30 novembre 2013

Verso il sole (M. Cimino, 1996)

Verso il sole (The sunchaser)
di Michael Cimino – USA 1996
con Woody Harrelson, Jon Seda
**1/2

Visto in divx.

Un delinquente sedicenne, Brandon "Blue" Monroe (Seda), malato terminale (gli resta poco più di un mese di vita per un tumore addominale), sequestra l'oncologo che lo ha in cura, l'ambizioso chirurgo Michael Reynolds (Harrelson), per farsi condurre in auto fino in Arizona, nella riserva navajo (il ragazzo è mezzosangue indiano) dove, secondo le leggende di una tribù chiamata "i cacciatori del sole", in cima a una montagna sacra si troverebbe un lago dalle acque miracolose. Il settimo e ultimo film di Cimino, uscito a sei anni dal precedente, è un road movie costruito sul classico tema del cambiamento e della scoperta di sé stessi attraverso il viaggio. Il medico, inizialmente interessato soltanto alla carriera e con fede solo nella scienza (qui contrapposta alla credenze spirituali), nel corso del tragitto muta il proprio punto di vista e le proprie prospettive (anche perché il rapporto con il giovane "Blue" gli riporta alla memoria la traumatica esperienza vissuta con il fratello maggiore, malato anch'esso di cancro e al quale lui stesso staccò – su sua richiesta – il respiratore), tanto da aiutarlo ad evitare la polizia che dà loro la caccia e a fare di tutto per condurlo fino a destinazione. Che poi il lago sacro esista davvero o sia soltanto un punto d'arrivo metaforico e – appunto – spirituale, poco importa. Non poche le similitudini con il primo film di Cimino, "Una calibro 20 per lo specialista", anch'esso incentrato sulla fuga di una coppia di uomini, di cui uno giovane e più anziano, che proprio durante il percorso cementano un'amicizia inizialmente improbabile. Più prevedibile del dovuto, soprattutto nella caratterizzazione stereotipata dei personaggi, a tratti manierista nella regia e nella fotografia, alterna momenti riusciti e commoventi con altri che sembrano tirati via: ma non mancano alcune sequenze splendide, come la corsa della Cadillac insieme ai cavalli nella riserva indiana, per mimetizzarsi con la polvere, quasi un rimando a Ulisse che si confonde con le pecore per fuggire dai ciclopi ne "L'Odissea". Eccellente, comunque, l'uso scenografico che Cimino fa di paesaggi come la Monument Valley, che rendono la seconda parte della pellicola quasi un western moderno. Alcune situazioni evocano o anticipano "Thelma & Louise", "Un mondo perfetto" e – perché no? – "Into the wild". Anne Bancroft è la hippie sciroccata che dà un passaggio ai due fuggitivi. Non sempre azzeccata la colonna sonora.

28 novembre 2013

La ragazza sul ponte (P. Leconte, 1999)

La ragazza sul ponte (La fille sur le pont)
di Patrice Leconte – Francia 1999
con Daniel Auteuil, Vanessa Paradis
***

Rivisto in divx, con Paola, Marta, Beatrice, Esther, Costanza, Florian e Sabine.

La giovane Adèle sta per suicidarsi gettandosi in acqua da un ponte di Parigi, stufa di un'esistenza fatta di rapporti sentimentali tanto frequenti quando sfortunati. A salvarla è Gabor, lanciatore di coltelli che "recluta" le proprie partner fra coloro che non sembrano aver più nulla da chiedere alla vita. Nel corso del loro tour per l'Europa, fra circhi ambulanti e spettacoli sulle navi da crociera, scopriranno di portarsi reciprocamente fortuna: insieme si completano, come una banconota strappata che torna ad avere valore solo unendo le due metà. E proprio il tema della fortuna, del rischio e del gioco d'azzardo (e cosa c'è di più "azzardato" del lancio di coltelli?) fa da sfondo a una storia d'amore quasi metafisica che Leconte gira con estro e sensibilità, aiutato da un'espressiva fotografia in bianco/nero che riveste tutto di un'aura romantica e fuori dal tempo. La magia unisce i due protagonisti anche nel finale, quando si separano momentanemante ma continuano a "comunicare" fra di loro anche a distanza di chilometri l'uno dall'altra: una sorta di entanglement quantistico? Per tutta la pellicola sembra quasi di assistere a un incrocio fra il "realismo poetico" del cinema francese d'anteguerra (che in fondo si tratti di una fiaba è suggerito da diversi elementi: a un certo punto Gabor si autodefinisce "una fata") e la surrealità di certi lavori di Fellini (impressione rinforzata dall'ambiente circense e dal mood delle scene girate in Italia), anche se non manca – soprattutto nella parte iniziale – una certa dose di sarcasmo quasi da black comedy. La raggiante Paradis brilla di luce propria, ma anche il bravo Auteuil non è mai stato così bello e fascinoso. Ottima la colonna sonora, dove spiccano le canzoni "Who will take my dreams away" di Marianne Faithfull (usata durante il lancio dei coltelli), "I'm Sorry" di Brenda Lee e il classico "Sing, Sing, Sing" di Benny Goodman. Da segnalare in particolare due scene dove la musica aggiunge qualcosa di più a sequenze già magnificamente girate, recitate e montate: quella dello shopping a Montecarlo (dove Vanessa Paradis sfoggia per la prima volta il taglio corto di capelli) e quella del lancio dei coltelli "in privato", in un capannone dietro la stazione, quasi il surrogato di un atto sessuale. Ovviamente, il ponte stesso è una metafora dell'amore (qualcosa che unisce due elementi altrimenti separati). Il finale, ambientato su un altro ponte (stavolta a Istanbul), chiude il cerchio in maniera forse prevedibile, ma non era possibile terminare altrimenti.

