dalla tirannica infermiera Noakes. Con l'aiuto di un gruppo di arzilli vecchietti, Timothy organizzerà un piano di fuga. Nel 2144, in un mondo distopico e totalitaristico, Somni-451 (Bae Du-na) lavora come "servente" in un ristorante nella megalopoli di Neo Seoul. Come tutti coloro che sono nati "artificialmente" (ossia in provetta, a differenza dei "purosangue" che nascono in maniera naturale), non ha diritti ma solo doveri, e ignora persino che sia possibile una vita diversa. L'incontro con Hae-Joo Chang, membro di un gruppo di ribelli che l'aiuta a fuggire, la porterà a scoprire un nuovo mondo e diventerà l'ispiratrice di una prossima rivoluzione. In un futuro post-apocalittico (i titoli di coda dicono che siamo nel 2321), 106 anni dopo "la caduta" (un cataclisma di origine nucleare), l'umanità ha ormai abbandonato la Terra per trasferirsi su colonie in altri pianeti, lasciando dietro di sé pochi individui che vivono divisi in sparuti gruppi: i "prescelti", privilegiati che vivono in isolamento e hanno conservato la conoscenza della tecnologia, e alcune tribù ridotte a uno stato barbarico e semi-primitivo, in perenne guerra fra loro. Fra queste ci sono gli abitanti della valle dove vive Zachry (Tom Hanks), tormentato da un fantasma misterioso e diabolico. L'arrivo della "prescelta" Meronym, in cerca di un modo di comunicare con le colonie extraterrestri, cambierà il suo mondo.

Il film (formalmente di produzione tedesca, al punto che è stato battezzato dai media "il primo blockbuster della Germania", dimenticandosi di cosucce come "Metropolis"...) è tratto dall'omonimo romanzo del britannico David Mitchell (in italiano pubblicato col titolo "L'atlante delle nuvole"), dove il meccanismo delle "storie contenute in altre storie", come scatole cinesi, era ancora più esplicito ed evidente (ogni vicenda era raccontata, letta o vista dal protagonista della storia successiva). Anche nella pellicola, comunque, ci sono questi collegamenti: Il diario di viaggio di Adam (1849) viene letto da Robert nel 1936 e contribuisce ad ispirare la sua composizione. La musica di Robert viene ascoltata da Luisa nel 1973, che ne legge anche le lettere indirizzate all'amante Rufus Sixsmith, anzi è l'incontro con quest'ultimo in persona a dare il via alla sua indagine. La storia di Luisa – come preannunciato dal suo giovane amico ispanico – diventa un libro, anzi un manoscritto che viene recapitato nel 2012 a Timothy Cavendish, che lo porta con sé nella casa di ricovero. L'avventura di Cavendish, il suo anelito per la libertà (con tanto di citazione da Solženicyn) e la sua ardita fuga si trasformeranno in un film, che sarà visto nel 2144 da Somni-451 e ispirerà il suo animo rivoluzionario. La testimonianza di Somni, infine, tramandata da generazione in generazione, si ammenterà di un'aura religiosa: le tribù barbariche nel 2321 la venereranno come una dea, mentre per i "prescelti" sarà comunque un'importante figura di riferimento. Oltre a quelle intertestuali, sono poi innumerevoli le citazioni, i rimandi e i riferimenti a libri, film, poesie, opere musicali "esterne", molte addirittura esplicite, che arricchiscono le vicende in profondità. Ne cito una su tutte: nel 2012 Cavendish grida, durante la sua ribellione, "Soylent Green is people!", la celebre frase che conclude il capolavoro fantascientifico "2022: i sopravvissuti" di Richard Fleischer con Charlton Heston. Ebbene, la trama di quel film riecheggia in modo impressionante gli eventi che si svolgono a Neo Seoul nel 2144, con tanto di scoperta che i corpi degli umani defunti vengono "riciclati" per produrre il "sapone" di cui sono costretti a nutrirsi.

