31 agosto 2010

Paranoia agent (Satoshi Kon, 2004)


Paranoia agent (Mousou dairinin)
di Satoshi Kon – Giappone 2004
serie animata in 13 episodi
***1/2

Visto in DVD alla Fogona.

"La gente capisce solo le mazzate": Satoshi Kon, il brillante regista e sceneggiatore di "Perfect Blue" e "Millennium Actress", scomparso proprio pochi giorni fa, aveva forse in mente queste immortali parole quando ha concepito l'assurdo plot della sua prima (e purtroppo ormai destinata a rimanere unica) serie televisiva. "Paranoia Agent" – un contenitore di storie che dimostra ancora una volta il suo talento di narratore di vicende in bilico fra sogno e realtà e di indagatore della psiche umana – è infatti incentrata su un misterioso individuo chiamato Shonen Bat, "il ragazzo con la mazza da baseball" (nome che ricorda ironicamente quello del celebre supereroe Ogon Bat, da noi noto come Fantaman), che si aggira per Tokyo sui suoi pattini a rotelle, colpendo sulla zucca con una mazza metallica persone sotto stress, con gravi problemi personali o pronti a chiudersi nei mondi della propria follia: in breve tutti coloro che, tormentati o senza speranza, vorrebbero fuggire dalla realtà o si sentono schiacciati da una società frenetica, opprimente e fin troppo esigente (esemplari gli episodi incentrati sul ragazzino a scuola o sugli impiegati dello studio di animazione). Mentre una coppia di detective indaga sulle aggressioni, cercando di capire se Shonen Bat esista veramente o se sia soltanto il prodotto della fantasia delle vittime, un misterioso vecchietto ricoverato in ospedale traccia calcoli e strani simboli con il gesso sul selciato...

Realizzato, come ha dichiarato lo stesso autore, per metterci dentro tutte le idee che gli erano venute durante la lavorazione dei precedenti lungometraggi e che non aveva potuto utilizzare, il serial è costituito da episodi con personaggi quasi sempre diversi, che si passano il testimone come in una staffetta (spesso i protagonisti di una puntata diventano comprimari in quella successiva o erano già apparsi in quelle precedenti), benché naturalmente non manchino sottotrame leganti e in comune, come l'indagine dei due poliziotti. E così, di volta in volta, facciamo la conoscenza con una introversa designer in crisi creativa dopo aver creato un pupazzo di successo, Maromi (che, nella sua fantasia, si anima e parla con lei); di un giornalista senza scrupoli a caccia di pettegolezzi; di un bambino delle elementari che soffre per l'arrivo di un inatteso rivale; di una giovane assistente universitaria che di notte conduce un'incredibile doppia vita; di un poliziotto di quartiere dalle dubbie frequentazioni, costretto a trasformarsi in ladro per ripagare un debito; di una ragazza la cui fiducia nel padre crolla improvvisamente; di un improbabile trio di aspiranti suicidi; di un assistente alla produzione alle prese con la difficile lavorazione della serie animata di Maromi... Proprio Maromi, forgiatore di mondi fantasiosi e rassicuranti, quasi un alter ego kawaii di Shonen Bat, è l'altro filo conduttore della serie.