26 novembre 2013

Thor: The dark world (Alan Taylor, 2013)

Thor: The Dark World (id.)
di Alan Taylor – USA 2013
con Chris Hemsworth, Natalie Portman
**

Visto al cinema Orfeo.

L'infido Loki è stato imprigionato, i Nove Regni sono in pace e Odino regna da Asgard con saggezza e serenità. Tutto bene? No, perché sta per verificarsi un raro "allineamento" dei mondi, e il malvagio elfo scuro Malekith vuole approfittarne per avvolgere l'universo in un'eterna oscurità. Quando l'astrofisica terrestre Jane Foster, ancora innamorata di Thor, viene contaminata dal malefico Aether, la sostanza necessaria al nemico per portare a termine i suoi loschi piani, il dio del tuono non può far altro che condurla su Asgard in cerca di una cura. Il regno degli dèi è però attaccato da Malekith con la sua astronave: e nel corso dell'assalto, fra i caduti, c'è anche Frigga, madre di Thor nonché moglie di Odino. Per vendicarla, il nostro eroe stringerà un'alleanza addirittura con il fratellastro Loki... Il secondo episodio cinematografico dedicato al personaggio creato da Jack Kirby e Stan Lee (che fa il suo consueto cameo: è uno dei vecchietti dell'ospedale psichiatrico) – il terzo se contiamo anche "The Avengers", al quale non mancano un paio di riferimenti (a un certo punto Loki assume per scherzo persino le sembianze di Capitan America) – è una pellicola ancor più fracassona e tonitruante della precedente, e di cui è più facile apprezzare l'aspetto visivo, i costumi e le fantasiose scenografie (gran parte della storia si svolge su Asgard o su altri mondi) che non lo svolgersi della vicenda, infantile e sempliciotta. Alla regia Kenneth Branagh è sostituto da Alan Taylor, l'autore de "I vestiti nuovi dell'imperatore" con Ian Holm (nonché di alcuni episodi del telefilm fantasy "Il trono di spade"): non fa un brutto lavoro, intendiamoci, ma la sua è la tipica regia anonima di molti "giocattoloni" hollywoodiani d'azione o supereroistici. Chris Hemsworth, Tom Hiddleston e Natalie Portman riprendono i ruoli, rispettivamente, di Thor, Loki e Jane, mentre Christopher Eccleston (il nono Doctor Who) è Malekith il maledetto, personaggio che nei fumetti era stato creato da Walt Simonson. Immutato anche il cast di contorno, tanto sul versante "asgardiano" (da Anthony Hopkins e Rene Russo nei panni di Odino e Frigga, a Idris Elba in quelli di Heimdall; l'unica novità è Fandral, ora interpretato da Zachary Levi) quanto su quello "terrestre" (tornano i comprimari Stellan Skarsgård e Kat Dennings, in ruoli sempre più comici): tutti personaggi (per non parlare dei vari Volstagg, Sif, ecc.) dalla caratterizzazione piuttosto spicciola, con l'eccezione forse di Loki, che anche questa volta si rivela la figura più complessa e interessante del lotto. Divertente comunque la battaglia finale a Greenwich, ravvivata da continui passaggi fra le varie dimensioni. Proprio la robusta dose di ironia, che si fonde spesso e volentieri con l'azione, rende piacevole la visione e fa sì che il film si mantenga in linea con le aspettative e con i presupposti del fumetto originale. Nel post-finale, Benicio Del Toro nei panni del Collezionista rivela che il Tesseratte (visto in "The Avengers") e l'Aether sono due delle sei gemme dell'infinito: immagino che lo spunto sarà sviluppato nell'imminente film Marvel dedicato ai Guardiani della Galassia.

25 novembre 2013

Il carretto fantasma (Victor Sjöström, 1921)

Il carretto fantasma (Körkarlen)
di Victor Sjöström – Svezia 1921
con Victor Sjöström, Astrid Holm
***1/2

Visto in divx.

Secondo un'antica leggenda scandinava, l'uomo che muore per ultimo nella notte del 31 dicembre è costretto a condurre per un anno intero il carretto della Morte che va in giro a raccogliere le anime dei defunti destinati all'inferno. È quello che capita allo scapestrato David Holm, ucciso proprio sul rintocco di mezzanotte in una rissa con due compagni di bevute in un cimitero: attraverso una serie di flashback assistiamo alla storia del suo degrado, a come sia stato trascinato verso l'alcolismo dalle cattive amicizie e a come abbia abbandonato la moglie e i figli per dedicarsi ai bagordi e al vagabondaggio, rifiutando persino i nobili tentativi di Edith, una suora laica innamorata di lui, di redimerlo. Ma quando il precedente carrettiere, Georges, gli mostra la morte di Edith (malata di tisi proprio a causa sua) e il tentativo di suicidio della moglie (che intende avvelenare anche i due bambini), David comprende finalmente i propri errori, viene perdonato e riportato in vita. Tratto dall'omonimo romanzo (1912) di Selma Lagerlöf, un memorabile film muto diretto e interpretato da quel Victor Sjöström che nel 1957 sarà il protagonista de "Il posto delle fragole" di Ingmar Bergman. I toni lugubri e spettrali sono abilmente resi con sovraimpressioni (tramite doppia esposizione direttamente in camera), giochi di luce o di ombra e angolazioni ardite, mentre l'insegnamento morale con la redenzione possibile anche all'ultimo istante e attraverso l'intervento soprannaturale ricorda il Dickens de "Il canto di Natale" e prefigura a sua volta il film di Frank Capra "La vita è meravigliosa". La scena in cui David abbatte a colpi di ascia la porta che lo separa dalla stanza in cui la moglie e i figli si sono rifugiati presenta notevoli similitudini con quella analoga in "Shining" di Stanley Kubrick (a onor del vero, una scena simile appare anche in "Giglio infranto" di D.W. Griffith, del 1919). Hilda Borgström è la moglie di David, Tore Svennberg è Georges il carrettiere. In precedenza Sjöström aveva già adattato per lo schermo altri lavori della Lagerlöf, ma fu questo film – distribuito nelle sale proprio il giorno di capodanno del 1921 – a renderlo celebre anche fuori dai suoi confini e a rivelarsi pivotale per il cinema svedese. Fra le altre cose, la pellicola ha avuto una forte influenza su Ingmar Bergman, che ha affermato di averla vista e rivista più volte e le ha dedicato un film per la tv, "The image makers", oltre a prenderne spunti per "Il settimo sigillo" e "Il posto delle fragole".