Acclamata da una (piccola) parte della critica, la pellicola è stata invece male accolta da chi l'ha accusata di essere eccessivamente ambiziosa o addirittura caotica e confusa. A torto: perché seguirla, pur nella sua stratificazione, non è difficile. E non solo perché le varie storie, anche se corrono in parallelo, sono comunque lineari (non ci sono salti temporali, flashback o contorcimenti narrativi), ma anche perché ciascuna di esse ha un proprio look e un proprio tono che la rende diversa dalle altre. E non mancano i punti di riferimento cinematografici: l'episodio del 1973, per esempio, si rifà chiaramente alle pellicole di blaxploitation di quegli anni, come il celebre "Shaft", oppure ai film di fantapolitica e di indagine poliziesca; quello del 2012 è quasi una commedia, dai toni grotteschi e surreali (merito anche della comicità del protagonista, Jim Broadbent), ma con richiami a "Qualcuno volò nel nido del cuculo" (vedi l'infermiera Noakes); il mondo futuristico del 2144 richiama naturalmente "Blade Runner", "Il quinto elemento" ma anche sparute pellicole di SF giapponesi e coreani ("The resurrection of the little match girl"), e così via. Le regie di autori diversi non rappresentano in questo caso un handicap, ma contribuiscono ulteriormente a differenziare fra loro le storie. In ogni caso, bravi sia i Wachowski (che hanno diretto gli episodi più fantascientifici o avventurosi: quelli del 1849, del 2144 e del 2321) che il talentuoso Tykwer (dallo stile più classico, responsabile dei segmenti del 1936, del 1973 e del 2012). Tornando alle citazioni, un riferimento fondamentale – che pochi hanno colto ma che mi sembra evidente – è quello del manga giapponese "Le bizzarre avventure di JoJo" di Hirohiko Araki: il film lo ricorda per le avventure ambientate in epoche diverse ("JoJo" è diviso in varie serie, che partono appunto dall'ottocento per poi proseguire negli anni trenta del novecento, ai giorni nostri, nel futuro, e così via), ma anche per dettagli minori come la voglia a forma di stella (qui una cometa) che è sempre presente sul corpo dei protagonisti delle varie storie... E c'è persino uno "stand"! Mi riferisco, naturalmente, al fantasma che appare a Zachry nell'ultimo episodio, visibile a lui solo, che gli parla e influenza le sue azioni: anche nell'aspetto ricorda certe creazioni grafiche di Araki, con tanto di cappello a cilindro (che peraltro richiama quello indossato da Adam nel primo episodio: un altro ciclo che si chiude!).

Eccezionale – come dicevo – il cast, per varietà e composizione (che bello vedere come l'attrice coreana Bae Du-na, mia beniamina già da diversi anni, sia stata finalmente notata e scoperta anche da Hollywood!) ma soprattutto per la capacità interpretativa (su tutti mi sono piaciuti Halle Berry e Jim Broadbent, ma nessuno sfigura e persino Tom Hanks e Hugh Grant riescono a sorprendere in più occasioni). Come già sottolineato, quasi tutti gli attori ricompaiono in tutti gli episodi: a volte da protagonisti, a volte in piccole parti; a volte camuffati con pesanti trucchi che li rendono quasi irriconoscibili, a volte addirittura in ruoli femminili (gli attori maschi) o maschili (le femmine). Tom Hanks, oltre a Zachry (2321, ma anche nel prologo e nell'epilogo ambientato ancora più nel futuro), è dunque anche il medico avvelenatore nel 1849, il portiere d'albergo nel 1936, l'impiegato che consegna il dossier nucleare a Luisa nel 1973, lo scrittore gangster nel 2012, l'attore che interpreta Cavendish nel film del 2144. Halle Berry, oltre a Luisa Rey (1973), è anche una maori nel 1849, la moglie dell'anziano compositore nel 1936, e soprattutto la "prescelta" Meronym nel 2321. Jim Broadbent, oltre a Cavendish nel 2012, è il capitano della nave nel 1849 e il compositore nel 1936. Jim Sturgess, oltre ad Adam nel 1849, è Hae-Joo Chang nel 2144 e il cognato di Zachry nel 2321. Bae Du-Na, oltre a Somni nel 2144 (in più ruoli, e concedendoci anche una scena di nudo!), è anche la moglie di Adam nel 1849 e la messicana nel 1973. Ben Whishaw, oltre a Robert Frobisher nel 1936, è anche Georgette, la cognata di Cavendish, nel 2012. Ma oltre a questi ruoli ce ne sono tanti altri, ancora più "minori": la visione dei titoli di coda, dove vengono mostrate tutte le "incarnazioni" (è la parola giusta) degli attori, riserva non poche sorprese, visto che in certi casi gli interpreti sono davvero irriconoscibili, soprattutto quando si tratta di personaggi del sesso opposto (ci sarà stato lo zampino, in questa scelta, di Lana Wachowski?). Incidentalmente, la cosa ha anche generato una stupida polemica: un'associazione si è lamentata perché alcuni personaggi di Neo Seoul erano interpretati da attori occidentali "truccati" con gli occhi a mandorla, come ai tempi delle yellowfaces (in particolare Jim Sturgess nei panni di Chang), anziché usare veri attori asiatici. Evidentemente questi sedicenti paladini dei diritti altrui non si sono resi conto che uno degli scopi del film era proprio quello di mostrare, per dirla con le parole dei Wachowski, "la continuità delle anime": tanto che ci sono anche asiatici nel ruolo di occidentali (la suddetta Bae Du-na), neri in ruoli di bianchi (e viceversa), e appunto maschi nel ruolo di femmine (e viceversa).