Per Kon il termine "paranoia" non ha soltanto il significato patologico ma è un modo per indicare la dipendenza umana da sogni e da illusioni, la necessità di credere in qualcosa di diverso dalla semplice realtà, che a volte può portare una persona a fissarsi su qualcosa di immaginario fino a convincersi che sia vero. Il tono degli episodi, per lo più realistico – siamo dalle parti del thriller e dell'analisi sociale – ma venato di ironia, sfocia talvolta nel surreale e nel grottesco (come nella puntata che mostra un interrogatorio della polizia come se si trattasse di un gioco di ruolo fantasy, o in quella che ripercorre in rapida successione – sotto forma di chiacchiere fra comari – alcune delle più inverosimili imprese di Shonen Bat). Disegni, animazione e fondali sono su ottimi livelli: pur trattandosi di un prodotto televisivo, ritroviamo la stessa qualità che Kon aveva saputo offrire nei suoi film cinematografici. Bella e originale la sigla d'apertura, che mostra i personaggi ridere mentre sullo sfondo si avvicendano i più improbabili scenari, mentre quella finale è la ninna nanna di Maromi, pupazzo che culla e concilia il sonno della ragione. Curiosi anche i preview degli episodi seguenti, nei quali il misterioso vecchietto dell'ospedale racconta i suoi "sogni premonitori": sono colmi di criptici riferimenti alla cultura giapponese e sfruttano l'assonanza dei nomi di praticamente tutti i personaggi con quelli di vari animali.

30 agosto 2010

Pene d'amor perdute (K. Branagh, 2000)

Pene d'amor perdute (Love's Labour's Lost)
di Kenneth Branagh – GB/Francia/Canada 2000
con Alessandro Nivola, Alicia Silverstone
**

Rivisto in DVD alla Fogona, con Marisa e Monica.

Ennesima rivisitazione shakesperiana di Branagh, che questa volta però prende maggiormente le distanze dal bardo, al punto da eliminare gran parte dei dialoghi originali. L'azione della commedia è spostata al 1939, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale: e pazienza per gli anacronismi (come i riferimenti al regno di Francia). Il giovane sovrano di Navarra, insieme ai suoi tre più fidi compagni, ha deciso di chiudersi nel proprio palazzo per dedicarsi esclusivamente agli studi, giurando – fra le altre cose – di evitare ogni compagnia femminile. Ma il giorno stesso giunge a corte la principessa di Francia come ambasciatrice, e con lei tre sue damigelle, splendide ragazze che faranno presto cambiare idea ai quattro nobiluomini! Per vivacizzare quella che forse è una delle commedie meno note (e più deboli) di Shakespeare, Branagh inserisce balletti e canzoni tratte dal più classico repertorio musicale degli anni trenta: brani di George e Ira Gershwin ("I've got a crush on you", "They can't take that away from me"), di Cole Porter ("I get a kick out of you"), di Irving Berlin ("Cheek to cheek", "There's no business like show business"), di Jerome Kern ("I won't dance", "They way you look tonight") e chi più ne ha più ne metta. Gli attori, con una certa dose di autoironia (e di sprezzo del ridicolo), si esibiscono in danze le cui coreografie richiamano i musical hollywoodiani. Il resto lo fanno le scenografie, i colori (le quattro fanciulle sono vestite sempre di rosso, arancione, verde e blu, mentre un dettaglio dell'abito di ciascun innamorato richiama il colore della propria bella), i dialoghi, i curiosi inserti in bianco e nero che si fingono tratti da cinegiornali dell'epoca (che contestualizzano la vicenda e la legano al momento storico) e i buffi personaggi minori, tipicamente shakesperiani, come il pomposo e stravagante Don Armado (Timothy Spall), l'anziana istitutrice Olofernia (Geraldine McEwan), il parroco Nataniele (Richard Briers), il guitto Cocuzza (Nathan Lane) e l'ottuso poliziotto Gnocco (Jimmy Yuill). Il ricco cast comprende anche lo stesso Branagh (Berowne, uno dei compagni del principe di Navarra; gli altri due sono Matthew Lillard e Adrian Lester), Natasha McElhone (Rosalina, la dama di cui si innamora; le altre ragazze sono Emily Mortimer e Carmen Ejogo), Richard Clifford (l'attendente Boyet) e persino Stefania Rocca (la paesana Giacometta). Nonostante tutto questo, però, il film è stato un flop di pubblico e di critica: e probabilmente rimane il meno riuscito fra quelli sfornati dall'accoppiata Shakespeare/Branagh.