24 novembre 2013

Eva (Kike Maíllo, 2011)

Eva (id.)
di Kike Maíllo – Spagna 2011
con Daniel Brühl, Claudia Vega
**

Visto in divx, con Sabrina.

In un vicino futuro, la robotica è progredita a tal punto che gli uomini convivono ormai con robot di ogni forma e funzione. Ci sono persino automi antropomorfi, anche se la realizzazione di un'intelligenza artificiale del tutto simile a quella degli esseri umani è ancora di là da venire. Álex Garel, genio della cibernetica, fa ritorno dopo una decina d'anni al paese di montagna dove è cresciuto, dove vive tuttora suo fratello David, e dove ha studiato nell'università locale, che lo ha richiamato per portare a termine un delicato progetto: costruire un robot dotato della complessità emotiva di un vero bambino di dieci anni. Álex sceglie di prendere come modello Eva, figlia di David e di Lana, la donna con cui aveva avuto una relazione prima di fuggire dal paese. La ragazzina è vivace, carismatica e piena di sorprese, e Álex – che scopre di avere una notevole affinità con lei – comincia a sospettare che possa addirittura essere sua figlia: in un certo senso ha ragione, ma non come crede lui... Insolita pellicola di fantascienza "minimalista", dall'ambientazione quasi contemporanea e incentrata sui rapporti emotivi e umani prima che sugli effetti speciali. Se il tema della convivenza fra umani e robot e quello della consapevolezza della propria natura artificiale possono renderlo paragonabile per certi versi ad "A.I." e a "Blade runner", del tutto originale è l'ambientazione innevata e ai limiti del fiabesco (Eva che va in giro con la sua mantellina sembra quasi Cappuccetto Rosso). Peccato soltanto che la tensione non superi mai il livello di guardia e che la sceneggiatura non offra particolari guizzi. Maíllo è all'esordio come regista, mentre il veterano Lluís Homar è Max, il maggiordomo robotico. Da ricordare la frase con cui è possibile "resettare" qualsiasi robot: "Cosa vedi quando chiudi gli occhi?".

23 novembre 2013

Basic instinct (Paul Verhoeven, 1992)

Basic instinct (id.)
di Paul Verhoeven – USA 1992
con Michael Douglas, Sharon Stone
**1/2

Visto in TV.

Il detective Nick Curran (Douglas) della polizia di San Francisco indaga sull'omicidio di una ricca rock star in pensione, uccisa con un rompighiaccio durante un rapporto sessuale. La principale indiziata è Catherine Tramell (Stone), scrittrice bella, ricca, viziosa e bisessuale, che fa ben poco per allontanare da sé i sospetti, attirando invece volontariamente le attenzioni di Nick e scegliendolo addirittura come modello per il protagonista del suo prossimo romanzo. E proprio da un libro scritto da Catherine in passato, che descrive il delitto fin nei più piccoli particolari, potrebbe aver preso spunto l'assassino: sempre che non si tratti proprio della donna, manipolatrice diabolica e misteriosa quanto basta. Entrato nella memoria collettiva per la scena dell'interrogatorio della Stone alla centrale di polizia, quando accavalla le gambe mostrando di essere senza mutandine, più che un thriller erotico è un ingarbugliato noir che punta tutto sul fascino da femme fatale della protagonista e su un plot quasi chandleriano (e non hitchcockiano, come invece hanno scritto molti critici). Certo, alla fine non tutto torna, molte scene di sesso sono gratuite, le caratterizzazioni dei personaggi lasciano a desiderare e la sceneggiatura di Joe Eszterhas (vero "autore" della pellicola, prima ancora di Verhoeven) non è proprio il massimo della "trasparenza"... ma l'insieme, tutto sommato, funziona nel costruire una relazione torbida e speculare fra i due personaggi (lo stesso Nick è stato sospettato di omicidio, in passato, e i dialoghi lasciano intendere che se la sia cavata in maniera non dissimile da Catherine, ingannando la macchina della verità), più simili di quanto si pensasse, e dunque fatti l'uno per l'altra. Il classico film che per qualche indecifrabile motivo risulta migliore della somma delle parti, tanto che i tentativi di farne un sequel (l'orrido "Basic instinct 2") o di ripeterne il successo a base di sesso e di inganni da parte degli stessi autori ("Showgirls", che tre anni dopo avrebbe riunito la coppia Eszterhas-Verhoeven con i produttori Mario Kassar e Alan Marshall) sono disastrosamente naufragati. La Stone, fino ad allora pressoché sconosciuta (nonostante una parte in "Atto di forza" dello stesso Verhoeven), divenne una star. Velo pietoso sul resto del cast, a partire da Jeanne Tripplehorn nei panni della psicologa della polizia.

20 novembre 2013

Venere in pelliccia (R. Polanski, 2013)

Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure)
di Roman Polanski – Francia 2013
con Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric
***1/2

Visto al cinema Eliseo.