La stessa varietà di apparizioni vale anche per il cast di contorno, pure questo di notevole livello. Parliamo infatti di Susan Sarandon (il primo amore di Cavendish nel 2012; la sciamana nel 2321; e altro ancora), Hugo Weaving (il suocero di Adam nel 1849; il killer nel 1973; l'infermiera Noakes nel 2012; il fantasma diabolico nel 2321; e altro ancora), Hugh Grant (il boss della corporazione nel 1973; il fratello di Cavendish nel 2012; e altro ancora), James D'Arcy (Rufus Sixsmith sia nel 1936 che nel 1973; l'archivista nel 2144), e inoltre Zhou Xun, Keith David, David Gyasi... Da notare come Hugo Weaving faccia praticamente il cattivo in ogni episodio! Al contrario, altri personaggi (ed ecco perché è giusto chiamarle "incarnazioni") compiono un viaggio karmico attraverso il tempo, alternando vite "positive", "negative" o "neutrali", e portando con sé elementi, luoghi e sensazioni che si ripeteranno lungo lo scorrere del tempo (pensiamo a quante volte vengono citati certi luoghi, per esempio: l'Oceano Pacifico, la California, la Scozia, la Corea...). La gestazione del film è stata lunga e travagliata: l'idea iniziale di adattare il romanzo di Mitchell è stata di Tykwer, che ha poi coinvolto i Wachowski, avendo questi opzionato i diritti del testo. Più volte, per problemi di budget, la produzione ha rischiato di abbandonare il progetto: l'entusiasmo di coloro che erano stati coinvolti, come Tom Hanks, ha contribuito a portarlo avanti. La colonna sonora è stata composta dallo stesso Tom Tykwer (con i suoi soliti collaboratori Reinhold Heil e Johnny Klimek) ed è ricca di fascino: da ricordare soprattutto il brano orchestrale che, nel film, è composto da Robert Frobisher e che riecheggia in tutti gli altri segmenti: anch'esso è protagonista di un "ciclo karmico", visto che dal futuro torna nel passato: Vygan Ayrs lo ode in un sogno ambientato nella "mangeria" del 2144 dove lavora Somni-451. E Luisa Rey afferma di conoscerne già la musica prima ancora di udirla in un disco per la prima volta.... Un'ultima riflessione da fare è quella relativa al linguaggio, soprattutto nei due episodi ambientati nel futuro. La lingua ha evoluzioni, alcune parole mutano di significato e altre si semplificano mentre ne nascono di nuove, ma soprattutto è la grammatica a cambiare, al punto che – pur rimanendo intellegibile – la lingua parlata nel 2144 e soprattutto nel 2321 è profondamente diversa da quella del passato e del presente. Anche in questo si nota la cura nella realizzazione del film (e, per una volta, nell'adattamento italiano).

12 gennaio 2013

I love shopping (P.J. Hogan, 2009)

I Love Shopping (Confessions of a Shopaholic)
di P.J. Hogan – USA 2009
con Isla Fisher, Hugh Dancy
**

Visto in divx, con Sabrina.

