30 maggio 2014

X-Men: Giorni di un futuro passato (B. Singer, 2014)

X-Men: Giorni di un futuro passato (X-Men: Days of Future Past)
di Bryan Singer – USA 2014
con Hugh Jackman, Michael Fassbender
***

Visto al cinema Uci Bicocca.

Bryan Singer torna alla franchise che lui stesso aveva lanciato con i primi due film. E lo fa alla grande, adattando per lo schermo una delle più belle storie degli X-Men dei fumetti, quel "Giorni di un futuro passato" con cui nel 1981 Chris Claremont e John Byrne introdussero i viaggi nel tempo nel già complicato mondo dei mutanti Marvel. La pellicola è un perfetto trait d'union fra la prima trilogia (da cui tornano personaggi e attori come Xavier/Patrick Stewart, Magneto/Ian McKellen, Tempesta/Halle Berry, oltre naturalmente a Wolverine/Hugh Jackman, l'unico finora presente in tutti i sette film sugli X-Men se consideriamo anche le sue due pellicole "a solo") e il bel prequel firmato da Matthew Vaughn, qui co-autore della storia (e dunque largo spazio ai "giovani" Xavier/James McAvoy, Magneto/Michael Fassbender, Bestia/Nicholaus Hoult e Mystica/Jennifer Lawrence). La trama prende le mosse da un cupo futuro in cui le robotiche Sentinelle ideate dallo scienziato Bolivar Trask (Peter Dinklage) hanno scatenato una guerra contro i mutanti, sterminandoli (quasi) tutti. Per salvare la propria specie ma anche l'intero pianeta da un conflitto senza fine, Kitty Pryde (Ellen Page) proietta la coscienza di Wolverine cinquant'anni indietro nel tempo, all'interno del suo corpo più giovane. Qui, nel 1973, Logan dovrà convincere un immaturo Xavier e un impulsivo Magneto ad allearsi per fermare Mystica, il cui tentativo di uccidere Trask innescherà la catena di eventi che porterà alla catastrofe. Come solitamente accade nelle migliori storie degli X-Men, l'azione e la complessità della trama sono al servizio di riflessioni di natura sociale o introspettiva, e i personaggi, con la loro umanità, rimangono sempre al centro della vicenda. In più, è un piacere per i Marvel fan di vecchia data riconoscere qua e là alcuni dei numerosissimi character del mondo mutante: spettacolare, in questo caso, il Quicksilver ancora teenager (interpretato da Evan Peters) che con la sua super-velocità aiuta i nostri eroi a far evadere Magneto dal carcere di sicurezza sotto il Pentagono. Strizzatine d'occhio per i fan dei comics ("Una volta mia madre è stata con uno che controllava i metalli"), riferimenti ai film precedenti (William Stryker), curiosità varie (J.F. Kennedy era un mutante!?) condiscono il tutto.

Nonostante qualche piccolo problema di continuity (lo Xavier del futuro non era morto in "X-Men: conflitto finale"?), la pellicola in un certo senso chiude un cerchio e si rivela come la perfetta conclusione di un mini-ciclo di cinque film, "rimediando" nel finale alle stonature provocate dal deludente episodio di Brett Ratner (Scott e Jean saranno nuovamente utilizzabili), fondendo abilmente le anime della vecchia e della nuova generazione di X-Men (meglio di quanto non avesse fatto l'analogo "Generations" per "Star Trek") e consentendo così alle pellicole successive, a seconda del bisogno, di proseguire sia con il filone mutante del passato che con quello del futuro. A proposito: il controfinale dopo i titoli di coda rivela già cosa ci aspetta nel prossimo film: En Sabah Nur, ovvero Apocalisse. Detto di un cast ben mixato fra grossi calibri e giovani promesse, resta da segnalare la presenza nel roster dei personaggi di Alfiere, Blink, Sunspot e Warpath nel futuro (oltre a Kitty, Colosso e Uomo Ghiaccio), e di Toad, Havok, Ink e Spyke nel passato (soldati durante la guerra del Vietnam). Solo brevi ma graditi cameo nel finale per Rogue/Anna Paquin (che aveva girato molte più scene, poi tagliate in fase di post produzione), Jean/Famke Janssen e Ciclope/James Marsden. E a proposito di cameo: stavolta non c'è Stan Lee, ma in compenso abbiamo Len Wein e Chris Claremont (oltre allo stesso Bryan Singer). Nota per chi pensasse che la trama della storia si ispiri a "Terminator": gli albi originali furono pubblicati tre anni prima dell'uscita del film di Cameron, e dunque semmai è vero il contrario (pare in realtà che le ispirazioni per entrambi siano da far risalire ad alcuni episodi delle serie televisive "Dr. Who" e "The Outer Limits"). Poche ma significative, comunque, le differenze fra il film e il soggetto di Claremont e Byrne: nei comics era Kitty (e non Logan) a viaggiare indietro nel tempo, grazie ai poteri di Rachel Summers (in effetti Kitty non ha mai avuto capacità mentali o telepatiche!): e la destinazione non era il 1973 ma il 1981, ossia il presente di allora. Infine, l'oggetto del tentativo di assassinio di Mystica era il senatore Kelly e non Bolivar Trask.

29 maggio 2014

Serpico (Sidney Lumet, 1973)

Serpico (id.)
di Sidney Lumet – USA 1973
con Al Pacino, John Randolph
**1/2

Visto in TV.

Film ispirato alla vita vera di Frank Serpico, agente italo-americano di New York che si battè contro la corruzione dilagante e organizzata all'interno della polizia. Trasferito da un distretto all'altro, si accorse infatti che quasi tutti i suoi compagni prendevano bustarelle per chiudere un occhio sui traffici criminali della zona, e che le denunce ai superiori cadevano sempre nel vuoto, senza alcun risultato se non quello di calamitarsi addosso le antipatie dei suoi stessi colleghi. Con i toni del docu-drama e l'impeto del film di impegno civile più che quello del cinema di genere, la pellicola di Lumet (subentrato a John G. Avildsen poco prima dell'inizio delle riprese) è uno dei capisaldi del poliziesco urbano dei primi anni settanta e si appoggia alla grandiosa prova a tutto tondo di Al Pacino nei panni di un uomo talmente integro da sembrare un pesce fuor d'acqua in un ambiente marcio e assuefatto all'illegalità ("Chi si fida di un poliziotto che rifiuta una busta?"). Serpico è un detective in borghese e anticonformista, che frequenta il Greenwich Village, porta baffi, barba e capelli lunghi e si veste da hippie: esteriormente a volte sembra quasi una versione realistica del successivo "Monnezza" di Tomas Milian. Proprio l'aderenza alla realtà (la sceneggiatura è tratta dalla biografia di Frank Serpico scritta da Peter Maas) limita paradossalmente il film, rendendolo piuttosto lineare e a rischio di stereotipo (a parte Serpico, non ci sono personaggi caratterizzati con sufficiente profondità), oltre a non farlo mai deviare dal tema principale (anche le brevi disgressioni sulla vita privata del protagonista, vedi le storie d'amore pur inserite con naturalezza e senza forzature, lasciano il tempo che trovano). Grande successo commerciale e nomination all'Oscar per Pacino, che tornerà a lavorare con Lumet due anni più tardi in "Quel pomeriggio di un giorno da cani".