Thomas, scrittore e regista teatrale, intende mettere in scena una commedia tratta dal romanzo "Venere in pelliccia" di Leopold von Sacher-Masoch (da cui deriva il termine masochismo). Alle audizioni si presenta (in ritardo, quando ormai tutti sono andati via e nel teatro è rimasto lui solo) un'attrice che aspira alla parte femminile e che si chiama Wanda, proprio come il personaggio che dovrebbe interpretare. Inizialmente titubante a farle un provino (la donna, anche se piena di energia, sembra sboccata e ignorante), Thomas si deve ricredere quando scopre, già dalle prime battute, che conosce la parte a menadito, fin nelle più sottili sfumature, e che sarebbe dunque perfetta per il ruolo. Ma nel prosieguo della serata, mentre si lascia trascinare sempre più dalla recitazione identificandosi a fondo con il suo protagonista, scoprirà che forse Wanda è qualcosa di più di una semplice attrice: un'incarnazione della stessa dea Venere, giunta lì per vendicarsi di lui. Tratto a sua volta da una pièce teatrale (di David Ives, che ha collaborato alla sceneggiatura), il nuovo film di Polanski è – come il precedente "Carnage" – un altro perfetto esempio di "cinema da camera". Stavolta gli attori in scena sono solo due, gli ottimi Amalric e Seigner (moglie dello stesso Polanski, qui davvero strepitosa), e forse rispetto alla pellicola precedente il ritmo è meno incalzante, ma l'autoironia e la "crudeltà" nel mettere in scena una sorta di guerra dei sessi (del tutto sui generis, visto che in fondo asseconda il desiderio di degradazione del personaggio maschile) sono allo stesso livello, il crescendo degli eventi è ben dosato e il gioco del "teatro nel teatro" (qui, in realtà, si tratta di "teatro nel cinema") è sfruttato fino alle estreme conseguenze, a cominciare dalla straniante scenografia (i resti di uno spettacolo western precedente, che fa sì che si debba recitare fra cactus finti e fornelli da campo). Sul palco i due interpreti entrano ed escono in continuazione dai rispettivi personaggi (con il comico contraltare fra la svagata semplicità e la volgarità dell'attrice rispetto all'eleganza e la raffinatezza della Contessa che interpreta) e si scambiano più volte i ruoli, non solo quelli dei personaggi ma anche la posizione dominante e quella di sottomissione (nella "realtà", almeno all'inizio, è il regista a dirigere l'attrice e dunque a dare ordini; nella "finzione", invece, è la donna a comandare), tanto che, pian piano, anche sul palco avviene lo stesso ribaltamento di potere descritto nel romanzo e nella commedia. Allo stesso tempo omaggio a Sacher-Masoch, rilettura delle sue ossessioni in chiave psicanalitica e moderna, e attacco alla sua misoginia di fondo (che non poteva non scatenare l'ira "divina" di Afrodite), la vicenda assume così i contorni di un gioco intellettuale che richiama appunto i miti greci e che sfocia – in un crescendo irresistibile – in uno sberleffo finale contro la megalomania dell'artista, che viene "demolito" sia come uomo che come scrittore-demiurgo, in balia di forze più grandi di lui (e che stesse per scatenarsi un intervento soprannaturale lo suggerivano già le inquadrature iniziali, quelle di una Parigi vuota e sferzata dalla pioggia).

19 novembre 2013

Skyfall (Sam Mendes, 2012)

Skyfall (id.)
di Sam Mendes – GB/USA 2012
con Daniel Craig, Judi Dench, Javier Bardem
**

Visto in divx.

Il terzo film di 007 con Daniel Craig nel ruolo di James Bond non prosegue la vicenda del precedente "Quantum of Solace", come era lecito aspettarsi, ma è un episodio stand-alone, peraltro punto di svolta della saga. "Svolta" si fa per dire, perché non fa altro che ristabilire lo status quo e ricollegarsi idealmente agli inizi delle vicende bondiane, un po' come faceva "Star Wars episodio 3" nei confronti della trilogia classica. Dominato dai temi della vecchiaia (all'agente 007 – che fallisce pure i test fisici per tornare operativo! – viene prospettato il pre-pensionamento; di più, è tutto l'apparato del controspionaggio inglese – il celebre MI6 – a essere messo in discussione dai politici e dai burocrati che lo ritengono ormai antiquato o incapace di affrontare le sfide di "un mondo che è cambiato") e del rinnovamento (che passa però attraverso il recupero del vecchio: Bond rispolvera persino la classica Aston Martin), il film è il canto del cigno di Judi Dench nei panni di "M", ruolo che ha ricoperto nelle ultime sette pellicole, destinata a essere sostituita da Ralph Fiennes. Viene introdotta anche la (nuova) Miss Moneypenny, una Naomie Harris che condivide con Bérénice Marlohe il podio delle bond girl più dimenticabili di sempre. Anche perché, a ben vedere, l'autentica bond girl di questo episodio è proprio lei, Judi Dench, attorno al cui personaggio ruota l'intera vicenda. È per vendicarsi di "M", infatti, che il cattivo del film – l'ex agente Raoul Silva (interpretato da un Javier Bardem dai capelli biondi e dall'atteggiamento effemminato) – organizza un piano tanto complicato quanto, tutto sommato, idiota: perché farsi catturare da Bond per poi intraprendere una spettacolare evasione allo scopo di uccidere "M" quando sarebbe bastato volare direttamente a Londra e raggiungere il suo obiettivo? Non è l'unico punto debole del soggetto, visto che anche le contromosse di Bond e di "M" appaiono altrettanto stupide (perché farsi seguire volontariamente dai cattivi fino a un luogo – scelto da loro stessi, si badi bene! – dove non hanno a disposizione né alleati né armi?). Tale luogo, per inciso, è Skyfall, la villa nella brughiera scozzese dove James Bond è nato e cresciuto, un modo come un altro per mostrare il background dell'agente segreto più famoso del mondo (si citano anche i suoi genitori, con tanto di lapide con i nomi incisi sopra). Mah... Nonostante la regia professionale di Mendes, la raffinata fotografia (i cui toni cambiano però completamente da scena a scena: ogni setting – Turchia, Shanghai, Macao, Londra – sembra affidato a un operatore differente) e l'ottima – come al solito – introduzione pop-musicale (la title song è di Adele), questo nuovo corso bondiano continua a lasciarmi piuttosto perplesso. Nulla da dire sulle qualità attoriali di Craig, beninteso: ma oltre a non sembrarmi l'interprete giusto per il ruolo, è tutto quello che ruota attorno a lui ad apparire banalissimo (vogliamo parlare del nuovo "Q", il solito ragazzino/mago dei computer già visto in millemila pellicole?), schematico o artificioso, come se gli sceneggiatori volessero disperatamente "giustificare" gli elementi classici della saga aggiornandoli ai tempi che corrono, quando non ce ne sarebbe affatto bisogno. E non si rendono nemmeno conto di non essere poi così originali: l'idea di usare proprio un ex-agente MI6 come avversario, per esempio, era già stata sfruttata in passato e con risultati migliori ("Goldeneye", everyone?).