Discesa all'inferno (F. Girod, 1986)

Discesa all'inferno (Descente aux enfers)
di Francis Girod – Francia 1986
con Claude Brasseur, Sophie Marceau
*1/2

Visto in divx alla Fogona.

In vacanza ad Haiti con una giovane moglie che sembra essersi stufata di lui e non perde occasione per tradirlo, uno scrittore alcolizzato in crisi d'ispirazione e di sentimenti uccide senza volerlo un uomo che voleva rapinarlo in un vicolo. Il fattaccio riaccende l'interesse della moglie nei suoi confronti (anche perché la donna nasconde a sua volta un episodio cruento nel proprio passato), ma un misterioso individuo che ha assistito al delitto comincia a ricattarlo. Musica ambient e atmosfere patinate per un thriller dozzinale che vorrebbe affascinare lo spettatore con l'ambientazione esotica e l'atmosofera intrigante, ma che alla resa dei conti si dimostra senza particolare spessore. Da guardare (quasi) soltanto per la bellissima e imbronciata Sophie Marceau, allora ventenne, che si mostra nuda in più di una scena.

29 agosto 2010

Miyamoto Musashi (K. Mizoguchi, 1944)

Miyamoto Musashi (id.)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1944
con Chojuro Kawarasaki, Kan'emon Nakamura
**

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli inglesi.

Musashi Miyamoto è un personaggio storico e leggendario allo stesso tempo. Vissuto nel sedicesimo secolo, è onnipresente nella cultura popolare giapponese: oltre che per la sua abilità di spadaccino, raggiunta grazie a un costante perfezionamento nei suoi lunghi anni di vagabondaggio come ronin, è noto anche come pittore, filosofo e scrittore, in particolare per il trattato sull'arte della spada intitolato "Il libro dei cinque anelli". Questo lungometraggio, girato da Mizoguchi in tempo di guerra, in soli venti giorni e senza troppa ispirazione ("All'epoca erano tutti mobilitati, io mi nascondevo sotto il pretesto di continuare a girare anche questo tipo di film", dichiarerà in seguito il regista), non ne racconta l'intera vita ma soltanto un episodio, forse il più celebre: il duello con il rivale Kojiro Sasaki. La pellicola si apre con i giovani Gen'ichiro e Shinobu Nonomiya, fratello e sorella, che chiedono a Musashi – appena reduce da uno scontro nel quale ha sconfitto da solo un intero clan rivale – di insegnare loro l'arte della spada: intendono infatti vendicare la morte del padre, ucciso da alcuni samurai rivali. I nemici, preoccupati, si rivolgono a loro volta a Kojiro Sasaki, abile guerriero che accetta di aiutarli pur di confrontarsi con Musashi e stabilire chi dei due sia il miglior spadaccino del Giappone. Ucciso Gen'ichiro in un agguato, i nemici lasciano in vita Shinobu affinché comunichi a Musashi la sfida di Kojiro. Il duello finale si svolge dopo un anno sulla bianca spiaggia dell'isola di Funajima, dove Musashi ha la meglio utilizzando come arma non la spada, bensì il remo dell'imbarcazione con cui vi è giunto. Rendendosi conto di aver comunque esitato un attimo, capisce di non padroneggiare ancora del tutto la "via della spada" e che per raggiungere l'assoluta perfezione è necessario continuare il proprio addestramento per tutta la vita. Come sempre, in Mizoguchi, il personaggio più interessante è quello femminile: la dedizione di Shinobu (alla memoria del padre, al fratello, allo stesso Musashi che osserva silenziosamente mentre scolpisce una statua sacra) rispecchia quella del protagonista nei confronti della sua arte, al punto che nel finale – quando la donna gli annuncia di volersi fare monaca – Musashi le confida che non si sposerà mai, ma che la considererà per sempre "sua moglie in spirito".

La splendida spada Bijomaru (K. Mizoguchi, 1945)

La splendida spada Bijomaru (Meito Bijomaru)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1945
con Shotaro Hayanagi, Isuzu Yamada
**

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli inglesi.