27 maggio 2014

America 1929 (Martin Scorsese, 1972)

America 1929 - Sterminateli senza pietà (Boxcar Bertha)
di Martin Scorsese – USA 1972
con Barbara Hershey, David Carradine
**

Rivisto in DVD.

Negli anni della Grande Depressione, la giovane Bertha Thompson (Barbara Hershey), rimasta orfana, vagabonda per il paese viaggiando come clandestina a bordo dei treni merci. Si innamora di un operaio sindacalista, Bill Shelly (David Carradine), e insieme ad altri compagni in fuga dalla polizia – il giocatore d'azzardo Rake Brown (Barry Primus) e il nero Von Morton (Bernie Casey) – viene spinta dalla circostanze a diventare una rapinatrice, mettendo a segno numerosi colpi ai danni della compagnia ferroviaria. Secondo lungometraggio di Scorsese, prodotto da Roger Corman e ispirato alle memorie della vera "Boxcar" Bertha. A differenza del precedente "Chi sta bussando alla mia porta?", non si tratta di un lavoro personale ma di un film su commissione, che nelle intenzioni sarebbe dovuto appartenere al genere dell'exploitation (sia pure a sfondo sociale) a basso budget di cui Corman era un maestro, in particolare al sottogenere con donne gangster (il produttore era reduce dal successo de "Il clan dei Barker", da lui stesso diretto). Il giovane regista, però (cui furono imposti gli attori e vennero dati soltanto 24 giorni di tempo per realizzare l'intero film), impreziosisce la sceneggiatura non trascendentale con una cura per l'ambientazione, per le inquadrature e per lo sviluppo dei personaggi decisamente fuori dal comune per un B-movie; al punto che John Cassavetes, riconoscendone il talento, suggerì a Scorsese di tornare a dedicarsi a progetti personali (il risultato fu il successivo "Mean Streets"). L'esperienza con Corman fu comunque assai formativa per Scorsese: non soltanto insegnò al regista a destreggiarsi con scadenze o budget ristretti e con condizioni difficili, ma contribuì a dargli quella "esperienza sul campo" che completava la sua formazione da cineasta proveniente dalla scuola del cinema (fra parentesi, altri registi passati per le mani di Corman in quegli anni furono James Cameron e Francis Ford Coppola). Memorabile la scena finale, con Shelly "crocifisso" sui vagoni di un treno. Assurdo e fuorviante il (sotto)titolo italiano. Nel cast, la Hershey è bella e spontanea, mentre il proprietario della ferrovia, Sartoris, è interpretato da John Carradine, padre dello stesso David.

24 maggio 2014

Maps to the stars (David Cronenberg, 2014)

Maps to the Stars (id.)
di David Cronenberg – Canada/USA 2014
con Julianne Moore, Mia Wasikowska
**

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

Il titolo ("La mappa delle stelle") non si riferisce agli astri nel cielo ma ai divi di Hollywood, anche se entrambi hanno qualcosa in comune: come la luce delle stelle che giunge fino a noi è quella emessa molti anni prima, e dunque rappresenta una sorta di "fotografia" del passato, allo stesso modo i film ci mostrano le star nel pieno della loro giovinezza e bellezza, incapsulate per l'eternità in una dimensione senza tempo. Sono fantasmi del passato, dunque, proprio come gli spiriti che inspiegabilmente appaiono ai protagonisti di questa misteriosa e ondivaga pellicola di Cronenberg, alle prese con tormenti e contrasti familiari non risolti. Havana Segrand (un'eccellente Julianne Moore con i capelli biondi) aspira a recitare nel remake del film che anni prima rese celebre sua madre, donna da lei sempre detestata, che ha accusato di abusi sessuali e che è perita in un incendio negli anni settanta. Alle fiamme, quando aveva sette anni, è sopravvissuto anche Benji (Evan Bird), attore-bambino modellato evidentemente sul Macaulay Culkin di "Mamma, ho perso l'aereo" (come lui divenuto famoso per un filmetto girato in tenera età e poi con un'adolescenza bruciata troppo in fretta): l'incendio della sua casa fu provocato dalla sorella Agatha (Mia Wasikowska), che ne porta sul corpo ancora le cicatrici e che, dopo essere rimasta in una clinica fino alla maggiore età, torna adesso a Hollywood per rimettersi in contatto con lui, trovando nel frattempo un impiego come assistente personale proprio di Havana. Oltre al fuoco e ai contrasti familiari, a legare fra loro i personaggi ci sono appunto le apparizioni dei fantasmi del passato (la madre per Havana, una fan morta per Benji) nonché le parole di una poesia di Paul Éluard ("Libertà"). Molta la carne al fuoco (nel vero senso della parola!) nella sceneggiatura di Bruce Wagner, da sempre fustigatore di vizi e virtù della mecca del cinema. Qui svela le sue carte poco a poco; ma quando si tirano le fila non tutto convince pienamente: il personaggio di Julianne Moore, in particolare, esce di scena senza una vera risoluzione, mentre il rapporto fra Agatha e Benji (con tanto di rivelazione scioccante sui loro genitori) si dipana fin troppo esilmente lungo le linee del simbolo (mitologico) e della metafora. A fare da contorno "concreto" c'è la solita Hollywood cinica e volgare, dove ricchezza, droga, sesso, invidia e successo tendono a disumanizzare ogni relazione, persino quelle familiari. Fra i tanti riferimenti metacinematografici, da segnalare Carrie Fisher che interpreta sé stessa. Nel buon cast troviamo anche Robert Pattinson (al secondo film con Cronenberg dopo "Cosmopolis": e anche qui c'è una limousine di mezzo), John Cusack e Olivia Williams (i genitori di Benji e Agatha: lui psicologo televisivo e terapista delle star, lei ambiziosa manager del figlio) e Sarah Gadon (la madre di Havana da giovane). Una curiosità: per quanto possa sembrare strano, è il primo film girato da Cronenberg negli Stati Uniti.