17 novembre 2013

Arcipelago in fiamme (H. Hawks, 1943)

Arcipelago in fiamme (Air force)
di Howard Hawks – USA 1943
con John Garfield, John Ridgely, Harry Carey
**1/2

Visto in divx.

Girata nei concitati mesi del 1942 (l'obiettivo era quello di uscire nelle sale il 7 dicembre, primo anniversario dell'attacco di Pearl Harbor, ma i ritardi nella lavorazione ne posticiparono la "prima" di due mesi), la pellicola racconta i primi giorni dell'ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, superando i limiti del film di propaganda grazie alla maestria registica di Hawks e a una sceneggiatura che si concentra più sulla descrizione dei personaggi e dei loro drammi personali che non sugli eventi storici, visti sempre attraverso la prospettiva umana. Testimoni e protagonisti dei fatti sono un gruppo di militari dell'aviazione americana, membri dell'equipaggio di un bombardiere B-17, che assistono impotenti all'attacco giapponese a Pearl Harbor (erano decollati da poco da San Francisco per raggiungere proprio le Hawaii) e da lì si gettano a capofitto in battaglia, dirigendosi verso le Filippine e partecipando ai primi scontri nel Pacifico. L'impostazione è corale (il cast è privo di vere stelle, ma assai bilanciato), con personaggi che coprono tutto lo spettro del genere bellico, dal veterano fatalista alla recluta inesperta ma piena di entusiasmo; e non manca nemmeno la "mascotte", un cagnolino che abbaia quando sente un nome giapponese! Nonostante qualche iniziale incomprensione e battibecco, il gruppo si rivela compatto e ognuno fa la propria parte: si teme per le sorti di madri, mogli e sorelle rimaste a terra, si soffrono gravi perdite, si combatte tutti uniti e coraggiosamente, e anche l'unico (John Garfield) che all'inizio si mostra cinico e disilluso, persino intenzionato a congedarsi al più presto, cambia rapidamente opinione e si rivela capace di atti eroici. Proprio l'eroismo e il coraggio degli avieri americani (che contrasta con la codardia e il "tradimento" dei nemici) emergono in ogni momento di un film che aveva, fra i suoi scopi, quello di coinvolgere ed esaltare il pubblico e di fargli pregustare immediatamente una rivincita sull'attacco subito dai giapponesi. Ma Hawks, come detto, è bravo a non eccedere in retorica o in glorificazione, a mantenere sempre il focus sui personaggi, a curare la verosimiglianza storica e il realismo: spettacolari, in particolare, le scene di combattimento aereo e il bombardamento finale sulla flotta giapponese che tentava di raggiungere l'Australia (un evento ispirato alla Battaglia del Mar dei Coralli). Gran parte della pellicola si svolge comunque all'interno del B-17, esso stesso un vero e proprio personaggio del film, tanto che l'equipaggio lo chiama confidenzialmente "Mary-Ann" ("Marianna" nel doppiaggio italiano). Quanto alle scene di volo, solo in parte vennero usati modellini: molte sequenze furono girate in basi americane con la collaborazione delle forze aeree, per lo più in Florida, con il coordinamento tecnico del pilota Paul Mantz. La sceneggiatura di Dudley Nichols, ancora incompleta al momento di cominciare le riprese, dedicava ampio spazio all'introduzione e alla caratterizzazione dei vari personaggi, ma fu sfrondata per esigenze di tempo e modificata sul set da Hawks stesso e nientemeno che da William Faulkner, ingaggiato per riscrivere due scene (fra cui quella della morte di John Ridgely). Grazie a tutto ciò, oggi la pellicola può essere goduta anche come "semplice" film di guerra, dal ritmo serrato e coinvolgente, e non solo come documento storico, al di là degli intenti patriottici e propagandistici. Nota a margine: curiosa (e profetica) la scena in cui il pilota di caccia interpretato da James Brown immagina un futuro in cui i velivoli saranno del tutto automatizzati e la guerra si combatterà senza uomini, solo schiacciando un bottone.