È il terzo dei film di samurai diretti un po' controvoglia da Mizoguchi durante la guerra (gli altri due sono "La vendetta dei quarantasette ronin" e "Miyamoto Musashi"): come spiegherà lo stesso regista, a quei tempi "si poteva girare solo questo genere di opere". La vicenda è ambientata verso la fine dell'era Tokugawa, nel pieno delle tensioni fra lo shogunato e i ribelli favorevoli alla restaurazione del potere imperiale. Il protagonista è Kiyone, fabbro al servizio del samurai Onoda Kozaemon, di cui è quasi un figlio adottivo e della cui figlia Sasae è innamorato. Quando la spada del suo signore, da lui forgiata, si spezza durante un combattimento facendolo cadere in disgrazia agli occhi dello shogun, Kiyone medita dapprima il suicidio (ma è trattenuto da Sasae) e poi si dà al bere. Dopo la morte di Onoda, ucciso a tradimento dal nobile Naito al quale l'uomo aveva rifiutato la mano della figlia, il fabbro troverà però lo stimolo e la forza per forgiare una spada invicibile, con la quale proprio Sasae vendicherà il padre sconfiggendo Naito in duello. Pur non essendo certo da annoverare fra i capolavori di Mizoguchi (e che non sia una pellicola "personale" e sentita lo dimostra l'insolito, per il regista, lieto fine a sfondo romantico), il film offre comunque alcuni buoni momenti, come la suggestiva scena dell'incontro fra Kiyone e Sasae sotto il chiaro di luna e soprattutto quella della forgiatura della spada, quando all'assistente del fabbro, stremato nella battitura dell'acciaio, si sostituisce (anche se solo in spirito, per mezzo di una sovrimpressione sulla pellicola) proprio la ragazza: un'idea che sarà ripresa – sul piano sonoro anziché visivo – nel finale de "I racconti della luna pallida d'agosto".

28 agosto 2010

Father and daughter (M. Dudok de Wit, 2000)

Father and daughter
di Michaël Dudok de Wit – Olanda/GB 2000
animazione tradizionale
***

Visto in divx alla Fogona.

Dal regista de “Il monaco e il pesce” ecco un altro splendido film, vincitore fra l'altro dell'Oscar per il miglior cortometraggio animato nel 2001. Una bambina, in compagnia del padre, percorre in bicicletta un viale alberato ai margini di campi e coltivazioni, fino a giungere al limitare delle acque. Qui il genitore si allontana con una barchetta, lasciando la figlia ad attenderlo inutilmente. Per tutta la vita la ragazza continuerà a recarsi in bici al molo da cui il padre è partito, nella speranza di vederlo tornare, il che non le impedirà nel frattempo di vivere pienamente la propria esistenza. La delicatezza dei disegni, con personaggi in silhouette e acquerelli che illustrano il paesaggio, la natura e le stagioni, e la bellissima colonna sonora che ricorda Yann Tiersen lo rendono un piccolo gioiellino da vedere e rivedere (dura soltanto otto minuti). Naturalmente l'intero episodio non è che una delicata metafora della morte.

On your mark (H. Miyazaki, 1995)

On your mark
di Hayao Miyazaki – Giappone 1995
animazione tradizionale (video musicale)
**1/2

Visto in divx alla Fogona.

Per il video della canzone "On your mark" (interpretata da Chage & Aska, una delle coppie più celebri del pop giapponese fra gli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta), Hayao Miyazaki e gli animatori dello studio Ghibli hanno realizzato un vero e proprio minifilm di sette minuti. L'ambientazione è fantascientifica: in una megalopoli sotterranea, dove l'umanità si è rifugiata per paura della contaminazione radioattiva, due poliziotti (alter ego degli stessi Chage & Aska) cercano di restituire la libertà a una ragazza con le ali d'angelo, dapprima tenuta prigioniera da una setta religiosa e poi dagli scienziati dell'esercito. Un primo tentativo di fuga va male, ma il video ne mostra subito dopo un secondo che invece si conclude con il lieto fine: i tre personaggi giungono in superficie dove scoprono che la natura è rifiorita e che la vita è di nuovo possibile. Disegni e animazione sono accattivanti e recano l'inconfondibile firma di Miyazaki (riconoscibile soprattutto nel character design), mentre la canzone – se non proprio memorabile – è almeno orecchiabile.

