11 gennaio 2009

Figlio unico (Yasujiro Ozu, 1936)

Figlio unico (Hitori musuko)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1936
con Choko Iida, Shinichi Himori
***

Visto in DVD, con sottotitoli (registrato da "Fuori Orario").

Oltre a essere probabilmente il più paradigmatico della sua poetica fra tutti quelli dell'anteguerra (i temi sono quelli del rapporto fra genitori e figli, del sacrificio, della sconfitta e della disillusione), questo lungometraggio è anche il più vecchio film sonoro di Ozu a essere sopravvissuto, se si eccettua il breve documentario "Kagamijishi". Il regista aveva infatti atteso a lungo prima di abbandonare il cinema muto e di passare al sonoro (lo stesso farà con il colore, al quale approderà solo nel 1958), abbracciandolo soltanto nel 1936 con "L'università è un bel posto", una pellicola precedente a questa ma andata perduta. È la storia di Otsune, una vedova che vive in campagna e fa enormi sacrifici (lavorando in fabbrica e vendendo persino la casa) per permettere al figlio Ryusuke di studiare a Tokyo e farsi così una posizione. Ma quando – dopo la sua laurea – si reca in città a trovarlo, scopre che insegna in una modesta scuola serale e che conduce un'esistenza piuttosto misera. Il ragazzo si scusa per aver deluso le attese della madre e per aver fallito nella vita, ma lei lo rimprovera severamente per la sua arrendevolezza e la mancanza di coraggio e ambizione. Cambierà però idea quando lo scoprirà capace di un gesto generoso verso la vicina di casa: tornata in campagna, mentirà alle colleghe di lavoro affermando che Ryusuke è diventato un uomo ricco e importante. Nonostante il tono amaro, la pellicola non è disfattista né moralista: mette in scena dinamiche profondamente umane e temi che ricorreranno sempre di più nel cinema di Ozu, dove la generosità e la dignità si dimostrano i valori più importanti. Il sacrificio di Otsune, che si rivela apparentemente inutile (ma non solo per colpa del figlio: la disoccupazione e lo sfruttamento in quegli anni erano alle stelle, come testimonia anche la vicenda dell'insegnante Okubo – interpretato da Chishu Ryu – costretto a friggere cotolette per guadagnarsi da vivere), viene ripagato dalla scoperta finale della natura generosa di Ryusuke. Il (relativo) lieto fine non è dunque dovuto a una riscossa materiale, ma a una sorta di purificazione dei sentimenti dei personaggi, che riscoprono l'orgoglio (la madre) e la dignità (il figlio). Affascinante l'ambientazione, una Tokyo periferica e desolata, fra campi abbandonati e inceneritori, simile a quella vista in "Una locanda di Tokyo": la visita di Otsune ai grandi quartieri, ai templi e ai monumenti è narrata soltanto a parole. Stilisticamente il film è Ozu al 100%: praticamente nessun movimento di macchina, numerosi "stacchi" su oggetti a separare le scene (compresa un'inquadratura esageratamente lunga su una stanza vuota, proprio nel momento di massima tensione emotiva) e grande attenzione ai sentimenti dei personaggi. Il parlato è fluido e scorrevole, mentre il commento musicale è usato in maniera ampia ed espressiva, senza essere invadente. Come già in "Una donna di Tokyo", nella scena in cui madre e figlio si recano al cinema il regista inserisce lunghi spezzoni della pellicola che stanno guardando. Ma questa volta non si tratta di un film americano bensì tedesco, segno dei tempi che stavano cambiando e del sempre maggior spazio che la cultura germanica aveva nel Giappone di quegli anni: anche in casa di Ryusuke spicca un manifesto con la parola "Germany" (affiancato, a onor del vero, da una foto di Carol Lombard).

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Splendido! Uno dei suoi film migliori.

Christian ha detto...

Sì, anche se io - come sai - personalmente preferisco i film del dopoguerra, che trovo di più ampio respiro.

marco c. ha detto...

- ozu, + mizoguchi

Christian ha detto...

Per adesso mi sto (ri)guardando tutti gli Ozu, poi magari verrà anche il momento dei Mizoguchi...