16 novembre 2013

Arturo (Jason Winer, 2011)

Arturo (Arthur)
di Jason Winer – USA 2011
con Russell Brand, Helen Mirren
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Arturo Bach (Russell Brand), giovane e immaturo erede di una ricchissima famiglia dell'aristocrazia newyorkese, conduce una vita sregolata e capricciosa a base di feste, alcol, donne, lusso e carnevalate (va in giro vestito da Batman, con tanto di batmobile), anche perché la sua personalità infantile è a malapena tenuta a bada dalla sua tata Hobson (Helen Mirren). Per porre un freno ai suoi eccessi, che potrebbero danneggiare la compagnia di famiglia, la madre lo costringe – minacciando di tagliargli le spese – a fidanzarsi con la pragmatica imprenditrice Susan (Jennifer Garner), figlia di un ricco costruttore edile che si è fatto da sé (Nick Nolte). Ma lui scoprirà invece di amare la più semplice Naomi (Greta Gerwig), aspirante scrittrice e guida turistica abusiva alla stazione centrale di New York. Mediocre remake dell'omonimo film del 1981 con Dudley Moore e Liza Minnelli, inferiore sotto ogni aspetto al prototipo: nonostante una vena umoristico-demenziale non del tutto disprezzabile (più per merito della sceneggiatura che degli interpreti: da salvare solo la Mirren e Nolte, mentre Brand si rivela incapace di accattivarsi la simpatia degli spettatori), finisce col naufragare ben presto, trasformandosi nell'ennesima variante – ma senza coraggio e senza idee – della pellicola romantica basata sulla differenza di classe e sul contrasto fra amore e ricchezza. Cameo per il pugile Evander Holyfield (che la Mirren minaccia: "Ti stacco l'altro orecchio!"). Primo (e finora unico) film diretto dal regista televisivo Jason Winer.

14 novembre 2013

Prima del tramonto (R. Linklater, 2004)

Before Sunset - Prima del tramonto (Before Sunset)
di Richard Linklater – USA 2004
con Ethan Hawke, Julie Delpy
***

Visto in divx, con Sabrina.

Nove anni dopo il loro primo e unico incontro, l'americano Jesse – divenuto ora uno scrittore di successo, grazie a un romanzo ispirato proprio agli eventi di quella notte – ritrova la francese Céline in una libreria di Parigi, ultima tappa del suo tour promozionale in Europa. I due hanno soltanto un'ora a disposizione prima che il ragazzo debba prendere un aereo per tornare a New York, e ne approfittano per camminare per le strade della città raccontandosi la propria vita, confrontandosi sui più disparati argomenti, dando sfogo ai rimpianti e ai ricordi, e scoprendo di essere ancora innamorati l'uno dell'altra. A nove anni di distanza (gli stessi che sono trascorsi nella realtà, tanto per gli attori quanto per gli spettatori), Linklater torna "sul luogo del delitto" con un intelligente sequel del suo film più rappresentativo, "Prima dell'alba", rivelando che i due protagonisti non avevano dato seguito al proposito di rivedersi, sei mesi dopo quella notte, alla stazione di Vienna. Girato praticamente in tempo reale, il film mostra essenzialmente soltanto due personaggi che parlano fra loro: ma la grande naturalezza dei dialoghi (stavolta Hawke e la Delpy figurano ufficialmente come co-sceneggiatori al fianco del regista, suggerendo come gli attori abbiano contribuito a "dare vita" al rispettivo personaggio) e la spontaneità con cui si affrontano i vari temi, senza forzature, scongiura il rischio di verbosità intellettualistica o fine a sé stessa (il film è stato paragonato da alcuni critici al cinema di Éric Rohmer). La personalità e il carattere di Jesse e di Céline fluiscono in maniera naturale dalle loro parole – con cui si raccontano o rievocano le esperiente passate – o dai loro sguardi, mentre il regista illustra la loro passeggiata per Parigi attraverso una lunga serie di piani sequenza: una caratterizzazione che è alla base della buona riuscita del film. Anche stavolta il finale non rivela come proseguirà la storia e se il rapporto fra i due è destinato a durare o meno: in ogni caso, attualmente nelle sale cinematografiche è in programmazione il terzo capitolo della storia, "Before Midnight", ambientato nuovamente a nove anni di distanza (stavolta in Grecia), alla luce del quale è necessario (ri)valutare questo come il tassello centrale di una "trilogia" sulla nascita e l'evoluzione di una relazione. Una finezza: i titoli di testa mostrano le strade e i luoghi di Parigi che i due protagonisti visiteranno successivamente, invertendo l'ordine rispetto alla prima pellicola, dove i vari luoghi di Vienna venivano invece mostrati – senza i personaggi – appena prima dei titoli di coda.

13 novembre 2013

Lake Placid (Steve Miner, 1999)

Lake Placid - Il terrore corre sul lago (Lake Placid)
di Steve Miner – USA/Canada 1999
con Bridget Fonda, Bill Pullman
**1/2

Visto in divx.

Una misteriosa creatura che vive nelle acque tranquille e immobili di un lago sperduto fra le foreste nel Maine semina morte fra i (rari) visitatori. Sulle sue tracce si mette un'improbabile squadra formata da Kelly (Bridget Fonda), paleontologa piena di fobie e in fuga da New York dopo una delusione d'amore; Jack (Bill Pullman), agente della polizia ambientale non del tutto a suo agio nel ruolo di leader; Hank (Brandon Gleeson), il burbero sceriffo locale, insofferente alla presenza degli estranei; e Hector (Oliver Platt), eccentrico milionario appassionato di mitologia e convinto che il mostro sia un coccodrillo gigante, animale che lui idolatra come una divinità. Si scoprirà che quest'ultimo ha ragione: il coccodrillo, migrato nel New England dall'Asia (!), è cresciuto grazie alle amorevoli cure di una vecchietta svampita che vive in una fattoria in riva al lago e che da anni gli dà regolarmente da mangiare le proprie mucche (!!). E i nostri eroi saranno combattuti sul da farsi: dargli la caccia, ucciderlo o catturarlo vivo? Una forte dose di ironia stempera un film horror che strizza l'occhio ai B-movie del passato, che non si prende mai sul serio (a partire dalla caratterizzazione dei personaggi, che passano il tempo a bisticciare fra loro e si rivelano l'uno più imbranato dell'altro) e che può contare su effetti speciali "artigianali" come ai vecchi tempi (il coccodrillo gigante è un animatrone realizzato dal veterano Stan Winston, e non una creatura digitale). Il tono ironico, in ogni caso, non va mai sopra le righe al punto di sfociare nel grottesco o nella parodia esplicita, e questo è sicuramente un pregio di cui va reso atto al regista Steve Miner e allo sceneggiatore (anche produttore) David E. Kelley, che prendono sì spunti da "Lo squalo" e dalla leggenda del mostro di Loch Ness ma effettuano un "downgrade" che rende il risultato finale ben più apprezzabile del previsto. In certi momenti, soprattutto nelle interazioni fra i personaggi, siamo più dalle parti della commedia screwball che dell'horror. Con tre seguiti, tutti per la tv.

