28 settembre 2016

The woman who left (Lav Diaz, 2016)

The woman who left (Ang babaeng humayo)
di Lav Diaz – Filippine 2016
con Charo Santos-Concio, John Lloyd Cruz
***

Visto al cinema Anteo, con Daniela, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Dopo aver trascorso trent'anni in carcere per un crimine che non aveva commesso, Horacia viene liberata e scopre che suo marito è morto e suo figlio è disperso. Per vendicarsi di Rodrigo, l'uomo che l'aveva fatta imprigionare ingiustamente, si reca nella città dove questi risiede, con l'intenzione di ucciderlo. Ma Rodrigo fa parte di una famiglia ricca, potente e corrotta, e gira sempre con le sue guardie del corpo. Mentre attende l'occasione giusta per avvicinarlo, Horacia si traveste, cambia nome, acquista una pistola, ed entra in contatto con la gente del posto, in particolar modo con i più derelitti: il "gobbetto" venditore ambulante di balut (uove fecondate e bollite); la giovane senzatetto sciroccata che inveisce contro i "demoni"; il travestito epilettico in cerca di autodistruzione; le famiglie che vivono nelle baracche. Come una sorta di eroe notturno ("Chi sei, Batman?"), Horacia si divide fra i propositi di vendetta (che la tengono lontana dai figli: non solo Junior, disperso chissà dove – a un certo momento il film ci lascia quasi sospettare che possa trattarsi del travestito Hollanda – e che solo alla fine della pellicola si metterà a cercare, finendo peraltro col girare in tondo; ma anche Minerva, la figlia minore, che nel frattempo ha messo su famiglia) e la propria pulsione al bene e alla gentilezza, grazie alla quale diventa una vera figura salvifica per l'umanità ai margini della società che abita in questa città oscura, proletaria e violenta, funestata dai disordini, dai sequestri e dalle ingiustizie, dove solo i potenti possono frequentare la chiesa (che il "cattivo" si chiami come l'attuale e controverso presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, forse non è un caso) e dove il mito di figure come Madre Teresa di Calcutta e la Principessa Diana si fonde con il vissuto quotidiano. Lav Diaz, come sempre, gira in bianco e nero, senza colonna sonora (se si eccettuano le canzoni intonate dagli stessi personaggi: indicativa "Somewhere" da "West Side Story", con cui Horacia cerca di instaurare un rapporto affettivo con Hollanda), con camera fissa e senza movimenti di macchina, con inquadrature lunghe e ritmo lento: fa eccezione una sola, unica sequenza, quella in cui Horacia giunge sulla spiaggia in cerca di Hollanda, che significativamente si svolge proprio in contemporanea all'uccisione di Rodrigo, il momento clou della vicenda, alla quale tanto la protagonista quanto noi spettatori non possiamo assistere. Il Leone d'Oro meritatamente vinto a Venezia, dopo il Pardo conquistato due anni fa a Locarno con "From what is before", giunge finalmente a dare notorietà (e una possibile distribuzione in sala) all'opera di un cineasta unico nel suo genere e sicuramente meritevole di attenzione, anche se le sue scelte stilistiche sembrano fatte apposta per tener lontano il grande pubblico. Qui, paradossalmente, siamo di fronte a uno dei suoi film più accessibili, con una trama anche piuttosto lineare: fra Dumas ("Il conte di Montecristo") e Tolstoj ("Dio vede quasi tutto, ma aspetta"), la pellicola si propone come un revenge movie con tutti i crismi. E nonostante le quasi quattro ore di durata, il metraggio è anche sotto la media dei lavori di Diaz (le cui pellicole hanno raggiunto talvolta anche le 10 ore!).

2 commenti:

Marisa ha detto...

Anche se non mi ha folgorato (forse le aspettative erano troppe!) è un gran bel film e le quattro ore scorrono senza noia. Tra tutte molto intensa, anche se prevedibile, la sequenza in cui Hollanda esce dallo stereotipo del transessuale e recupera la piena identità maschile per rivendicare un atto estremamente trasgressivo, ma liberamente scelto e dettato da un profondo ed autentico senso di riconoscenza, in un mondo così indifferente e violento.

Christian ha detto...

Forse proprio la lunga durata e lo stile in cui è girato (il bianco e nero, la camera fissa) contribuiscono ad accrescere l'intensità e il valore di un film che, tutto sommato, dal punto di vista della trama non è poi così dirompente, a differenza dell'unico altro lavoro di Lav Diaz che avevo visto, dove anche i contenuti erano davvero qualcosa di "diverso" dalla maggior parte del cinema internazionale. Comunque bello, e per me un Leone d'Oro meritato.