Cat soup (Tatsuo Sato, 2001)

Cat soup (Nekojiru-so)
di Tatsuo Sato – Giappone 2001
animazione tradizionale
**

Visto in divx alla Fogona.

Cortometraggio animato bizzarro e surreale, delirante e grottesco. Dopo aver salvato la sorellina maggiore dalla Morte, riportandola però a casa con soltanto metà anima, un gattino viene inviato dalla mamma insieme a lei ad acquistare del tofu. Lungo la strada i due fratellini si fermeranno ad assistere allo spettacolo di un circo, ma saranno sorpresi da un diluvio universale e vagheranno dapprima su un arca (in compagnia di un maiale che fornirà loro il cibo necessario alla sopravvivenza) e poi – calate le acque – in un deserto. Qui faranno molti incontri, fra cui quello con un orco che vuole cucinarli in un pentolone (da cui il titolo), ma alla fine riusciranno a tornare a casa. Quella diretta da Sato (co-autore della sceneggiatura insieme all'animatore Masaaki Yuasa) è una fiaba piena di inventiva ma con troppa carne al fuoco. Benché non manchi la curiosità di scoprire come prosegue la vicenda, la visione stufa presto: non tanto per i disegni infantili, che pure nascondono una vena di crudeltà, quanto per l'accumulo di personaggi, situazioni e simboli che si succedono a ritmo vertiginoso. Troppa creatività, a volte, diventa controproducente.

3 agosto 2010

Buone vacanze!

Anche quest'anno è giunto il momento di staccare per un po'. Vado in vacanza: ci rileggiamo fra un mesetto!

2 agosto 2010

Il conformista (B. Bertolucci, 1970)

Il conformista
di Bernardo Bertolucci – Italia/Francia 1970
con Jean-Louis Trintignant, Stefania Sandrelli
***1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Marcello Clerici (Trintignant) cerca continuamente di omologarsi alla massa ("Tutti vorrebbero sembrare diversi dagli altri, e tu invece vuoi somigliare a tutti", gli dice l'amico Italo): per questo motivo ha deciso di sposarsi con Giulia (Sandrelli), una ragazza mediocre e borghese che in realtà non ama, e per lo stesso motivo aderisce al partito fascista, entrando addirittura a far parte della polizia segreta ("La gente collabora con noi per paura, per soldi o per fede fascista: voi, invece, per nessuno di questi motivi"). La sua missione lo porterà a Parigi – con la copertura del viaggio di nozze – per riallacciare i contatti con il professor Quadri, un suo vecchio docente che ora vive in esilio ed è membro di un movimento di resistenza antifascista. L'ordine è quello di eliminarlo: ma innamoratosi di Anna, la giovane moglie del professore (una seducente e ambigua Dominique Sanda), alla resa dei conti si rivelerà incapace sia di uccidere Quadri (ci dovranno pensare altri agenti dell'Ovra) sia di salvare la donna. Nei film di Bertolucci i temi politici e sociali si intrecciano spesso con quelli individuali e psicologici, e anzi i primi dipendono da questi ultimi. "Il conformista" ne è un perfetto esempio, con il suo spietato ritratto di un personaggio privo di ideali, che aderisce al fascismo e a valori a lui estranei (la religione, la famiglia) soltanto perché mosso da un'ostinata "ricerca della normalità" che affonda le sue radici nei traumi sessuali subiti nell'infanzia e nel rifiuto di una famiglia decadente (un padre malato di mente, una madre dissoluta e morfinomane). Il protagonista è l'emblema dei molti italiani che si professarono fascisti durante il ventennio, per poi passare dall'altra parte della barricata alla caduta del regime. L'omonimo romanzo di Alberto Moravia è adattato cinematograficamente in maniera sontuosa, grazie anche alla fotografia di Vittorio Storaro (che sfrutta in maniera magistrale luci, ombre, colori e tonalità calde o fredde), alle imponenti scenografie di Ferdinando Scarfiotti (che ricostruisce i marmorei palazzoni del potere, i manicomi, le ville borghesi, le strade di Parigi), della musica di Georges Delerue e delle intepretazioni di un ottimo cast (ci sono anche Gastone Moschin, nei panni dell'agente fascista Manganiello; Enzo Tarascio, in quelli del professor Quadri; José Quaglio, l'intellettuale cieco Italo; Pierre Clementi, il vetturino pederasta Lino; e Yvonne Samson, la madre di Giulia). La complessa sceneggiatura è temporalmente destrutturata: si inizia in media res, a Parigi, e gli antefatti vengono narrati attraverso una serie di flashback.