12 novembre 2013

Shaolin basket (Chu Yen-ping, 2008)

Shaolin basket (Gongfu Guanlan, aka Kung fu dunk)
di Chu Yen-ping – Taiwan/Cina 2008
con Jay Chou, Eric Tsang
*1/2

Visto in divx.

L'orfano Fang Shi-jie (Jay Chou), cresciuto in una scuola di arti marziali, viene convinto dal manager fallito Zhan Wang-li (Eric Tsang) – che ha scoperto la sua incredibile abilità al tiro: non sbaglia mai un canestro – a giocare a basket nel team della First University. Con i suoi compagni di squadra vincerà il campionato studentesco, battendo in finale gli scorretti rivali della Fireball University, e riuscirà anche a ritrovare i genitori che lo avevano abbandonato da piccolo. Con un occhio a "Shaolin soccer" (il film di Stephen Chow) e un altro al popolare manga "Slam Dunk" (di Takehiko Inoue), una pellicola che naufraga in un mare di luoghi comuni (tratti da fumetti, film e telefilm di carattere sportivo), fra umorismo grossolano, sceneggiatura "scollegata" e personaggi bidimensionali. Assai meno divertente del capolavoro di Stephen Chow, si rivela superficiale anche come spettacolo di intrattenimento tout court. Nel cast (dove si salva solo il veterano Eric Tsang), molte star del cinema e/o della musica taiwanesi o di Hong Kong, come Charlene Choi (la ragazza), Will Liu (il cattivo), Ng Man-tat, Bryan Leung, Eddy Ko e Kenneth Tsang (i maestri di kung fu). Bella, comunque, la canzone "Hero Chou", cantata dallo stesso protagonista.

11 novembre 2013

Blind beast (Yasuzo Masumura, 1969)

Blind beast (Mōjuu)
di Yasuzo Masumura – Giappone 1969
con Eiji Funakoshi, Mako Midori
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Una giovane modella viene rapita da uno scultore cieco, ossessionato dai corpi femminili, che la segrega nel suo magazzino-laboratorio dove intende perfezionare con il suo aiuto una nuova forma di scultura, "l'arte del tatto". Inizialmente la ragazza cerca in ogni modo di fuggire, e a questo scopo semina zizzania fra il carceriere e sua madre, l'unica donna che gli è mai stata vicina e che lo ha aiutato nel rapimento. Ma alla lunga, fra i due si svilupperà un morboso rapporto che crescerà fino alle estreme conseguenze, in un vortice discendente di follia e passione. Ispirato a un racconto di Edogawa Ranpo, un film insolito ed inquietante, caratterizzato in principio da atmosfere da thriller erotico che via via assumono connotazioni sempre più disturbanti e malate, con venature sadomasochistiche (l'esplorazione dei corpi porta rapidamente alla sperimentazione del dolore, direttamente collegata con l'estasi sessuale), tra dipendenza e sindrome di Stoccolma. Paragonato da alcuni a "La donna di sabbia", rispetto al film di Hiroshi Teshigahara è forse meno incisivo nella descrizione psicologica dei personaggi e nella concatenazione delle varie situazioni, ma colpisce per la messa in scena surreale (memorabile la scenografia dello studio dello scultore, in cui si svolge quasi tutta la pellicola, con frammenti di corpi femminili – talvolta giganteschi – che escono dalle pareti e due enormi statue nude sulle quali si muovono i protagonisti, immersi in una perenne penombra) e per lo stile minimalista e tutto sommato raffinato nel portare sullo schermo – senza mai varcare la soglia dell'eccesso grafico gratuito o fine a sé stesso – ossessioni e perversioni di due personaggi tragici e senza via d'uscita.

10 novembre 2013

Ashik Kerib (Sergej Paradžanov, 1988)

Ashik Kerib - Storia di un ashug innamorato (Ashik Kerib)
di Sergej Paradžanov, Dodo Abashidze – URSS 1988
con Yuri Mgoyan, Sofiko Chiaureli
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

L'ultimo film di Paradžanov (che morirà due anni più tardi) è dedicato alla memoria di Andrej Tarkovskij, a sua volta da poco scomparso. Dopo aver portato sullo schermo, nei tre lavori precedenti, immagini, musiche ed elementi del folklore della cultura ucraina ("Le ombre degli avi dimenticati"), armena ("Il colore del melograno") e giorgiana ("La leggenda della fortezza di Suram"), con questo adattamento di un racconto di Mikhail Lermontov è la volta dell'Azerbaijan. Kerib, il protagonista della "favola", è un ashik (o ashug, cioè un menestrello o cantastorie itinerante) innamorato della bella Magul. Poiché è povero, però, il padre di lei rifiuta il proprio consenso, e Kerib è costretto a partire per terre lontane in cerca di fortuna. Dopo numerose avventure (suonerà il suo liuto ai matrimoni di ciechi e sordomuti, sarà ospite di un ricco pascià e costretto ad arruolarsi da un sultano guerrafondaio), verrà riportato magicamente al proprio paese da un santo in groppa a un cavallo bianco, giusto in tempo per impedire le nozze dell'amata con un rivale e per restituire la vista alla madre cieca. La storia, ancor più che in altre occasioni, è solo un pretesto per mettere in mostra costumi e rituali, balli e pantomine, fra stoffe colorate e animali selvatici, sullo sfondo di scenari naturali o archeologici. Rispetto ai film precedenti sembra esserci maggior ingenuità e maggior contaminazione: alcune figure (come il pascià) sono decisamente grottesche, la teatralità impera (i personaggi parlano senza muovere la bocca, o muovendola fuori sincrono; indossano barbe finte; e persino alcuni animali – come la tigre – non sono altro che pupazzi o attori in costume) e non mancano gli anacronismi (fucili moderni, una macchina da presa su cui si posa una colomba nell'inquadratura finale)... Persino la musica che dovrebbe essere diegetica (ossia il suono del liuto e il canto di Kerib) è chiaramente sovrimpressa. Decisamente più naïf e meno riuscito dei film precedenti, reca però con sé il consueto fascino per l'immagine e la cultura del Caucaso di Paradžanov, pur trattandosi di un tipo di cinema che era già del tutto fuori tempo alla fine degli anni ottanta. Il georgiano Dodo Abashidze è accreditato come co-regista.

