18 maggio 2012

Il sangue di un poeta (J. Cocteau, 1930)

Il sangue di un poeta (Le sang d’un poète)
di Jean Cocteau – Francia 1930
con Enrique Rivero, Lee Miller
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Visto in divx alla Fogona, con Marisa, in originale con sottotitoli.

Nello stile delle sperimentazioni di Man Ray, Buñuel e Dalì (finanziate, come questa, dal visconte Charles de Noailles), una pellicola d’avanguardia e surreale che marca il debutto in campo cinematografico del poeta e scrittore Jean Cocteau: la sua carriera come regista riprenderà poi, dalla fine degli anni quaranta, con altri film ispirati alla figura dell’artista e in particolare al personaggio di Orfeo (di fatto questa è la prima parte di una “trilogia orfica” che proseguirà con “Orfeo” nel 1950 e “Il testamento di Orfeo” nel 1960). In una serie di “capitoli” che si succedono come in un sogno, senza una vera continuità, osserviamo un giovane e prestante pittore al lavoro su un ritratto femminile: sconcertato perché la bocca del volto che ha disegnato prende vita, la trasferisce prima sul palmo della propria mano e poi su una statua. Questa lo invita ad attraversare uno specchio, e il giovane si ritrova in un bizzarro albergo nelle cui stanze – dove spia attraverso i buchi della serratura – osserva tutta una serie di bizzarri personaggi (un rivoluzionario messicano che viene fucilato, una bambina sottoposta a crudeli “lezioni di volo”, un fumatore di oppio, un ermafrodita). Dopo un primo tentativo di suicidio, l’artista riattraversa lo specchio ed è testimone di una violenta battaglia fra ragazzi con le palle di neve: uno dei bambini muore, e dal suo petto un baro – che sta giocando a carte con una donna, incarnazione della statua di prima – estrae l’asso di cuori. Innegabile l’eleganza formale del film, così come il fascino della concatenazione puramente onirica di scenari e di eventi, ma rispetto ai lavori di Buñuel ("Un chien andalou" e "L'age d'or") si rimane con l’impressione che metafore, simboli, immagini e significati siano troppo pensati "a tavolino" per risultare realmente efficaci. Da allora, fra l'altro, la settima arte ha preso tutt’altre strade (anche se registi visionari come Lynch o Greenaway hanno dimostrato che non si vive di pura narrazione). Un filo conduttore comunque c’è, ed è quello dell’artista in cerca della gloria eterna (che raggiungerà, inevitabilmente, solo con la morte). La bella protagonista femminile, alla sua unica apparizione cinematografica (prima sotto forma di statua, poi in carne e ossa), è la fotografa americana Lee Miller, che negli anni venti fu una celebre modella, nonché assistente e amante di Man Ray.

2 commenti:

Marisa ha detto...

"Si rimane con l'impressione che metafore, simboli,immagini e significati siano troppo pensati "a tavolino" per risultare realmente efficaci".
Condivido perfettamente perchè così si snatura la vera essenza del simbolo che è tale proprio perchè affonda ed emerge dall'inconscio, quindi da quella parte della nostra psiche irriducibile e che sfugge a qualsiasi controllo e progetto razionale. La sua "efficacia" ed anche la sua grazia consistono proprio dall'emergere spontaneo ed irrepetibile e non dalla sua "costruzione".

Christian ha detto...

Il problema nasce proprio dal fatto che con questo film Cocteau voleva parlare di qualcosa (il rapporto fra l'arte e la morte) e per farlo ha scelto la strada del film surrealista. Bunuel e Dalì, nel "cane andaluso", mettevanno invece in scena le loro immagini a ruota libera: poi anche loro raccontavano qualcosa, certo, ma venivano prima le immagini e poi i significati, non il contrario.