23 maggio 2014

L'altra faccia dell'amore (Ken Russell, 1970)

L'altra faccia dell'amore (The music lovers)
di Ken Russell – GB 1970
con Richard Chamberlain, Glenda Jackson
**

Visto in divx.

La vita e l'arte di Pyotr Ilyich Ciajkovskij, filtrate attraverso il suo rapporto con le donne: la madre (vista morire di colera quando era bambino: "era l'unica donna che ricordo di aver amato"), la sorella Sasha (cui lo lega uno speciale rapporto d'affetto), la mecenate Nadežda von Meck (la prima a riconoscere il suo genio e ad aiutarlo, finanziandolo ampiamente e ospitandolo nei propri terreni), ma soprattutto la moglie Antonina, ninfomane romantica e sognatrice che il compositore – a causa della propria omosessualità – non saprà mai soddisfare. Proprio il matrimonio lo condurrà a uno stallo creativo, che spingerà Ciajkovskij ad allontanarsi da Nina e quest'ultima a finire i suoi giorni in un manicomio. Romanzando la vita del compositore russo, ma solo fino a un certo punto (lo sceneggiatore Melvyn Bragg, che ha ampiamente saccheggiato la corrispondenza epistolare fra Ciajkovskij e la von Meck, inserisce molti episodi e aneddoti realmente accaduti, come la lettera ricevuta da Nina proprio mentre si accingeva a comporre l'Evgenij Onegin), Russell fonde immagini e suoni con il suo consueto stile "carico" fino all'eccesso, opulento, vibrante e appassionato ma anche volgare, esagitato, fuori dalle righe. Filo conduttore dell'ambivalente pellicola è la capacità della musica di far sognare: le note delle opere più celebri di Ciajkovskij (il concerto per pianoforte, le sinfonie, i balletti) fanno da colonna sonora a scene in cui i vari personaggi fantasticano, immaginano, ricordano, si immergono in scenari e ambienti senza tempo e limiti, fra set e costumi sontuosi, scenografie quasi zeffirelliane che ritraggono, non senza contraddizioni, la grandeur russa di fine ottocento e i propri tormenti interni. Peccato però che, a furia di calcare la mano, questo misto di fantasticherie e allucinazioni rischi di risultare sensazionalista e grottesco, quando non addirittura irritante e pretenzioso (come nella sequenza che accompagna l'ouverture "1812", verso il finale). Lo stile "eccessivo" non risparmia il personaggio di Ciajkovskij, ritratto come nevrotico, in preda alle proprie ossessioni e a sua volta sempre sull'orlo della follia, senza che si percepisca un barlume di creatività artistica, di spontaneità e di romanticismo. Peggio ancora, alla bellezza delle immagini e della messa in scena si accompagna una narrazione quasi tediosa. Di contro, alcune sequenze isolate (su tutte l'esecuzione del concerto per pianoforte, durante la quale vengono presentati i vari personaggi) brillano di luce propria (musicale, cinematografica ed espressiva). Fra gli attori, a fianco di Chamberlain e della Jackson (Antonina), spiccano Christopher Gable (il conte Anton Chiluvsky, uno per tutti gli amanti di Ciajkovskij) e i caratteristi Kenneth Colley (il fratello Modest) e Max Adrian (Nikolai Rubinstein).

21 maggio 2014

Inizio di primavera (Yasujiro Ozu, 1956)

Inizio di primavera (Sōshun)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1956
con Ryo Ikebe, Chikage Awajima, Keiko Kishi
**1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Sugiyama, giovane impiegato in una ditta di Tokyo, dà inizio a una relazione clandestina con la collega Kingyo ("Pesce rosso") che mette a repentaglio i rapporti con la moglie, resi già difficili dalle ristrettezze economiche e dalla recente perdita di un figlio. Quando gli viene prospettato un trasferimento in una città di provincia, sceglie di accettare: chissà che non sia l'occasione per ricominciare da capo. Il film più lungo di Ozu (con 144 minuti, supera di tre l'immediatamente successivo "Crepuscolo di Tokyo") è ambientato nel mondo dei salaryman, i colletti bianchi nipponici, a proposito dei quali il regista e lo sceneggiatore Kogo Noda non risparmiano riflessioni amare: di fronte a un impiego fisso e uno stipendio sicuro, che per quanto basso è sufficiente a spingere molti giovani ad aspirare a un lavoro d'ufficio, vengono messi in luce i disagi della vita da pendolare, le scarse possibilità di carriera, l'eterna subalternità ai superiori, le difficoltà di mantenere una famiglia, lo stanco adeguarsi a una grigia routine lavorativa, la rinuncia ai sogni di gioventù o persino a quelli dell'età avanzata. Eppure le alternative non mancherebbero: vedi l'amico che si è messo in proprio e ha aperto un locale, oppure gli ex commilitoni che invidiano Sugiyama per il suo impiego regolare, ai quali lui ribatte che è meglio la loro indipendenza e libertà (per non parlare delle loro competenze specifiche: i salaryman, invece, "non sanno far nulla!"). La vita del protagonista trova risonanza e si riflette continuamente in quella dei colleghi che lo circondano, come se fossero frammenti di un'unica esistenza e condividessero un unico destino: non a caso sono importanti le scene di gruppo, dove tutti hanno a cuore in qualche modo le sorti degli altri. Uno dei colleghi di Sugiyama sta per avere un bambino e non sa se potrà permetterselo ("I bambini vengono sempre prima degli aumenti"); altri smarriscono man mano le illusioni e l'entusiasmo degli inizi. Chi va in pensione scopre di non poter realizzare i sogni di una vita. E quando un amico muore per una brutta malattia, si commenta cinicamente: "È stato fortunato: noi continuiamo a vivere ma non siamo felici".