8 novembre 2013

Sogni proibiti (Norman Z. McLeod, 1947)

Sogni proibiti (The Secret Life of Walter Mitty)
di Norman Z. McLeod – USA 1947
con Danny Kaye, Virginia Mayo
**

Visto in divx.

Per evadere dalla grigia realtà che lo circonda (è dominato da una madre invadente, fidanzato con una ragazza insensibile, sfruttato da un capo che non riconosce il suo valore), il candido Walter Mitty si rifugia in frequenti sogni ad occhi aperti in cui, di volta in volta, si immagina come un coraggioso capitano di vascello, un esperto chirurgo, un impavido pilota d'aviazione, uno spregiudicato giocatore d'azzardo, un raffinato stilista, un abile cowboy, e conquista regolarmente con le sue prodezze la bella di turno. Questa ricca fantasia è forse stimolata dal suo lavoro: corregge infatti le bozze di riviste pulp che ospitano racconti d'avventura, d'orrore, sentimentali o polizieschi. Quando un giorno incontra per caso la bella Rossana (Rosalind nella versione originale), che lo coinvolge in una misteriosa avventura a base di spionaggio, omicidi e traffico internazionale d'opere d'arte, tutti i suoi conoscenti penseranno che si tratti solamente di un altro frutto della sua immaginazione... Tratto da un racconto di James Thurber, girato in un vivido technicolor e dominato dalla verve di Kaye (ma alcuni numeri comico-musicali risultano francamente datati per il gusto odierno), è un elogio dell'escapismo che, nonostante la sua ingenuità, è diventato un cult movie per una certa parte del pubblico americano, tanto che sta per uscirne un remake girato e interpretato da Ben Stiller. Chissà che non ne venga fuori qualcosa di buono, visto che il soggetto resta indubbiamente valido (per di più, spogliato dagli elementi comici e fantastici, è quasi "hitchockiano" nel suo coinvolgere una persona qualunque in una vicenda criminale e di spionaggio). Certo avrebbe meritato un regista più coraggioso o visionario al posto del mestierante McLeod (noto per lo più per aver diretto un paio di pellicole dei fratelli Marx nei primi anni trenta). Nel cast, che comprende anche Ann Rutherford, Fay Bainter e Thurston Hall, si riconosce Boris Karloff nel ruolo del killer-psicanalista.

6 novembre 2013

Tesis (Alejandro Amenábar, 1996)

Tesis (id.)
di Alejandro Amenábar – Spagna 1996
con Ana Torrent, Fele Martínez, Eduardo Noriega
***

Rivisto in DVD.

Angela sta per laurearsi in cinema all'Università di Madrid con una tesi sulla violenza negli audiovisivi. Per procurarsi materiale "estremo" si fa aiutare da Chema, bizzarro studente con la passione per il cinema più trash, horror e pornografico. Quando i due entrano in possesso per caso di una videocassetta, custodita in una sezione segreta degli archivi dell'ateneo, che mostra una ragazza torturata a morte (un cosiddetto "snuff movie"), decidono di indagare e scoprono che si trattava di una studentessa di quella stessa facoltà. Di più: si rendono conto che negli anni precedenti numerose ragazze sono scomparse per diventare protagoniste, loro malgrado, di pellicole del genere. Che il responsabile sia qualcuno che frequenta l'università, uno studente o magari un professore? Il primo lungometraggio di Alejandro Amenábar, girato dopo tre corti, è un thriller debitore alle atmosfere del miglior giallo all'italiana e dello slasher alla Wes Craven, anche se gli eccessi sono decisamente meno grafici e più impliciti. L'atmosfera di tensione e di paranoia (chiunque può essere l'assassino) si sposa con riflessioni sull'assuefazione dello spettatore alla violenza e sul fascino morboso che certi spettacoli hanno anche per gli individui più innocenti (il film si apre con la stessa Angela che prova la tentazione di sbirciare sul luogo di un cruento incidente, e termina con un finale memorabile in cui uno di questi snuff movie viene trasmesso in televisione – e atteso con curiosità e trepidazione dal pubblico – perché "documenta la realtà"), ma anche sulla natura del cinema stesso in quanto mezzo di intrattenimento ("Bisogna dare agli spettatori quello che vogliono", è la ricetta suggerita a un certo punto da un personaggio per risollevare l'industria cinematografica spagnola). La regia dinamica e la sceneggiatura solida, che obbedisce a tutte le regole del genere senza scadere nei cliché fini a sé stessi e lasciando sempre una porta aperta per lo spettatore più smaliziato, dimostrano il talento di un cineasta che con i lavori successivi ("Apri gli occhi", "Mare dentro", "The Others", "Agora") non farà altro che confermarsi. La protagonista Ana Torrent è nota per aver interpretato da bambina, quando aveva sei anni, il capolavoro di Victor Erice "Lo spirito dell'alveare".