19 agosto 2016

Erbe fluttuanti (Yasujiro Ozu, 1959)

Erbe fluttuanti (Ukigusa)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1959
con Ganjiro Nakamura, Machiko Kyo
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Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Una compagnia itinerante di attori teatrali giunge in un villaggio sulla costa meridionale del Giappone. Qui, all'insaputa di tutti, il capo della compagnia Komajuro (Ganjiro Nakamura) ha un'ex amante (Haruko Sugimura) e soprattutto un figlio che non vede da dodici anni, Kiyoshi (Hiroshi Kawaguchi). Quando lo viene a sapere, l'attrice Sumiko (Machiko Kyo), attuale compagna di Komajuro, istiga gelosamente la collega più giovane Kayo (Ayako Wakao) a sedurre il ragazzo. Kayo e Kiyoshi finiranno con l'innamorarsi davvero, suscitando l'ira di Komajuro che non vuole che il figlio si mescoli con la gente di teatro. Al secondo film girato nel 1959 (era dal 1936 che non sfornava due pellicole nello stesso anno), Ozu realizza un fedele remake di un suo lavoro precedente, "Storie di erbe fluttuanti" (1934), questa volta sonoro e a colori, mantenendo identica la trama ma spostandone l'ambientazione da una località di montagna a una di mare ed enfatizzando il tema del contrasto fra le generazioni che evidentemente gli stava particolarmente a cuore negli anni del dopoguerra (nelle frasi di Komajuro sul "pubblico che non apprezza più i bei spettacoli di un tempo" potrebbe nascondersi la frustrazione dello stesso Ozu nel vedere bollato il proprio stile come vecchio e datato: persino Kiyoshi accusa il padre di essere troppo legato al passato e di portare in scena personaggi non realistici o al passo con i tempi). Proprio Komajuro, parlando con la madre del ragazzo, è costretto ad ammettere che "niente resta costante sotto il sole, tutto cambia: è così che va il mondo". In generale, la dimensione nostalgica è enfatizzata non solo dallo stile del regista (e dalla natura di remake del film) ma anche dai rapporti fra i personaggi. Già il concetto di una compagnia itinerante di kabuki pare del tutto anacronistico negli anni dopo la guerra, e infatti la tournée va progressivamente peggio, gli spettatori languono, l'impresario teatrale (Chishu Ryu) non si fa più vedere e il denaro comincia a scarseggiare, fino all'inevitabile scioglimento della compagnia.

Ecco dunque che il tema della vita nomade degli attori (suggerito dal titolo della pellicola e già centrale nel film del 1934), destinati a farsi trascinare dalla corrente senza mettere mai radici da nessuna parte, sfuma in quello legato al passare del tempo e alla nostalgia. Il senso di precarietà è evidente persino nelle sequenze comiche con l'attore Kinnosuke (Hiroshi Mitsui) e i suoi due colleghi che cercano inutilmente di conquistare le ragazze locali (diverente, in particolare, la scenetta di Kinnosuke alle prede con la figlia e... la moglie del barbiere). La frase di Komajuro rivolta agli attori che stanno meditando sul da farsi, "Coloro che possono lasciare il teatro lo facciano", rivela che gli uomini di spettacolo sono i primi a non valutare più di tanto la propria professione. Un concetto rafforzato da Kayo, che non si sente degna di Kiyoshi, e ancora da Komajuro nella lite con Sumiko (alla quale grida "Mio figlio è diverso da te, appartiene a una razza superiore"). Anziché dalla Shochiku, sua abituale casa di produzione, Ozu girò il film con la Daiei, lo studio dell'amico e collega Kenji Mizoguchi (morto tre anni prima, e al quale aveva promesso di lavorare insieme). Questo spiega l'assenza di alcuni dei suoi collaboratori abituali (a partire dall'operatore e direttore della fotografia Yuharu Atsuta, sostituito da Kazuo Miyagawa). Stilisticamente prosgue l'utilizzo consapevole del colore da parte del regista, forse mai in maniera così astratta. Predominano il bianco, il nero e il rosso: i primi due negli abiti e nei kimono di tutti i personaggi, il terzo per appuntare singoli oggetti all'attenzione dello spettatore (come l'ombrello rosso di Sumiko nella scenata di gelosia sotto la pioggia). L'inquadratura di apertura della pellicola è indicativa, mettendo in contrapposizione il faro bianco all'ingresso del porto e una bottiglia nera appoggiata sul molo. Lo stesso faro torna poi in numerose inquadrature da punti di vista differenti, come un oggetto che calamita lo sguardo dello spettatore. Da sottolineare infine l'insolita intensità – per Ozu – di alcune scene (la resa dei conti finale fra Komajuro, Kiyoshi e Kayo, dove volano schiaffi e insulti; ma anche la sensualità esplicita negli incontri fra Kiyoshi e Kayo).

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