In questo contesto, risulta quasi pretestuosa la trama principale del film, quella dell'infedeltà coniugale di Sugiyama (con tanto di cliché come il rossetto sulla camicia), che altro non è che l'ultimo tassello di una crisi pre-esistente e con radici più profonde (nemmeno la morte del figlio ha saputo unire marito e moglie), assai più che nel similare "Il sapore del riso al té verde". E come sempre, la riconciliazione ha le sue basi nell'accettazione: di fronte agli ostacoli e ai problemi della vita, la cosa più importante sono i legami familiari, da non spezzare nonostante le difficoltà. Stilisticamente, da segnalare la sequenza della gita domenicale all'isola di Enoshima, in cui Ozu sfrutta – cosa davvero insolita per lui – un movimento di macchina che segue i personaggi mentre camminano lungo la costa. Altri due brevi carrellate mostrano invece il corridoio della ditta in cui Sugiyama lavora, avvicinandosi alla porta del suo ufficio. Ma la vera scena di "rottura" con il suo cinema precedente è quella del bacio fra Sugiyama e Kingyo, assai esplicito (per quanto interrotto da un "inserto", l'inquadratura su un ventilatore, con la stessa funzione narrativa del vaso di "Tarda primavera"). Fra il film precedente, "Viaggio a Tokyo" e questo, sono trascorsi in effetti tre anni (un intervallo così lungo non capitava dai tempi della guerra, e non si verificherà più: le pellicole successive usciranno al massimo a un anno di distanza l'una dall'altra) nei quali le generazioni più giovani avevano cominciato a mostrare insofferenza verso i valori e le abitudini dei propri genitori. Questo valeva anche in campo artistico, con l'affermarsi sulla scena di nuovi registi che mal tolleravano la classicità ingessata degli shomingeki. Di tutto questo c'è traccia nella pellicola di Ozu, che dunque ancora una volta dimostra come il suo sguardo meticoloso e attento sia sempre capace di osservare la società che lo circonda nei più piccoli dettagli e di mostrarne i cambiamenti e le dinamiche. Già negli anni '30 il regista aveva ritratto il mondo dei salaryman: ma quelle erano commedie, ora lo scenario è più realistico e drammatico, una vera critica sociale, per quanto serena e non "arrabbiata" come quelle che avrebbero portato sullo schermo, nei giro di pochi anni, i registi della cosiddetta "nouvelle vague" nipponica. A parte alcuni cameo, Ozu rinuncia curiosamente ai suoi attori-feticcio: dei tre protagonisti, solo Chikage Awajima aveva già lavorato con lui, e nessuno tornerà in seguito.

19 maggio 2014

Si può fare (Giulio Manfredonia, 2008)

Si può fare
di Giulio Manfredonia – Italia 2008
con Claudio Bisio, Anita Caprioli
***

Visto in divx, con Sabrina.

Nella Milano del 1983, l'ex sindacalista Nello viene mandato a dirigere una cooperativa che ospita malati di mente e altri pazienti usciti sagli ospedali psichiatrici dopo l'approvazione della legge Basaglia. Motivandoli e responsabilizzandoli, riuscirà – non senza fatica – a fargli condurre una vita "quasi" normale. Non tutti ce la faranno (il più fragile ne pagherà il prezzo), ma i risultati saranno abbastanza incoraggianti da spingere altre realtà a seguire la stessa strada. Scritta dal regista insieme a Fabio Bonifacci (autore del soggetto), con un occhio a "L'attimo fuggente" e l'altro a "Qualcuno volò sul nido del cuculo" (ma dai toni decisamente più leggeri e ottimisti), una pellicola che riesce a fondere l'approccio da commedia con la serietà dei temi trattati, risultando sì favolistica ma anche attenta al contesto sociale e sinceramente commovente. Punto di forza è la caratterizzazione dei personaggi, a partire dal protagonista. Ostracizzato dai suoi compagni di sinistra perché convinto che in qualche modo si debba "fare i conti" con le leggi del libero mercato, Nello coinvolge i suoi "soci" a dar vita a un'impresa di posatura di parquet, che naturalmente verrà condotta in maniera talmente creativa e artistica da riscuotere un notevole successo. E saprà assegnare a ciascuno il ruolo adatto (chi non fa nulla, per esempio, è perfetto come presidente!). Probabilmente la miglior interpretazione della carriera per Bisio, che pur non rinunciando al suo modo di recitare o al suo personaggio da commedia, riesce a mettersi al servizio della storia fornendo intensità e partecipazione. Attorno a lui c'è un ottimo e nutrito cast di volti noti e di caratteristi del cinema italiano: Anita Caprioli (la fidanzata di Nello), Bebo Storti (l'imprenditore della moda), Giuseppe Battiston (il medico basagliano) e tutto il gruppo dei "matti" (fra cui Giovanni Calcagno, Andrea Bosca, Michele De Virgilio, Daniela Piperno) che danno vita a tante sfaccettature del disagio mentale. Il gruppo "funziona" proprio perché ciascun personaggio è caratterizzato a modo suo. Non mancano le battute fulminanti o da segnarsi sul taccuino ("Siamo matti, mica scemi"; "La pazzia non guarisce per legge"; "Che vuol dire essere di sinistra se non ci si dà una mano?", "Siamo fuori da Tuttocittà! Queste strade non esistono!"), così come le metafore più o meno esplicite ("Quando uno dorme, bisogna svegliarlo!"): il lavoro stesso del parquettista è quello di mettere insieme, con pazienza certosina, tanti frammenti e – nel caso dei nostri amici – gli scarti che altri getterebbero via senza pensarci due volte. Lo sfondo degli anni ottanta consente poi tante divertenti citazioni sulla tv, la musica, la moda dell'epoca: una dei "soci", teledipendente, cita in continuazione personaggi televisivi dell'epoca. Nella colonna sonora spicca appropriatamente "L'isola che non c'è" di Edoardo Bennato. Il titolo non ha nulla a che vedere (se non, forse, l'ispirazione) con "Frankenstein Junior".

16 maggio 2014

Solo gli amanti sopravvivono (J. Jarmusch, 2013)

Solo gli amanti sopravvivono (Only Lovers Left Alive)
di Jim Jarmusch – GB/Germania 2013
con Tom Hiddleston, Tilda Swinton
**

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina.

