26 agosto 2017

Vita di O-Haru, donna galante (K. Mizoguchi, 1952)

Vita di O-Haru, donna galante (Saikaku ichidai onna)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1952
con Kinuyo Tanaka, Toshiro Mifune
***1/2

Rivisto in divx alla Fogona, con Sabrina e Marisa, in originale con sottotitoli.

Giappone, diciassettesimo secolo. Al calar della sera, un'anziana prostituta rimasta senza clienti si rifugia in un tempio buddista: qui, nel volto di una delle tante statuette sacre disposte sull'altare, crede di riconoscere le sembianze del suo primo amore. E parte un lungo flashback in cui veniamo a conoscenza delle numerose e sfortunate vicissitudini della sua vita. Giovane ragazza di origini nobili, in servizio presso un palazzo di Kyoto, O-Haru ne venne scacciata quando si innamorò del servo Katsunosuke (Toshiro Mifune): lui fu costretto al seppuku, lei fu esiliata insieme ai genitori. Le tappe successive della sua vita saranno tutte contraddistinte dal fallimento, dovuto di volta in volta ai casi della vita, agli egoismi degli uomini, alle ingiustizie della società. O-Haru passa dall'essere scelta come concubina da un signore feudale di Edo, Matsudaira (al quale partorirà un erede maschio, che non potrà vedere che da lontano), all'essere venduta come geisha nei quartieri a luce rossa di Shimabara, dall'impiego come cameriera per un mercante di tessuti (la cui moglie la caccerà per gelosia) al matrimonio con un umile venditore di ventagli (che sarà ucciso da un ladro), da aspirante monaca a mendicante per la strada, fino appunto a diventare prostituta. Il film, che ricevette il Leone d'Argento alla Mostra di Venezia l'anno successivo alla clamorosa vittoria a sorpresa di “Rashomon” di Kurosawa, e che dunque contribuì a rendere noto e popolare il cinema giapponese anche in occidente, inaugura la fase più fortunata della carriera di Mizoguchi, una stagione ricca di capolavori – per lo più pellicole di ambientazione storica e in costume – che lo resero per un breve periodo uno dei cineasti più famosi anche al di fuori del suo paese (sarà seguito in rapida successione da titoli come “I racconti della luna pallida d'agosto”, “L'intendente Sansho” e “Gli amanti crocifissi”, che parimenti faranno incetta di premi).

La storia è tratta da un romanzo di Ihara Saikaku, “Vita di una donna innamorata”, un classico della letteratura giapponese dell'epoca Edo (il titolo originale è traducibile in “Vita di una donna di Saikaku”). Nella successione di eventi sfortunati che fanno precipitare la povera O-Haru dalla nobiltà alla miseria, pare quasi di trovarsi di fronte a un capovolgimento del racconto di formazione. E in effetti, i libri di Saikaku – fra i primi a scegliere come protagonisti personaggi proletari o decaduti – si ponevano, già nel seicento, come irriverenti parodie di generi classici come quelli della tradizione aristocratica (il celebre “Storia di Genji”) o le confessioni buddiste. Alcuni aspetti ironici, incredibilmente, sopravvivono: si pensi alla scena del messo di Matsudaira in cerca di una concubina per il suo padrone, che esamina centinaia di ragazze senza trovare quella giusta (per via delle precisissime e assurde richieste fatte dal suo signore) e che sembra uscire da una fiaba. Mizoguchi, dal canto suo, si ritrova a suo agio nel raccontare le vicende di una donna vittima delle azioni degli uomini: sia quando si innamora (il servo Katsunosuke, il mercante di ventagli), sia quando è costretta a condividerne le sorti (il signore Matsudaira, il ladro Bunkichi), sia quando è una vera e propria vittima delle voglie altrui (il mercante Jisei, il cliente falsario), i suoi rapporti con l'altro sesso sono destinati a finire male e a portare sfortuna a lei e agli altri. Persino coloro con cui non ha rapporti romantici/sessuali, ma che hanno comunque potere su di lei, finiscono col tradirla (il padre; i nobili della corte di Matsudaira). Dalle donne, invece, le arriva spesso solidarietà (la madre, le prostitute), anche se alcune di queste – sentendosi tradite – le si rivolteranno contro (la monaca, la moglie di Jisei). Ma è sbagliato definire O-Haru come “vittima della società”, e in particolar modo di una società patriarcale, visto che la donna ci mette senza dubbio anche del suo. Semmai, è vittima del denaro (il padre che la vende) o della sua stessa bellezza. E a volte, al di là delle scelte sbagliate (che nel romanzo di Saikaku erano ancora più esplicite), è semplicemente sfortunata.

Kinuyo Tanaka, “musa” di Mizoguchi e protagonista di quasi tutti i film del regista degli anni quaranta e cinquanta, sfodera qui forse la sua piu grande prova attoriale, sofferta e intensissima, interpretando O-Haru dall'età di quindici anni fino alla vecchiaia, risultando sempre composta e credibile. Attorno a lei, come pianetini attorno a una stella, ruotano una serie di figure minori e a volte macchiettistiche. Estremamente calligrafico (soprattutto nelle scene che descrivono la vita a Kyoto) ma mai manierista, il film racconta la vicende di O-Haru con uno sguardo contemplativo e passa implacabilmente dalla descrizione di riti e momenti solenni ed eleganti agli abissi più profondi della natura umana, dal raffinatissimo cerimoniale di corte alla degradazione (e all'umiliazione) delle prostitute di strada, attraversando tutti gli stadi sociali (nobili, mercanti, monaci) e tutti i “tipi” umani. Notevoli, in particolare, i costumi, soprattutto i kimono che indossa la protagonista. E proprio i capi di vestiario, in più di un'occasione, sono parte integranti del suo destino (l'obi che il marito vuole regalarle è la causa della morte di questi; il kimono che le dona Bunkichi è la causa della sua cacciata da parte della monaca). In generale, anche il modo con cui O-Haru indossa i vestiti suggerisce il suo stato sociale e le tappe del suo degrado: dal raffinato vestiario degli inizi a quello sfacciato di quando lavora come geisha; dal velo che, da prostituta, le serve a mascherare il volto, ormai troppo vecchio per attrarre clienti, fino all'abito da monaca eremita. Due parole infine sullo stile del regista, ormai giunto alla matura perfezione: da ricordare fra i molti piani sequenza, spesso con inquadratura dall'alto e con straordinari movimenti di macchina, quello nel canneto in cui O-Haru vorrebbe suicidarsi con il coltello dopo aver appreso della morte di Katsunosuke e quello in cui cerca inutilmente di avvicinarsi al giovane figlio diventato signore del feudo.

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