Rebecca, giornalista pasticciona e irresponsabile, è una "shopaholic", ovvero una compratrice compulsiva, che non sa resistere ad acquistare abiti e accessori di moda ("Quando compro, è come se il mondo diventasse migliore") e a dar fondo alle proprie carte di credito. A causa di quella che è una vera e propria malattia, si ritrova perennemente indebitata fino al collo, ed è dunque abituata a propinare ogni sorta di scuse e di bugie agli amici e agli addetti per la riscossione dei debiti. Il suo sogno è quello di collaborare alla prestigiosa rivista di moda "Alette", ma nel frattempo trova casualmente un incarico come columnist per un periodico che tratta di finanza e di investimenti, sul quale scrive con lo pseudonimo "La ragazza con la sciarpa verde". I suoi articoli sul mondo del risparmio del credito, che si rivolgono senza peli sulla lingua a un pubblico generalista, fanno scalpore e ottengono un grande successo, il che è paradossale se si pensa che proprio lei è la prima a non saper tenere sotto controllo le proprie finanze. L'amica Suze la spinge a partecipare alle riunioni di un gruppo di compratori compulsivi anonimi, ma la vera molla che la porterà a guarire da questa patologia sarà l'amore per il suo giovane caporedattore. Tratto dal best seller di Sophie Kinsella e diretto con verve dal regista de "Il matrimonio del mio miglior amico", è un film simpatico e frizzante, almeno nella prima parte: la seconda, invece, è più convenzionale e riserva poche sorprese prima dell'inevitabile lieto fine, con tanto di riscatto. In ogni caso, decisamente più ironico e movimentato de "Il diavolo veste Prada". Da segnalare, in chiave surreale, le scene in cui Rebecca parla con i manichini nelle vetrine. Interessante il cast di contorno: i genitori della protagonista sono interpretati da John Goodman e Joan Cusack, la direttrice di "Alette" è Kristin Scott Thomas.

9 gennaio 2013

I sospiri del mio cuore (Y. Kondo, 1995)

I sospiri del mio cuore (Mimi o sumaseba)
di Yoshifumi Kondo – Giappone 1995
animazione tradizionale
***

Visto in divx, con Alberto, Eva ed Elena.

Shizuku, studentessa di terza media, è una gran divoratrice di libri. Quando scopre che tutti i volumi che prende in prestito dalla biblioteca sono stati letti prima di lei da un ragazzo, Seiji Amasawa, comincia a domandarsi che tipo sia. Seguendo un misterioso gatto incontrato in metropolitana, giunge in cima a una collina nei sobborghi della città, dove si trova un vecchio negozio di antiquariato, e stringe amicizia con l'anziano proprietario, il cui nipote si rivela essere proprio Seiji. L'iniziale diffidenza verso il ragazzo si trasforma in amore quando Shizuku rimane ammirata dal suo forte carattere e dalle sue molteplici qualità: suonatore di violino e aspirante liutaio, Seiji progetta di trasferirsi in Italia per studiare a Cremona, la culla della liuteria. Seguendo il suo esempio, la ragazza decide a sua volta di impegnarsi seriamente a fare qualcosa, vale a dire la scrittura di un romanzo: e come protagonista sceglie il Barone, la statua di un gatto antropomorfo che aveva colpito la sua attenzione nel negozio d'antiquariato. I primi turbamenti amorosi, i problemi famigliari (i rapporti quotidiani con i genitori e la sorella maggiore), le amicizie, la scoperta di un mondo più vasto e della responsabilità, sullo sfondo delle vacanze scolastiche e delle giornate estive, sono narrati con grande realismo, sensibilità e delicatezza. Tratto da un manga di Aoi Hiragi, è stato il primo film dello Studio Ghibli a non essere diretto né da Hayao Miyazaki (che ne firma la sceneggiatura) né da Isao Takahata: Yoshifumi Kondo, già loro assistente, ne era considerato il legittimo successore e tutti si aspettavano che ne avrebbe raccolto l’eredità, prendendo le redini dello studio. Kondo però morì tragicamente nel 1998, e questo rimane il suo unico film da regista. Il titolo originale significa "Se tendi l'orecchio". Nella colonna sonora spicca la classica ballata country di John Denver, "Take Me Home, Country Roads", di cui Shizuku redige due traduzioni in giapponese (che nella nostra edizione sono ovviamente in italiano) per il coro della scuola, una più letterale e l'altra invece umoristica ("Concrete Road", che parla del suo quartiere di Tokyo). Decisamente mediocre la versione italiana, purtroppo, con un pessimo adattamento dei dialoghi che manca di naturalezza e che ricorre a espressioni esageratamente ricercate (per esempio, quando il padre vede Shizuku in biblioteca, esclama un bizzarro "Quale rarità!" anziché un più naturale "Che strano!"). Il Barone tornerà in una sorta di spin-off, "La ricompensa del gatto", nel 2002.