I coniugi vampiri Adam ed Eve (che nomi ingombranti!) sono sposati da secoli ma vivono momentaneamente separati: lui a Detroit, dove si atteggia a recluso musicista underground; lei a Tangeri, dove frequenta un altro membro della propria razza, nientemento che il drammaturgo cinquecentesco Christopher Marlowe (di cui si insinua che abbia scritto le opere attribuite a Shakespeare). Per sopravvivere non assaltano più le giugulari degli esseri umani (anche perché le loro vene sono spesso "contaminate"), ma si procurano sangue direttamente dagli ospedali, tramite medici compiacenti e corruttibili. Spinta da un forte desiderio di rivedere il marito, Eve vola da lui a Detroit, dove vengono presto raggiunti anche dalla sorella di lei, la più "giovane" Ava. Ma questa, incapace di trattenere i propri istinti, li metterà nei guai... I vampiri secondo Jarmusch (come se il tema non fosse fin troppo abusato dal cinema contemporaneo), in una pellicola gotico-romantica che però lascia il tempo che trova, soffocata dal suo stesso estetismo e dalla sua atmosfera poetica e crepuscolare. Fra un eccesso di citazioni snob e un ritmo dilatato e disteso, questi vampiri annoiati e dalle tendenze suicide (Adam si procura, a questo scopo, un proiettile di legno), che nel corso della loro vita hanno frequentato scienziati (Tesla) e artisti (Byron, Schubert) ma che non amano più confondersi con gli esseri umani (che chiamano, disprezzamente, "zombie"), hanno alcune caratteristiche classiche (succhiano sangue, sono immortali, vivono solo di notte, devono essere invitati per entrare in una casa) ma non altre (non si trasformano in nebbia o in animali, non temono più l'aglio, e anche le croci o la religione non sembrano più essere argomento a loro correlato). E in generale il tema del vampirismo sembra un pretesto per imbastire un'atmosfera decadente, morbosa e notturna nel quale muovere personaggi apatici e inerti, che vivono nel passato fra reliquie polverose e oggetti di antiquariato (o modernariato: vedi le chitarre e i dischi di Adam; Eve, però, possiede uno smartphone!), all'insegna di un romanticismo che si fonde con l'esistenzialismo fine a sé stesso. Poche idee, in fondo, e gettate lì quasi a casaccio, senza un filo conduttore: l'amore come punto di riferimento anche a distanza (con tanto di metafora sulla correlazione quantistica), la Detroit abbandonata dopo la crisi dell'auto e del mercato immobiliare, l'esibizione di una cantante libanese in un bar di Tangeri... sono tutte scene che non si collegano fra loro né a nient'altro. A ravvivare la pellicola non bastano alcuni improvvisi tocchi di ironia (il ghiacciolo al sangue!) o la breve parentesi con Ava (Mia Wasikowska) che "movimenta" per una notte l'esistenza dei protagonisti. Tilda Swinton e Tom "Loki" Hiddleston (che ha sostituito all'ultimo momento Michael Fassbender) sembrano perfetti per la parte. John Hurt è Marlowe. Interessante la colonna sonora (Jozef van Wissem).

15 maggio 2014

Angoscia (George Cukor, 1944)

Angoscia (Gaslight, aka Murder in Thornton Square)
di George Cukor – USA 1944
con Ingrid Bergman, Charles Boyer
***

Visto in divx, con Sabrina.

La giovane Paula (Ingrid Bergman, che per questa interpretazione vinse il suo primo Oscar), fresca di matrimonio, torna a vivere nella casa di Londra dove dieci anni prima fu assassinata sua zia Alice, celebre cantante lirica. L'atmosfera macabra del luogo la tormenta ancora, cominciando lentamente a farla impazzire... oppure è quanto cerca di farle credere, per motivi oscuri, il suo manipolativo marito (Charles Boyer)? Remake di un film britannico di Thorold Dickinson del 1940 (a sua volta tratto da un dramma teatrale di Patrick Hamilton del 1938), è un thriller psicologico ambientato in epoca vittoriana e dalle atmosfere ambigue e paranoiche, a metà strada fra i noir di Hitchcock (che, fra l'altro, da un altro testo di Hamilton trasse "Nodo alla gola") e un Polanski ante litteram ("Repulsion"). Per una volta, dunque, Cukor si allontana dalle commedie sofisticate e romantiche che lo hanno reso celebre, ma se la cava comunque benissimo. Per calarsi meglio nel ruolo di una donna che lentamente impazzisce, la Bergman si documentò approfonditamente, al punto da recarsi in un istituto di igiene mentale e studiare a lungo le espressioni del viso e degli occhi di una paziente (e l'anno successivo, in "Io ti salverò", passerà dall'altra parte della barricata!). Nel cast anche Joseph Cotton (il detective che si prende a cuore le sorti di Paula) e una non ancora diciottenne Angela Lansbury (compì gli anni proprio durante le riprese) nei panni della cameriera, nominata all'Oscar come miglior attrice non protagonista. Il titolo originale si riferisce all'illuminazione a gas, ancora presente nelle strade e nelle case di Londra agli inizi del ventesimo secolo: proprio l'affiocarsi delle fiammelle nelle lampade di casa è l'indizio che permette al detective di risolvere il mistero. Wikipedia spiega che "dal titolo originale 'Gaslight' deriva l'espressione Gaslighting, che indica una forma di violenza psicologica attraverso cui la vittima viene indotta a dubitare della sua percezione della realtà. Tale violenza può consistere in manovre esteriori (come il nascondere o spostare oggetti) o psicologiche. Così facendo, il molestatore fa credere alla vittima di essere colpevole dei maltrattamenti subiti, mostrandosi al contempo compassionevole".

14 maggio 2014

The Green Hornet (M. Gondry, 2011)

The Green Hornet (id.)
di Michel Gondry – USA 2011
con Seth Rogen, Jay Chou
**1/2

Visto in DVD.

