Brother (Takeshi Kitano, 2000)
Brother (id.)
di Takeshi Kitano – Giappone/USA 2000
con Takeshi Kitano, Omar Epps
**1/2
Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.
Per la prima volta Kitano va a girare un film "in trasferta", esportando le sue storie e i suoi personaggi negli Stati Uniti. Il protagonista Yamamoto ("Aniki", il nome con cui tutti lo chiamano nel film, significa in realtà "fratello maggiore" ed è un termine usato spesso dagli yakuza per riferirsi a un collega più anziano), gangster caduto in disgrazia dopo che la sua "famiglia" è stata assorbita da un gruppo rivale, è costretto ad abbandonare il proprio paese e a fuggire in esilio a Los Angeles, dove viene ospitato dal fratello minore Ken (Claude Maki). Questi è un piccolo delinquente che si dedica allo spaccio di droga insieme ad alcuni amici afro-americani. Ma Yamamoto prende in mano le sue attività espandendole a un livello più alto, dichiara guerra alle altre bande del quartiere per conquistarne il territorio, ed esporta così nel nuovo mondo lo stesso stile di vita nichilista che lo caratterizzava in patria. Ne seguirà un'escalation di violenza, che lo condurrà all'inevitabile (auto)distruzione. Il film, come suggerisce il titolo, gira tutto attorno al tema del "fratello": fratelli (o fratellastri) di sangue, come Yamamoto e Ken; fratelli "d'adozione", come il braccio destro di Yamamoto, Kato (interpretato dal solito Susume Terajima), che per lui è pronto a dare anche la vita, o come Danny (Omar Epps), uno degli amici di Ken, quello con cui – nonostante la differenza di lingua, etnia e nazionalità – Yamamoto svilupperà il legame più profondo (cominciato nel peggiore dei modi ma poi proseguito con una complicità persino più stretta di quella che il protagonista ha con lo stesso Ken: più volte li vediamo giocare o scherzare insieme); e, volendo, fratelli come le varie culture che abitano gli Stati Uniti (neri, asiatici, messicani, italo-americani), incapaci di comunicare se non con il linguaggio della violenza (l'unico davvero universale e comune a tutti) e destinate dunque a farsi una guerra eterna e senza via di scampo. Il tema della (mancanza di) comunicazione, fondamentale per la comprensione del film (per una volta persino i tipici "silenzi" di Kitano assumono un nuovo significato: il personaggio è laconico non solo per la propria natura, ma perché si ritrova catapultato in un paese straniero e di cui non conosce la lingua; e di riflesso, dal suo punto di vista a essere silenziosi sono gli americani, che infatti nei suoi flashback mentali non emettono alcun suono dalla bocca), è però neutralizzato dal pessimo adattamento italiano: nella nostra versione, infatti, sono stati doppiati sia i dialoghi in inglese che quelli in giapponese (con l'unica eccezione della breve scena dell'incontro con i gangster messicani), eliminando così tutte le incomprensioni linguistiche e addirittura inventando tante battute che nell'originale non c'erano (vuoi perché i dialoghi erano diversi, vuoi perché erano proprio assenti).