1 agosto 2010

Strategia del ragno (B. Bertolucci, 1970)

Strategia del ragno
di Bernardo Bertolucci – Italia 1970
con Giulio Brogi, Alida Valli
***1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

In un'assolata estate, il giovane Athos Magnani fa ritorno a Tara, il paesino della "Bassa" padana dove suo padre (che portava il suo stesso nome) è morto da eroe antifascista prima che lui nascesse, ucciso a tradimento nel 1936 da un sicario di cui l'identità è sempre rimasta ignota. Il borgo, isolato dal mondo, vive su ritmi tutti suoi e nel ricordo del suo unico eroe, cui sono intitolate strade e monumenti; ma Draifa, la sua vecchia amante, è convinta che l'assassino viva ancora fra la gente del posto e chiede ad Athos di indagare, a costo di togliere la polvere dagli scheletri del passato e di scoprire che la verità ha anche un lato oscuro e ambiguo. Liberamente tratto da un racconto di Borges ("Tema del traditore e dell'eroe", da "L'aleph"), questo affascinante lungometraggio ha sicuramente come punto di forza l'ambientazione: un paese pigro e vuoto, reso ancor più desolato dalla calura estiva, che vive nel passato ("Ma non ci sono giovani in questo paese?", si chiede Athos) e nella memoria, dove ognuno custodisce gelosamente segreti e misteri, fra sagre rurali, l'onnipresente musica di Verdi, il culatello e la trippa, il vino, le biciclette, i giochi dei bambini: è lo stesso scenario che in seguito, spogliandolo in parte dall'atmosfera sospesa e surreale, Pupi Avati virerà in chiave horror con "La casa delle finestre che ridono", ma che qui – dietro la patina del giallo – prefigura in parte "Novecento", benché su scala ridotta (l'insignificanza di Tara all'interno delle dinamiche globali si rivela tutta nel finale, quando le erbacce sui binari del treno suggeriscono la scarsa frequenza con cui il paese è collegato al resto del mondo). Il cast comprende anche Pippo Campanini, Franco Giovannelli e Tino Scotti nei panni dei tre vecchi amici del padre di Athos: il loro piano di assassinare Mussolini mentre si trova a teatro ad assistere al "Rigoletto" mi ha fatto pensare alla scena clou di "Bastardi senza gloria" di Tarantino, in cui si progetta di uccidere Hitler mentre è al cinema. In ogni caso, il film è visivamente splendido: notevole, in particolare, la qualità pittorica delle scenografie (gli scorci delle vie e delle case rimandano a De Chirico, mentre i titoli di testa scorrono su immagini di opere di Ligabue). Il film è stato girato a Sabbioneta: Tara, nome di fantasia, era quello della piantagione di Rossella O'Hara in "Via col vento".