Per superare la noia e prendersi a modo suo una rivincita sull'ingombrante genitore, direttore e proprietario di un quotidiano indipendente che si è sempre battuto contro la corruzione e il crimine dilagante a Los Angeles, lo scapestrato Britt Reid decide di diventare un vigilante mascherato. Con l'aiuto del fido Kato, autista, meccanico ed esperto in arti marziali, assume così l'identità di Green Hornet ("il calabrone verde") e si lancia in spericolate scorribande notturne, sfruttando al contempo il giornale per far credere alle bande rivali e all'opinione pubblica di essere a sua volta un criminale. Per la prima volta al timone di un blockbuster d'azione hollywoodiano (ma il progetto risale addirittura al 1997: avrebbe dovuto essere il suo film d'esordio!), Gondry rispolvera un personaggio nato in una serie radiofonica degli anni '30, celebre soprattutto per il telefilm degli anni '60 in cui Bruce Lee interpretava il ruolo della spalla, lo aggiorna all'era di internet e lo rivisita all'insegna dell'ironia e del disimpegno, dando vita a quella che, di fatto, è una parodia del genere supereroistico (tanto da non essere apprezzata da chi, inspiegabilmente, l'ha presa sul serio). Il suo Green Hornet è imbranato, arrogante, egocentrico, e i suoi successi nella lotta al crimine dipendono esclusivamente dalle sofisticate armi e dalle vetture corazzate progettate da Kato (che anche nel combattimento corpo a corpo lo surclassa), benché la spalla preferisca restare nell'ombra e non abbia nemmeno un nome in codice. I toni sono da buddy movie: a un certo punto i due litigheranno per una donna (la segretaria/criminologa Lenore), ma sapranno riconciliarsi prima dello scontro finale. La regia, a tratti confusa ma comunque ricca di idee, si appoggia su una brillante fotografia ma soprattutto su una vivace sceneggiatura (scritta dallo stesso Seth Rogen, insieme a Evan Goldberg), dove le battute rappresentano il vero scheletro di una vicenda che pesca a piene mani dall'immaginario dei comics (d'altronde il Green Hornet originali ha ispirato molti epigoni successivi, a partire da Batman, e si vede). Divertente, fra le altre, la gag metalinguistica generata dal doppiaggio italiano a proposito del nome del protagonista: "Però diciamolo in inglese, è molto più di classe". Colonna sonora da mal di testa. Interessante il cast di supporto: Lenore è interpretata da Cameron Diaz, il padre di Britt da Tom Wilkinson e il caporedattore del "Daily Sentinel" da Edward James Olmos, mentre James Franco fa un divertente cameo all'inizio (il trafficante di droga) e Christoph Waltz ruba la scena nei panni del gangster russo Chudnofsky, che a un certo punto cambia nome in... Bloodnofsky, "per fare più paura"!

12 maggio 2014

Devil's Knot - Fino a prova contraria (A. Egoyan, 2013)

Devil's Knot - Fino a prova contraria (Devil's Knot)
di Atom Egoyan – USA 2013
con Reese Witherspoon, Colin Firth
*1/2

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina.

In una cittadina rurale dell'Arkansas, tre bambini di otto anni vengono trovati uccisi nel bosco: le strane modalità del delitto fanno sospettare che possa essersi trattato di un rituale satanico, e dunque le indagini prendono di mira tre adolescenti del luogo appassionati di occulto e di musica Heavy Metal. Nonostante la mancanza di prove, i ragazzi verranno condannati: e solo diciotto anni più tardi la revisione del processo, pur con una formula piena di dubbi, li rimetterà in libertà. Con le modalità del thriller giudiziario, il film racconta un caso di cronaca avvenuto realmente e che colpì molto l'opinione pubblica, generando documentari (la trilogia di "Paradise Lost"), ispirando canzoni e attirando l'interesse di diverse star di Hollywood (fra cui Peter Jackson, che ha prodotto un docu-film sull'argomento, e Johnny Depp, diventato amico di uno dei tre accusati). Egoyan è da sempre a suo agio nel descrivere le inquietudini, le paure e i lutti di una provincia profonda e arretrata, ma il suo non è un ritorno ai vertici de "Il dolce domani": la regia, per quanto adeguata, sembra ormai stanca e senza guizzi, incapace di sollevare l'interesse per una sceneggiatura da tv movie che si trascina con una certa noia, ingabbiata fra la necessità di restare fedele agli eventi che racconta e la tentazione di romanzarli. Quelli che veramente mancano, però, sono i personaggi: sia la Witherspoon (che interpreta la madre di una delle tre vittime) sia Firth (il detective Ron Lax, che si prende a cuore il caso perché contrario alla pena di morte) non riescono a infondere vita in figure stereotipate e molto meno interessanti, per esempio, dei tre ragazzi imputati (James Hamrick, Seth Meriwether e Kristopher Higgins), che avrebbero forse dovuto essere i veri protagonisti della pellicola. Come nella realtà, il film (che si concentra soprattutto sul pressapochismo delle indagini della polizia e sui pregiudizi che avrebbero portato alla prima condanna) si chiude senza dare una risposta sull'identità dell'assassino, ma seminando indizi e dubbi in diverse direzioni. E forse in questo sta quel poco di suggestione che, tutto sommato, lascia allo spettatore.

10 maggio 2014

Chi sta bussando alla mia porta? (M. Scorsese, 1967)

Chi sta bussando alla mia porta? (Who's that knocking at my door)
di Martin Scorsese – USA 1967
con Harvey Keitel, Zina Bethune
***

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Il giovane J.R. (Keitel) vive nella Little Italy di New York, dove bighellona per le strade e i bar con gli amici Joey (Lennard Kuras) e Sally "Gagà" (Michael Scala). Un giorno conosce una ragazza (Bethune) sul traghetto che collega Manhattan a Staten Island, comincia a frequentarla e progetta di sposarla. Ma quando lei gli racconta di essere stata violentata dal suo precedente boyfriend, i suoi valori cattolici vanno in crisi ("Ci sono le battone, e poi ci sono le ragazze. Nessuno sposerebbe una battona, perché non è vergine"). Il lungometraggio d'esordio di Scorsese, girato quando il regista aveva fra i 23 e i 25 anni e interpretato dal suo compagno di corso alla scuola di cinema Harvey Keitel, è una pellicola incredibilmente già del tutto matura sia per stile sia per contenuti, e anticipa per più cose il successivo "Mean streets". Il tema della colpa in senso cattolico (per il complessato J.R. il rapporto con l'altro sesso si risolve in una dicotomia fra Madonna e puttana) si fonde con la vita di tutti i giorni di giovani delinquentelli italo-americani nel tipico scenario urbano newyorkese, mentre la fotografia in bianco e nero (assai sgranata e realista, in particolare nelle scene notturne, quasi da documentario) guarda a Cassavetes o al cinema europeo dell'epoca, e il montaggio frenetico e anti-narrativo (di Thelma Schoonmaker, che rimarrà una collaboratrice abituale del regista) fonde in continuazione il presente con frammenti di ricordi, pensieri o fantasie del protagonista. Se il risultato pare già compiuto, la gestazione del film è stata lunga e travagliata: il progetto iniziale (intitolato "Bring on the dancing girls") risale al 1965, sotto forma di film studentesco per la New York University, e prevedeva soltanto le vicende di J.R. e dei suoi amici che bighellonavano per la città. La pur credibile sottotrama romantica con Zina Bethune fu inserita successivamente, nel 1967, quando la pellicola fu proiettata per la prima volta in pubblico con il titolo "I call first". L'anno successivo, su insistenza del produttore di exploitation Joseph Brenner, Scorsese aggiunse la scena in cui Keitel si immagina in compagnia di una serie di prostitute, e la pellicola uscì nelle sale nel 1969 nella forma e con il titolo attuale (anche se nel 1970 fu brevemente rieditata come "J.R."). La sequenza in questione, con un rapido montaggio di immagini di nudo sulle note di "The end" di Jim Morrison, è comunque solo una delle tante in cui la colonna sonora, tutta a base di canzoni pop anni sessanta, gioca un ruolo importante (Scorsese ha citato Kenneth Anger come fonte di ispirazione per l'uso della musica): da ricordare per esempio anche la scena dello stupro della ragazza, mentre la radio suona "Don’t ask me to be lonely" in maniera frammentata e distorta; e quella conclusiva ambientata in chiesa, fra le statue di Cristo e dei santi, con la canzone "Who's that knocking?" che dà il titolo al film. Col senno di poi, il regista ha messo davvero tanto di suo nel personaggio, a cominciare dalla cinefilia: vedi le discussioni di J.R. sul cinema western (è un fan di John Wayne e di "Sentieri selvaggi"). La donna che cucina nella scena iniziale è Catherine Scorsese, la vera madre di Martin.