Se il film ha questi e molti altri spunti di interesse (da segnalare, ancora una volta, il grande valore aggiunto della colonna sonora di Joe Hisaishi, con un tema melodico e struggente) e si contraddistingue anche per essere una delle pellicole più violente di Beat Takeshi (si vede molto sangue, fra ferite al volto, tagli di dita e sbudellamenti, benché la violenza sia come sempre antispettacolare e rarefatta), delude però per la sua incapacità di aggiungere granché al discorso già portato avanti da Kitano nei suoi lavori precedenti. Altri grandi registi asiatici o europei, quando hanno avuto la possibilità di andare a girare negli Stati Uniti, ne hanno approfittato per offrire al pubblico la propria visione del mito americano, per confrontarsi con la cultura statunitense, per illustrare a modo loro i temi e le ambientazioni tipiche del cinema made in Usa: ne sono nate pellicole come "Paris, Texas" di Wim Wenders, "Zabriskie Point" di Michelangelo Antonioni, "Arizona Dream" di Emir Kusturica, "Dogville" di Lars von Trier, per non parlare dei lavori di Ang Lee, di Roman Polanski, di Paolo Sorrentino... Kitano, invece, non offre nulla di diverso rispetto ai suoi precedenti film. Che alcuni personaggi parlino inglese o abbiano la pelle nera, in fondo, non cambia quasi nulla: siamo ancora di fronte agli stessi yakuza e agli stessi temi del tradimento, della fuga, dell'ineluttabilità, che avevamo visto nei suoi film passati. Come in "Sonatine", poi, è ancora onnipresente la dimensione ludica del gangster: vediamo i personaggi impegnati in partite a dadi (con Yamamoto che, ovviamente, bara), in lunghi incontri a basket nell'open space che funge da sede al gruppo (con Kato che inutilmente cerca di competere con i neri), a lanciarsi una palla da football sulla spiaggia, a tirare aeroplanini di carta dalla terrazza dell'edificio (che la macchina da presa segue ossessivamente nel loro volo ondivago), a indovinare se il prossimo passante per la strada sarà un uomo o una donna; persino per minacciare il capo mafioso rivale si ricorre a un elaborato gioco con la pistola: ogni valvola di sfogo è buona per rompere la monotonia e la noia di una vita che – nonostante il denaro accumulato – ha poco senso fra un episodio di violenza e un altro. Dunque, la struttura del film è assai simile a quella dei lavori girati in Giappone: l'ambientazione americana è poco sfruttata (solo nel finale si esce dai cupi e claustrofobici palazzi di Los Angeles e ci si addentra nel deserto e negli spazi ariosi: bellissima la sparatoria finale al distributore di benzina!). E per di più, non è accompagnata da un'adeguata intensità emotiva: nella seconda metà del film la vicenda procede in maniera meccanica, quasi monotona, senza consentire allo spettatore un'autentica connessione con i personaggi. Forse il mio amico Martin non ha tutti i torti quando fa notare che al primo decennio di attività registica di Kitano (da "Violent Cop" del 1989 a "L'estate di Kikujiro" del 1999), foriero di capolavori, ne è seguito un secondo di livello decisamente inferiore (pur se ha offerto un altro grandissimo film, "Dolls" nel 2002, e comunque qualcun altro da salvare, come "Zatoichi" e "Achille e la tartaruga").
4 commenti:
Sono d'accordo su tutta l'analisi di Brother... Kitano si è ripetuto e non ha aggiunto nulla di nuovo, cosa che invece lui ha sempre fatto con ogni film. E' una versione ridotta e riassunta di se stesso per un pubblico più superficiale come quello americano che di sicuro non è abituato ai livelli del mitico Beat!
Solo non sono d'accordo sul veder male il suo secondo decennio, ho adorato la trilogia del suicidio artistico, in particolare Achille e la Tartaruga e poi il suo ultimo Outrage e di entrambi ho scritto sul blog. Credo che lui sia stato uno dei pochi che sia riuscito a guardarsi tanto alle spalle quanto avanti per cercare di fare qualcosa di nuovo senza essere troppo monotono e riuscendoci anche alla perfezione!
Un saluto!
Il secondo decennio (in cui, come ho scritto, delle cose buone le ha comunque fatte) sfigura solo se paragonato al primo, in cui davvero ci aveva regalato alcuni dei film più belli di tutti gli anni novanta... Concordo comunque sul fatto che Kitano sia uno dei pochi registi a portare davvero avanti un discorso personale e originale.
"Outrage", a dire il vero, devo ancora vederlo, ma ne avevo letto male un po' ovunque...
Tra i migliori degli anni 90 di sicuro, per me anche tra i migliori del 2000!Anche se in quest'ultimo decennio ha avuto fior di concorrenti in patria, è un fantastico periodo per il Giappone!
Outrage a me è piaciuto moltissimo, se a molti invece no penso sia perché si stacca dal tipico film yakuza degli anni '90 e diventa tutt'altro. Va guardato con le nuove prospettive nate dopo la trilogia del suicidio, Kitano dopo quei tre film non poteva più essere sempre lo stesso!
Quasi mi astengo dal commentare, ma ricordo all'appassionato di cinema orientale che ho registrato anche Brother, e che tornerò qui quando lo vedrò.
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