7 maggio 2014

Nymphomaniac (Lars von Trier, 2013)

Nymphomaniac (id.)
di Lars von Trier – Danimarca/UK/D/B 2013
con Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

Charlotte Gainsbourg, l'unica attrice "sopravvissuta" a più di un film con Lars von Trier (è infatti già alla sua terza collaborazione con il regista danese, mentre le varie Emily Watson, Björk, Nicole Kidman, Bryce Dallas Howard e Kirsten Dunst non hanno "retto" oltre la prima prova), interpreta la nifomane Joe, che dopo essere stata ritrovata pesta e sanguinante in un vicolo dal mite e colto Seligman (Stellan Skarsgård) gli racconta – come in un'unica e lunga seduta di psicanalisi, o come davanti a un prete nel confessionale – i retroscena della propria vita "peccaminosa": dalla scoperta della sessualità in età acerba, all'utilizzo di questa per "collezionare" più uomini possibili; dal rapporto con il padre (Christian Slater), che le ha insegnato l'amore per la natura, a quello con Jerome (Shia LeBeouf), l'unico uomo che abbia mai davvero amato; dai tentativi di trovare nuove strade per risvegliare il piacere sessuale, fino alla serie di eventi che l'hanno condotta fin lì. Distribuito nelle sale cinematografiche diviso in due parti (denominate "Vol. I" e "Vol. II", come in "Kill Bill", ma in questo caso più propriamente come due tomi di un romanzo, per la precisione un Bildungsroman), a loro volta divise in "capitoli" (otto in totale, cinque nel primo film e tre nel secondo: 5 e 3 sono numeri ricorrenti), il terzo film della cosiddetta "trilogia della depressione" di LVT (dopo "Antichrist" e "Melancholia") ha apparentemente un solo filo conduttore: la vita sessuale della protagonista. La sua ninfomania è un po' una scelta consapevole e un po' una dipendenza, come quelle dall'alcol o dal fumo, e a tratti sembra quasi un pretesto per imbastire una serie di variazioni sul tema che sfiorano tutti i tipi di perversione sessuale (dal sadomadochismo alla pedofilia, passando per il sesso interrazziale o il lesbismo). Ma Von Trier, lo sappiamo, è un furbone, abituato da sempre a giocare con lo spettatore, a stimolarne le attese e poi a spiazzarlo scompigliando le carte. E con "Nymphomaniac" sembra aver dato il meglio di sé, a partire dalla campagna di marketing e dalle locandine che presentavano il film come estremamente scandaloso, facendo credere di trovarsi di fronte a un "porno d'autore", salvo poi permettere che nelle sale giungesse una versione "censurata e ridotta" (ma cosa potranno aggiungere, a livello di significato, le eventuali scene di sesso che sarebbero state tagliate?). In realtà, come già in "Dogville" e in generale in tutti i film del buon Lars, il vero senso del film sta nei suoi sottotesti, più o meno nascosti: quello religioso (il finale, come ha fatto notare marco c. in un commento sotto questo post, può legare il lungometraggio al precedente "Antichrist", con la donna che torna nel suo ruolo diabolico di corruttrice dell'innocente) o quello sociale (ancora una volta la donna è una vittima della società: Seligman commenta giustamente come il nostro giudizio sulle sue vicende sarebbe diverso se lei fosse stata un uomo e le sue conquiste fossero state femminili).

Nel primo volume la narrazione di Joe è accompagnata – più che da un progressivo approfondimento del personaggio – da metafore talmente esplicite (la pesca alla mosca, la polifonia di Bach) da essere persino illustrate sullo schermo a più riprese. Il risultato ricorda quasi un film di Peter Greenaway: le sovrimpressioni di numeri e di diagrammi, le ricorrenze (i suddetti 5 e 3), gli split screen, le divagazioni colte (Poe, Bach, i numeri di Fibonacci), l'elenco degli amanti (quasi tutti i personaggi – con la notevole eccezione di Jerome – sono indicati soltanto con la lettera iniziale del nome: B, G, H, ecc.) e in generale la "catalogazione" degli episodi della propria vita (episodi significativi ma non "formanti": spesso Joe sottolinea che i vari eventi non l'hanno cambiata e che la sua natura è sempre stata la stessa sin dall'inizio) sono però elementi che in Greenaway sovrastano la storia, spesso solo un pretesto, mentre in questo caso siamo di fronte all'esatto contrario. Nel secondo volume, poi, LVT abbandona gradualmente queste distrazioni (la stessa Joe, dopo l'ennesima divagazione di Seligman, afferma: "Questa è stata una delle sue disgressioni più deboli") e guida lo spettatore più a fondo nel personaggio, che si barcamena fra visioni mistiche, crisi personali e vani tentativi di autoanalisi. Probabilmente il modo migliore per gustarsi "Nymphomaniac" sarebbe quello di guardarlo tutto di fila, visto che più si accumulano i capitoli e gli episodi raccontati e più l'insieme acquista "spessore" e fisionomia: è come se il suo valore fosse "quantitativo", ovvero dato dalla somma delle parti (proprio come Joe sente di aver avuto in fondo un solo amante, la somma di tutti gli uomini che ha conosciuto). Al di là del marketing, la scelta di dividere la pellicola in due parti risulta dannosa (è come interrompere a meta un romanzo, appunto, o un amplesso). La fotografia, in cui dominano il beige e i toni smorti (il quarto capitolo è addirittura tutto in bianco e nero), dona all'insieme un sapore vetusto e polveroso come i libri di Seligman (significativa è anche l'assenza di una precisa collocazione temporale delle vicende). Nella colonna sonora ricorrono il valzer di Shostakovich (già usato da Kubrick nel suo "Eyes Wide Shut") e l'hard rock dei Rammstein. Quanto al comparto attoriale, è da ammirare la prova di Stacy Martin (che interpreta Joe da giovane, e dunque vera protagonista del Vol. I), mentre la struttura episodica del racconto lascia spazio qua e là a numerosi comprimari: nel primo volume spiccano Uma Thurman, Sophie Kennedy Clark, Hugo Speer e vari attori danesi (fra i quali Jens Albinus e Jesper Christensen), nel secondo Jamie Bell, Jean-Marc Barr, Udo Kier, Mia Goth e Willem Dafoe. Le scene di sesso sono simulate, mediante l'utilizzo di controfigure (fra cui attori porno), di protesi e persino di effetti digitali. Fra i ringraziamenti finali, spicca quello a Tarkovskij, del quale non mancano alcune citazioni (l'icona di Rublëv, il titolo "Lo specchio").

6 maggio 2014

Biancaneve (Tarsem Singh, 2012)

Biancaneve (Mirror Mirror)
di Tarsem Singh – USA 2012
con Lily Collins, Julia Roberts
*

Visto in TV, con Sabrina.

Il regista indiano Tarsem Singh firma questa rilettura della favola di Biancaneve con toni da commedia (non a caso Julia Roberts, che interpreta la regina cattiva, è la voce narrante nonché a tratti la vera protagonista) e parecchie modifiche al plot originale: i sette nani sono banditi che rapinano chi passa nella loro foresta, la regina cattiva vuole sposare il principe per motivi economici, questi (Armie Hammer) è un idiota che si lascia ingannare in continuazione, ma soprattutto, nel più puro stile "revisionista" da teen movie del ventunesimo secolo, Biancaneve diventa un'eroina d'azione che combatte i mostri al fianco dei nani, ed è lei a salvare con un bacio il principe dall'incantesimo che l'ha fatto innamorare della regina cattiva, e non il contrario. Stravolgere una fiaba è sempre una cosa negativa, perché i suoi elementi non sono messi lì a caso ma hanno un preciso significato simbolico e psicologico. E dunque questo è il vero difetto di un film che per il resto si basa su una sceneggiatura leggera e superficiale, colma di battute e gag stupide che ne affossano la drammaticità, i contrasti, la cupezza che dalla versione originale dei fratelli Grimm era sopravvissuta persino in quella a cartoni animati di Walt Disney. Fra le poche cose da salvare ci sono sicuramente i costumi di Eiko Ishioka (infatti candidati all'Oscar), in particolare quelli sontuosi indossati dalla regina, ma anche le varie maschere a foggia di animale della festa da ballo, o le corazze delle guardie con elmi che sembrano usciti da "Guerre stellari". Non trascendentali, invece, scenografie e ambienti, di solito un punto di forza delle pellicole di Tarsem, così come il comparto degli effetti speciali: interessante lo specchio magico, collocato in un'altra dimensione che ricorda un atollo del Pacifico, mentre tutto il resto è talmente fasullo (foresta di betulle compresa) da ricordare certi adattamenti televisivi di fiabe dell'Europa dell'est, o al massimo l'epoca in cui Hollywood girava sempre in studio e mai in esterni. Maluccio il cast (la protagonista, figlia di Phil Collins, assomiglia vagamente a Audrey Hepburn, ma francamente non pare destinata a una brillante carriera), dove però spicca Nathan Lane nei panni di Brighton, il factotum della regina. Sean Bean, che appare pochissimo, è il re. Nota di demerito per il "normalizzante" titolo italiano. Curiosità: quasi in contemporanea a questa, nelle sale è apparsa anche un'altra versione in live action, "Biancaneve e il cacciatore", che anziché virare la storia in chiave di commedia ne accentuava i lati più dark e mirava a un target meno infantile.

5 maggio 2014

A.K. (Chris Marker, 1985)

A.K. (id.)
di Chris Marker – Francia 1985
con Akira Kurosawa, Tatsuya Nakadai
**1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Documentario che mostra Akira Kurosawa e la sua troupe al lavoro durante le riprese del film "Ran". Il cineasta francese Chris Marker (quello de "La jetée"), da sempre affascinato dalla cultura giapponese, era infatti presente sul set alle pendici del Monte Fuji e ha immortalato la lavorazione dell'ultima grande epica kurosawiana come se si trattasse di celebrare un "rito" il cui gran sacerdote, naturalmente, è Kurosawa stesso, attorniato da fedeli collaboratori che lavorano con lui da tantissime pellicole. Assistiamo così alla meticolosità del sensei, alla sua pazienza certosina e ai suoi efficaci "trucchi" di regia (come la celebre abitudine di usare tre differenti macchine per riprendere le scene da più punti); alle lunghe prove con gli attori in costume, dai quali il regista nipponico esige la perfezione fin nelle minime sfumature; alle fatiche delle numerose comparse che indossano le pesanti armature prima delle scene di battaglia; al fascino di uno scenario incantato e magico, con scenografie che conferiscono alla pellicola uno dei suoi tanti punti di forza (da ricordare, per esempio, la scena del campo di grano dipinto d'oro, peraltro poi tagliata al montaggio e dunque non presente nel film); e ancora, riflessioni sparse sui colori, sui cavalli, sulla natura, sul vento e sulla luna. "Il rischio è quello di fregiarci di una bellezza che non ci appartiene", riflette Marker, eppure il suo documentario fa ben più che brillare di luce riflessa del capolavoro di Kurosawa: è la preziosa documentazione di un modo di fare cinema al tempo stesso epico e monumentale (alla sua uscita si trattava del film più costoso mai prodotto in Giappone) e artigianale e umile (sul set tutti si danno una mano, e non c'è compito troppo modesto da non essere svolto personalmente anche dai più alti nella "gerarchia" di comando). Forse non sarà indispensabile per apprezzare la bellezza di "Ran", ma rimane un documentario di notevole interesse per comprendere il segreto di un film memorabile e la grandezza del suo autore. Anche perché Marker si fa spesso da parte, lascia che siano le immagini a parlare, e soprattutto dà allo spettatore la sensazione di trovarsi anche lui sul set, testimone oculare e invisibile di un genio al lavoro.